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Breve ed efficace spiegazione dei 7 vizi capitali: L'ACCIDIA, il vizio che merita di essere vomitati da Dio!

“Conosco le tue opere, so che tu sei né freddo né caldo.
Oh, fossi tu almeno o freddo o caldo! Ma poichè sei tiepido, né freddo né caldo, io stò per vomitarti dalla mia bocca.
Tu vai dicendo: Io sono ricco e dovizioso e non ho bisogno di nulla; e non sai che sei meschino e miserabile e povero e cieco e nudo!”
(Ap 3, 15-17)


Si è di solito portati a credere che soltanto le passioni violente prevalgano sulle altre, ma l’esperienza dimostra che anche l’accidia, a prima vista meno pericolosa, arriva a predominare con la sua lenta ma inesorabile azione. È segnata per ultima nel tradizionale elenco dei vizi capitali, non perché sia trascurabile, ma quasi per ricordare a modo di denominatore comune che è essa a prestare il terreno favorevole all’incubazione e allo sviluppo degli altri vizi.

L’accidia è il trascurare consapevolmente i doveri religiosi per evitare lo sforzo che la loro osservanza richiede.

Quindi non è l’aridità di spirito, che è semplicemente una certa mancanza di fervore sensibile in chi è già impegnato nella pratica delle opere buone; non è l’istintiva ripugnanza che la natura umana sente anche per la minima occupazione che esiga sacrificio; non è la svogliatezza che può sorprendere per stanchezza o malattia o indisposizione o malumore; e non è nemmeno la pigrizia, che si riferisce alle cose terrene della vita. Rassomiglia però stranamente all’invidia, in quanto questa si rattrista del bene altrui mentre l’accidia del bene proprio: è quindi una specie di invidia contro se stesso.

E difatti l’accidioso agisce così: non dichiara l’intenzione di abbandonare la Fede, ma non prega, non frequenta i sacramenti, non si preoccupa dello stato della sua anima, non pensa all’eternità, lascia crescere in sé le inclinazioni disordinate, critica la Chiesa perché chiede questo o quello, non impara la dottrina cristiana per non sapere di avere nuovi obblighi, non è attento alle ispirazioni della Grazia alle quali anzi resiste facilmente, comincia talvolta l’opera religiosa ma poi o la smette subito o la esegue imperfettamente, rifugge dalle mortificazioni prescritte, si pente di un peccato ma poi ci ricade più pesantemente, non si preoccupa di correggere i suoi difetti, si irrita contro le prediche lunghe o pungenti, sottovaluta le ammonizioni che i buoni gli danno, non impedisce il male che potrebbe impedire, sente crescente avversione alle cose spirituali, si scaglia contro quelli che praticano la religione, si sottrae all’adempimento dei doveri del suo stato, reagisce al rimorso che affiora di tanto in tanto in lui, si crede spiritualmente più debole di quello che è, immagina più difficoltà di quante ce ne siano per fare il bene, cerca consolazioni nelle cose illecite, avverte noncuranza e anche disprezzo di Dio, comincia a disperare della propria salvezza eterna.

Ci sono dunque nell’accidioso peccati di pensiero, di parole e di opere, più numerosi di quanto si creda a un primo momento: la pusìllanimità, il torpore, la dissipazione, la detestazione dei beni spirituali, il cattivo esempio, l’attaccamento alle comodità, l’indignazione contro i buoni, l’incostanza, lo scoraggiamento, la trasgressione dei comandamenti di Dio e dei peccati della Chiesa, la disperazione della salvezza eterna.

E c’è anche più malizia di quanto sembrerebbe al primo sguardo. L’accidioso va contro Dio e persino contro se stesso. Contro Dio perché non vuole servirlo né amarlo né sperare in lui né goderlo, e quindi egli è ribelle, offensore, ingrato. Contro se stesso perché, non facendo per Dio quello sforzo che pur fa per tutte le altre faccende della vita, egli si interdice l’unica, vera felicità possibile su questa terra, cioè il godimento di Dio; è quindi anche uno stolto!

È pertanto una situazione ben grave. Non è ancora la morte, ma è certamente quel languore che conduce ad essa, insensibilmente ma inevitabilmente. Non c’è praticamente una sola azione nella quale non ci si possa macchiare di accidia, o nel cominciarla o nel continuarla o nel terminarla. Si può mancare per negligenza, interessandosi poco o nulla delle verità che riguardano la salvezza dell’anima per inseguire altre cose più o meno inutili; per timore, paventando troppo le difficoltà che si incontrano nel fare il bene; per timidità, non osando mostrare il bene che si sa e quello di cui si è capaci; per languore, adempiendo le pratiche religiose per pura formalità, senza voglia e con intenzioni opportunistiche; per incostanza, intraprendendo opere buone ma poi abbandohandole senza motivo; per avversione, non mettendo in esecuzione i buoni consigli dati da quelli che hanno scoperto i difetti; per disperazione, pensando di non potere in nessun modo superare gli ostacoli che si oppongana al miglioramento spirituale.

Si può ben dire che non c’è peccato senza accidia. ”Chi dice: mi fermo e non scendo più giù, è giàcaduto” (S. Agostino). “È già un gran male il non fare alcun bene” (S. Francesco di Sales). È difficile convertire a migliori propositi un accidioso incallito, più di quanto sia convertire un peccatore impenitente. È più alto il numero dei veri accidiosi che quello dei veri peccatori.

I danni prodotti da questo vizio non appaiono subito, ma forse proprio per questo sono più rovinosi. Infatti l’accidia impedisce la perfezione, snerva la volontà, addormenta la coscienza, rende più insistenti e più forti le tentazioni, toglie il gusto delle cose spirituali, predispone a colpe peggiori, compromette l’eterna salvezza.

I castighi non possono mancare. Ne dà idea Gesù Cristo quando dice: “Ogni albero che non produce buoni frutti, viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 7,19). L’albero raffigura il cristiano, l’infruttuosità rappresenta l’accidia del cristiano, il taglio e il bruciamento indicano la morte e la punizione dell’accidioso. Dunque l’albero è tagliato e bruciato non perché abbia prodotto frutti cattivi, ma semplicemente perché non ha fatto frutti buoni. A quel fico sterile Gesù disse: “Nessuno mai più in eterno mangerà frutto da te” (Mc 11,14).

Le vergini furono escluse dalla festa nuziale non perchè si fossero macchiate di qualche bruttura ma perché erano sprovviste di olio, cioè di opere buone (Mt 25,10).

Non era ladro od omicida quel servo che il Vangelo dice gettato nelle tenebre dove c’è pianto e stridore di denti, ma un accidioso che non aveva trafficato il talento secondo la volontà del padrone (Mt 25,30).

Chi è vittima di questo vizio può tornare al fervore gioso se alimenterà il suo spirito con la forza di alcuni convincimenti, come questi: lo scopo della vita è uno solo: salvarsi l’anima, non stancarsi mai di compiere opere buone, aspirare a un grado di perfezione più alto di quello che si è raggiunto, Dio è sempre prontissimo a sostenere il nostro sforzo, il Paradiso ripaga immensamente qualunque sacrificio.
La virtù che combatte l’accidia è la diligenza, ossia cura sollecita e assidua nell’imparare ed eseguire tutto, ciò che riguarda il servizio di Dio, in altri termini l’amore al proprio dovere religioso. Essa include prontezza nel cominciare ad adempiere ciò che deve fare, attenzione nel continuarlo nonostante le difficoltà che ne ritardassero o impedissero l’adempimento, tenacia nel compiere sino in fondo il proprio dovere con la letizia di avere servito, amato e goduto Dio.

La diligenza è un grande atto di amore a Dio, una dichiarazione di obbedienza alla sua volontà che si riconosce nell’impegno da assolvere, una protesta di fedeltà alla sua legge che si accetta non solo nel suo complesso ma anche nei suoi particolari; non semplicemente fa compiere il bene ma lo fa compiere bene, tanto nelle grandi azioni quanto in quelle piccole, nonostante il peso della noia e l’attrattiva delle distrazioni. È considerata “piccola virtù”, ma è anch’essa costosa, meritoria e necessaria.

Quanto brilla nella condotta dei migliori! San Pasquale, mentre giovane pascolava le pecore, fermava i passanti per farsi insegnare le lettere dell’alfabeto e così imparare a recitare le preghiere dell’Ufficio della Madonna. S. Ignazio di Loyola segnava ogni giorno le sue mancanze su un librettino, che fu poi trovato sotto il guanciale, dopo morte.

S. Giovanni Battista de la Salle proponeva: “Almeno venti volte al giorno unirò le mie azioni a quelle di Nostro Signore: ogni volta bucherò un pezzo di carta…”. La beata Elena Guerra, per l’ansia di seguire bene la liturgia, volle imparare il latino, e dovette apprenderlo all’insaputa dei genitori, ascoltando dietro l’uscio le lezioni che un professore dava a suo fratello e studiando di notte alla debole luce di lanternine fatte da lei con gusci di noce riempiti di olio.

San Francesco di Sales, per ricordarsi il voto fatto di dire il Rosario intero ogni giorno, portava la corona pendente al braccio. Martino V fece incidere nel suo sigillo papale una fiamma ondeggiante perché gli ricordasse la fiamma eterna dell’Inferno.

Il buon Dio non si aspetta da noi la perfezione ma l’intenzione di cercarla, perché “chi conosce il bene che deve fare e non lo fa, commette peccato” (Gc 4,17) e lo sforzo di tendere ad essa, perché “non ci sarà richiesto di avere abbattuto l’albero, ma di essere stati trovati con la scure in mano” (Holderlin).

Autore:

Don Pasquale Casillo
Sam Gamgee
In inglese questo peccato e' definito curiosamente come ' Il demone di meta' giornata ' ( o di mezzogiorno ).
Stella cometa
Ho letto con interesse e ho compreso una nuova sfumatura dell'accidia