Don Milani sacerdote, non tribuno

Il Priore di Barbiana aiuta anche oggi a smarcarsi dalle «prove esibizionistiche dell’attivismo ecclesiastico» e dalle operazioni dei piccoli tribunali dottrinali mediatico-clericali che affliggono l’attuale stagione ecclesiale: «Delle mie idee non m’importa nulla. Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee»

di Gianni Valente
Roma


Prima di morire, don Lorenzo Milani aveva lasciato istruzioni precise su come voleva essere vestito per il suo ultimo viaggio verso il piccolo cimitero di Barbiana. Voleva addosso i paramenti sacri per le liturgie solenni, e ai piedi gli scarponi di montagna, avvezzi fango e dalla polvere del monte Giovi. Da cinquant’anni, schiere di tifosi distratti e di detrattori accaniti hanno il vezzo di cucire divise improbabili sull’icona del Priore di Barbiana, scomparso il 26 giugno 1967, e ridotto di volta in volta a tribuno dei poveri, castigatore delle ipocrisie clericali e delle «massonerie cattoliche». Oppure, sull’altro fronte, dipinto come piccolo despota giacobino, ispiratore di un classismo forsennato.
Anche oggi, con la visita di Papa Francesco a Barbiana, stereotipi nuovi e riciclati sono in agguato. Il Priore Milani rischia di vedersi appioppare vestiti e coccarde dei conformismi clericali di nuovo conio, magari modellati sul frasario della “Chiesa in uscita”. L’antidoto più efficace, oggi come allora, è guardare a don Lorenzo sine glossa. E riconoscere qual era l’unico vestito che gli garbava. Quello che ha sempre portato. «Don Lorenzo», ha detto uno dei suoi ragazzi, «non è che si mettesse la tuta d’operaio per stare vicino al popolo. Non ha mai messo tute da operaio. Ha sempre fatto il prete, e basta».
«Sto nella Chiesa per i sacramenti. Non per le mie idee»
Per Lorenzo – così raccontò il suo padre spirituale, don Raffaele Bensi - «il cristianesimo era una cosa nuovissima. Perché incontrare Cristo, impadronirsene, derubarlo, mangiarlo, fu tutt’uno. Fino a pigliarsi un’indigestione di Gesù Cristo». Da attenta cronista qual’era, Neera Fallaci, la sua prima, appassionata biografa, definiva come «assai probabile che la conversione [di Milani] si sia stabilita sui sacramenti della confessione e dell’eucaristia: punto focale dello stesso suo sacerdozio».
Alla madre ebrea agnostica, che manifestava tutti i suoi dubbi amari per la scelta del figlio di entrare in seminario per diventare sacerdote, Lorenzo cercava di spiegare che tale proposito non poggia su una sicurezza empia e presuntuosa, ma sulla grazia donata dai sacramenti. Le scriveva: «Te vuoi dire che è troppo presto per me per sapere se seguiterò tutta la vita a volere così. Io ti rispondo che è di fede (Concilio Tridentino) che nessuno può essere sicuro della propria perseveranza (eccetto naturalmente la signora Cesarina e tutte coloro che fanno la comunione per nove primi venerdì del mese). Ma ciò che non possiamo sperare dalle nostre forze lo possiamo sperare dal Signore che in fondo vuole così».
Più tardi, il sarcasmo senza appello di Lorenzo stroncherà anche «l’odor di moccolaia» del seminario, confezionando invettive «per ogni discorsino ben fatto, per gli argomenti spirituali e “formativi”» di quel mondo «in cui le porcherie si chiamano finemente: mancanza contro la santissima purità, la vigliaccheria tiepidezza, l’odio poca carità, la bestemmia pratica un attimo di aridità spirituale». Ma la percezione di non poter vivere senza i sacramenti diventerà in lui sempre più acuta.
In una sua sparata – rimasta registrata su un nastro - contro gli intellettuali borghesi e la loro stampa illuminata, Milani dice ai suoi ragazzi della scuola di Barbiana: «Per me che l’ho accettata, questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica l’Espresso. La assoluzione dei peccati me la dà un prete. Se uno vuole il perdono dai peccati si rivolge al più stupido, arretrato dei preti pur di averla. (…). In questa religione c’è fra le tante cose, importantissimo, fondamentale, il sacramento della confessione dei peccati. Per il quale, quasi per quello solo, sono cattolico. Per avere continuamente il perdono dei miei peccati. Averlo e darlo».
La stessa esperienza delle necessità dei sacramenti guiderà l’atteggiamento di don Lorenzo davanti alle incomprensioni e ai colpi subiti da parte dell’autorità ecclesiastica: «Non si riuscirà a trovare in me la più piccola disubbidienza proprio perché, prima di ogni altra cosa, mi premono i sacramenti. E nessuno riuscirà a farmi disubbidire. Il primo ordine che il vescovo mi dà, se lui mi sospendesse eccetera, io mi arrendo immediatamente. Rinuncio alle mie idee. Delle mie idee non m’importa nulla. Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee».
Un mondo che finiva
Negli anni del dopoguerra italiano, mentre lo stesso Pier Paolo Pasolini accarezza il mito della vita contadina sbirciato durante l’infanzia e l’adolescenza, Milani negli ambienti proletari e rurali in cui gli capita di vivere il suo sacerdozio preavverte invece l’avvizzire della memoria cristiana e il suo dissiparsi in ridondante posa borghese anche nei cuori degli operai e dei contadini. I preti non se ne sono ancora accorti, ma sta venendo meno la fede nel conforto ordinario della vita sacramentale, anche in tanti di quelli che per abitudine sociale ancora prendono ancora parte a messe e processioni.
A San Donato di Calenzano e poi a Barbiana, l’irrequietezza di don Milani esprime anche lo scandalo rispetto a apparati ecclesiali che gli appaiono preoccupati solo di far fronte comune coi ricchi e gli industriali: «Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti». Ma la sua angoscia davanti alle strade imboccate dagli apparati ecclesiastici non ha niente di sociologico. Essa è un grido di fede davanti alla mutazione genetica che va cancellando anche nel clero la percezione della natura sacramentale della Chiesa, e la sostituisce con i fasti dell’organizzazione e della mobilitazione auto-promozionale.
Don Milani stronca in maniera fin troppo sommaria i preti tutti presi a organizzare attività ludiche e ricreative per “attirare i giovani”, in angosciosa gara coi circoli comunisti. In quegli anni, cominciano le «prove esibizionistiche dell’attivismo ecclesiastico» che hanno raggiunto oggi espressioni ben più grottesche. Iniziano a spuntare allora i preti chitarristi, cantanti, tuffatori e quelli che organizzano sfilate di indossatrici per “cristianizzare” l’ambiente della moda. Forme embrionali dei preti-manager e dei monsignori-strateghi multimediali che oggi dettano legge. Un accaparramento clericale di ruoli e di funzioni dove si perde di vista l’unica missione che compete al prete in quanto tale: la cura d’anime attraverso i sacramenti. «Non si può esigere la supervisione su tutti gli aspetti della vita del nostro popolo», scrive Milani. Secondo lui, l’idea che il prete possa monopolizzare tutte le funzioni e i ruoli legati alla vita comunitaria «non è fede nel sacerdozio, ma superbia volgare. Del sacerdote la fede ci dice solo che è latore dei sacramenti; solo per quelli è insostituibile».
L’infallibilismo dei «cardinali giornalisti»
La serena fiducia nella vita di grazia che nutre e sostiene la Chiesa, personalmente sperimentata nei sacramenti, è anche l’autentica sorgente del coraggio mostrato da Lorenzo nello smascherare il tradimento della Tradizione operato da settori clericali che più pretendono di imporre le proprie predisposizioni ideologiche presentandole come espressioni della dottrina della Chiesa. Nel suo articolo “Un muro di foglio e di incenso” – inviato a una rivista della sinistra cattolica nel 1959, ma pubblicato su l’Espresso solo dopo la sua morte -, Milani inserisce considerazioni che appaiono di singolare attualità, rispetto alla proliferazione di piccoli tribunali dottrinali mediatico-clericali che affligge l’attuale stagione ecclesiale.
«Una falsa opinione pubblica», scriveva già allora don Lorenzo, «attribuisce ai cattolici di destra lo strano privilegio di apparire come quelli che viaggiano al sicuro, saldamente agganciati alla roccia della Chiesa». In realtà, notava don Milani, le cose non sono così semplici. Perché «la via che conduce alla verità è stretta e ha da ambo i lati precipizi». La pretesa dei molti agenti e apparati clericali – suggeriva già allora don Milani – è quella di attribuirsi l’infallibilità che il Concilio Vaticano I ha riconosciuto solo ai pronunciamenti ex cathedra del Successore di Pietro. «L’austerità del dogma in cui crediamo», scriveva don Lorenzo, «la vorrebbero stirare come una trippa per coprire tutto quello che fa comodo a loro e poi buttarcela in faccia col sospetto di eretici». Invece, «la dottrina dice che il Papa è infallibile. Eretico è chi lo nega e eretico è chi estende a altri questo attributo». Di conseguenza, «cattolico è chi ricorda che cardinali e vescovi sono creature fallibili. Eretico è chi mostra per loro un rispetto che travalica i confini del nostro Credo».
Milani rappresentava come repellente «una Chiesa in cui si debba sottostare giorno per giorno alle opinioni personali e agli umori di ogni cardinale»
. E tornava a confessare la fede che gli custodì fino alla fine l’anima dai colpi della persecuzione clericale: «Noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza i suoi sacramenti e senza il suo insegnamento. Accetteremo da lei ogni umiliazione, anche, se sarà necessario di inginocchiarci davanti a Gedda Caudillo d’Italia, ma dovrà dircelo il Papa, con atto solenne che ci impegna nel dogma. E fino a quel giorno vivremo nella gioia della nostra libertà di cristiani. Il peggio che ci potrà capitare sarà di esser combattuti da fratelli piccini con armi piccine, di quelle che tagliano la carriera. Ma son armi che non taglian la Grazia né la comunione con la Chiesa».
www.lastampa.it/…/pagina.html