Catechesi sulle Parabole: La Parabola del fariseo e del pubblicano

9 Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10 «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12 Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13 Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14 Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». (Luca 18,9-14)

Insegnamento - Messaggio teologico:
Giustificazione di chi prega con umiltà.

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La parabola del fariseo e del pubblicano, è riportata in Lc 18,10-14, ed è propria dall'evangelista Luca. Raccomanda l'atteggiamento di umiltà nella preghiera.

Insieme a quella del giudice e della vedova (Lc 18,1-8) e a quella dell'amico importuno (Lc 11,5-8), è una delle tre parabole sulla preghiera che troviamo nel terzo Vangelo.

Contesto

La parabola si trova nella sezione in cui l'evangelista narra il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (Lc 9,51-19,27), e più specificamente nella sua seconda parte (13,22-18,30).

Ancora più in dettaglio, si colloca all'interno di una raccolta di detti (17,11-18,14) a carattere escatologico:

- la sezione inizia con la pericope dei dieci lebbrosi (17,11-19);

- essa prosegue con un brano chiamato piccola apocalisse, che riguarda l'avvento finale del regno (17,20-37);

- riporta poi la parabola del giudice e della vedova (18,1-8) e la parabola del fariseo e del pubblicano; entrambe sottolineano l'importanza della preghiera per l'attuazione del regno.

La conclusione della sezione, con l'esaltazione dell'umiltà (v. 14) è analoga alla conclusione della sezione precedente (Lc 16,1-17,10), che terminava con l'insegnamento per i discepoli di considerarsi "servi inutili" (Lc 17,10).

Insegnamento

La parabola insegna che Dio chiede all'uomo l'umiltà, il vuoto che egli colma con la sua grazia; in tal senso la parabola si colloca sullo stesso sfondo dottrinale delle parabole del Padre Misericordioso (Lc 15,11-32) e di Lazzaro e il ricco epulone (Lc 16,19-31): sono gli umili e i poveri che ottengono la salvezza.

In particolare la parabola raccomanda l'umiltà come atteggiamento fondamentale perché la propria preghiera possa essere accetta a Dio.

Nel contesto escatologico nel quale la parabola è inserita l'accento cade sul giudizio di Dio, che non dipenderà tanto dalle prestazioni dell'uomo e dall'esatta osservanza della Legge, ma dalla grazia divina: il fariseo della parabola rappresenta chi confida solo in se stesso, chi non si riconosce bisognoso di misericordia, chi presenta dei conti a Dio: chi si atteggia così non sarà giustificato.

La parabola ha quindi un secondo significato, centrato questa volta sull'immagine di Dio che trasmette: quella di un Dio che giustifica chi si avvicina a lui con la disposizione interiore dell'umile pentimento.

Note esegetiche

Lo stabilire un confronto tra il fariseo e il pubblicano nel quale il secondo riceve la lode ha nella parabola un carattere provocatorio, perché al tempo di Gesù i farisei erano stimati come persone giuste, mentre i pubblicani erano considerati pubblici peccatori.

L'azione di "salire" al Tempio corrisponde alla posizione geografica del Tempio di Gerusalemme, che è situato su un colle e in posizione più alta del resto della città.

Il fariseo
Il ritratto del fariseo che esce dalla parabola non rispecchia tanto il fariseo in se stesso, quanto la religiosità distorta di molti giudei del tempo, che pensavano di poter rivendicare dei diritti dinanzi a Dio per la loro osservanza scrupolosa della Legge.

Lo stare in piedi (v. 11) era la posizione normale per la preghiera; nella parabola suggerisce un atteggiamento orgoglioso.

La presunzione di essere giusti li rendeva superbi e sprezzanti nei confronti del prossimo, fino ad atteggiarsi come giudici degli altri. Il fariseo sale al Tempio non per pregare Dio, ma per vantare i propri meriti: nel suo cuore "al posto del Dio misericordioso s'è collocato l'io con tutta la sua vanità" (cfr. Lc 20,45-47, dove la denuncia di Gesù riguarda invece gli scribi).

Ed effettivamente il fariseo della parabola non esprime nessuna lode a Dio, nessun ringraziamento per i doni ricevuti, ma si profonde unicamente in un monologo di autoesaltazione. Gli altri uomini sono peccatori, egli è il prototipo della santità.

La forma in cui in fariseo vive i precetti della Legge supera quanto richiesto:

- il digiuno era richiesto una volta all'anno, nel giorno dell'espiazione (Lev 23,32); il fariseo digiuna due volte alla settimana (v. 11-12);

- il versamento al Tempio della decima era prescritto per i prodotti più importanti: grano, vino, olio, i primi nati del gregge (Lev 27,30.32; Dt 14,22-23); il fariseo la paga su tutti i frutti della terra (v. 12).

Il pubblicano
Il pubblicano dipinto nella parabola doveva essere una figura eccezionale fra i suoi colleghi; egli rappresenta in realtà il peccatore che si pente e si umilia davanti a Dio; non ha neppure il coraggio di avvicinarsi al Signore: si tiene lontano, senza alzare gli occhi al cielo; riconosce la sua miseria ed è disposto a convertirsi.

Battersi il petto è un segno di pentimento (cfr. Lc 23,48), forse perché si credeva che tutto il male venisse dall'interno (cfr. Mt 15,18-19; Mc 7,20-23).

Anche se l'Antico Testamento conosce molti testi che esprimono pentimento - sono tipici i salmi penitenziali: 6; 32; 38; 51; 102; 130; 140 - il pubblicano usa una preghiera propria, ridotta all'espressione più semplice: "Abbi pietà di me peccatore".

A differenza del fariseo, il pubblicano non confronta la sua situazione con quella di nessuno.

Al tempo di Gesù le prescrizioni per il pentimento di un pubblicano erano durissime, e rendevano la conversione quasi impossibile. Tuttavia Gesù riconosce in varie circostanze la conversione di per lo meno qualcuno di essi (Mt 21,31-32; Lc 3,12; 7,29.34), e sono emblematici i casi di Levi-Matteo (Mc 2,14; Lc 5,27-28) e Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco (Lc 19,1-10); certamente Gesù permetteva ai pubblicani di avvicinarsi a lui e condivideva con essi la tavola (Mt 9,10-11; 11,19; Mc 2,15-16; Lc 5,29-30; 15,1).

Il giudizio sui due
La parabola esprime il giudizio di Dio: il pubblicano torna a casa sua giustificato, il fariseo no.

Ciò non significa che venga lodata la condotta peccaminosa del pubblicano, ma che la giustificazione giunge all'uomo non per quanto fa, ma come un dono di Dio da accogliere nell'umiltà.

Questo versetto è l'unico in tutti i Vangeli in cui l'espressione "essere giustificato" ha lo stesso senso che ha nelle lettere di San Paolo (cfr. Rm 3,28): tuttavia sembra che non vi si debba vedere un influsso diretto di Paolo, perché il concetto è presente nell'Antico Testamento (Sal 32,1-2; 51,11-12) e negli scritti giudaici. La parabola non afferma che la giustificazione paolina per fede si applica al pubblicano, ma dà l'esempio di un uomo giustificato da Dio.

Riguardo al fariseo, non si dice che fu condannato, ma solo che il suo atteggiamento nella preghiera non era tale da ottenere la giustificazione davanti a Dio.

L'ultima parte del v. 14 è considerata un'aggiunta parenetica formulata in prospettiva escatologica: nel giudizio finale Dio esalterà l'umile e abbasserà il superbo (cfr. Lc 1,51-53), attuando quel rovesciamento di situazione che è frutto del paradosso del Vangelo. L'espressione, di carattere proverbiale, si trova anche in Lc 14,11, in Mt 23,12; in in una forma equivalente anche in Mt 18,4. Come nelle Beatitudini (cfr. Mt 5,4.6.7; Lc 6,21) il modo passivo dei verbi è da riferire all'intervento divino.

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Le fonti sono state prese da Cathopedia

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