Fatima.
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Ritornate, figli traviati! (Gr 3, 14).

La disputa sull’interpretazione del Concilio Vaticano II, se cioè esso debba essere visto come espressione di continuità e sviluppo della dottrina tradizioinale della Chiesa, ovvero come espressione di rottura con il passato, non è certamente una cosa nuova. Essa, anzi, si trascina avanti fin dal tempo dello stesso Concilio.
Se da una parte risuonano ancora le parole inequivocabili di Papa Benedetto XVI, riaffermanti “non [l’]ermeneutica della rottura nella discontinuità, ma della riforma e del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”, dall’altra una profluvie di pubblicazioni e di interventi ormai da cinquant’anni, con apparati filosofici più o meno pretenziosi, hanno opposto alla dottrina della continuità la necessità di sostituire alla “teologia della natura” – cioè fondata su una sostanziale stabilità della natura, dell’uomo e del cosmo – la “teologia della storia” – fondata, invece, su una radicale mutabilità dell’uomo e della realtà – in varie forme ermeneutiche – storiciste, classiste, esistenzialiste, femministe etc. – ma tutte convergenti verso la “teoria” – come tale ovviamente contraddittoria – che ogni concettualizzazione è relativa al proprio tempo, e che quindi quanto è stato espresso in passato deve necessariamente essere ripensato e sostituito con concetti e sensibilità proprie di una sempre rinnovata contemporaneità.
Che il mondo del pensiero e della spirito sia così fluido come pretendono le varie forme di ermeneutica oggi tanto ampiamente diffuse, è una convinzione che non resisterebbe ad una seria critica, se la maggior parte di quanti la sosengono fossero disponibili ad una seria critica ed auto-critica. Ma, non essendo questo il caso, ci troviamo di fronte al ripresentarsi puntuale di fenomeni tutt’altro che nuovi nella storia – e che perciò smentiscono la pretesa “novità” della “discontinuità”. In particolare, possiamo osservare il riapparire di “profeti”, “sacerdoti” e “sapienti” che, con la sicurezza di chi vanta una conoscenza superiore, si allontanano dall’alleanza con l’Altissimo illudendosi – e illudendo il popolo – di essere, invece, perfettamente in regola con le esigenze della fede.
Dovrebbe farci riflettere il fatto che, nella Bibbia, il grido, spesso ripetuto, dai veri profeti di Dio, contro il popolo sedotto dai falsi profeti, fosse: “Ritornate!”. Si ritorna verso qualcosa da cui ci si è allontanati, e ciò non ha molto a che fare con la “discontinuità”!
Piuttosto, la “discontinuità” richiama una pagina fondamentale del libro del Giudici, che è in qualche modo paradigmatica, nella Bibbia, di tutta la storia del popolo d’Israele, eletto da Dio, ma «di dura cervice» (tra gli altri luoghi, Es 33, 3) e sempre incline a sottrarsi ad obblighi troppo impegnativi:
«Il popolo servì il Signore durante tutta la vita degli anziani che sopravvissero a Giosuè e che avevano visto tutte le grandi opere, che il Signore aveva fatte in favore d’Israele. Poi Giosuè, figlio di Nun, servo del Signore, morì a centodieci anni e fu sepolto nel territorio, che gli era toccato a Timnat-Cheres sulle montagne di Efraim, a settentrione del monte Gaas. Anche tutta quella generazione fu riunita ai suoi padri; dopo di essa ne sorse un’altra, che non conosceva il Signore, né le opere che aveva compiute in favore d’Israele. Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal; abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dal paese d’Egitto, e seguirono altri dèi di quei popoli che avevano intorno: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore, abbandonarono il Signore e servirono Baal e Astarte» (Gdc 2, 7-13).
Il paradigma dell’oblio del patto con Dio e delle sue opere, dell’abbandono della sua legge, del cedimento alla seduzione degli dei e dei costumi stranieri, delle pretestuose e vane giustificazioni e sicurezze ammannite dai falsi profeti e dai sacerdoti corrotti ritorna come un “letmotiv” nella Bibbia, e soprattutto nei salmi e negli scritti profetici.

«Non siate come i vostri padri» si legge nel libro del profeta Zaccaria, «ai quali i profeti di un tempo andavan gridando: Dice il Signore degli eserciti: Tornate indietro dal vostro cammino perverso e dalle vostre opere malvage. Ma essi non vollero ascoltare e non mi prestarono attenzione, dice il Signore» (Zc 1, 4).

E nel salmo 105:
«Dimenticarono Dio che li aveva salvati,
che aveva operato in Egitto cose grandi,
prodigi nel paese di Cam,
cose terribili presso il mar Rosso (…)
Non sterminarono i popoli
come aveva ordinato il Signore,
ma si mescolarono con le nazioni
e impararono le opere loro.
Servirono i loro idoli
e questi furono per loro un tranello.
Immolarono i loro figli
e le loro figlie agli dèi falsi.
Versarono sangue innocente,
il sangue dei figli e delle figlie
sacrificati agli idoli di Canaan;
la terra fu profanata dal sangue,
si contaminarono con le opere loro,
si macchiarono con i loro misfatti» (Sal 105, 21-22.34-39).

Ma la testimonianza certamente più impressionante è quella di Geremia. Tutto il secondo capitolo del suo libro profetico dovrebbe essere oggetto di attenta meditazione per i fedeli di oggi, e specialmente per quanti hanno compiti sacerdotali, catechistici o teologici.
«Così dice il Signore» esordisce il profeta:
«Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza,
dell’amore al tempo del tuo fidanzamento,
quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata.
Israele era cosa sacra al Signore,
la primizia del suo raccolto;
quanti ne mangiavano dovevano pagarla,
la sventura si abbatteva su di loro.
Oracolo del Signore.
Udite la parola del Signore, casa di Giacobbe,
voi, famiglie tutte della casa di Israele!

Così dice il Signore:
Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri,
per allontanarsi da me?
Essi seguirono ciò ch’è vano,
diventarono loro stessi vanità
e non si domandarono: Dov’è il Signore
che ci fece uscire dal paese d’Egitto,
ci guidò nel deserto,
per una terra di steppe e di frane,
per una terra arida e tenebrosa,
per una terra che nessuno attraversa
e dove nessuno dimora?
Io vi ho condotti in una terra da giardino,
perché ne mangiaste i frutti e i prodotti.
Ma voi, appena entrati, avete contaminato la mia terra
e avete reso il mio possesso un abominio.
Neppure i sacerdoti si domandarono:
Dov’è il Signore?
I detentori della legge non mi hanno conosciuto,
i pastori mi si sono ribellati,
i profeti hanno predetto nel nome di Baal
e hanno seguito esseri inutili» (Ger 2, 2-8).

E poco dopo aggiunge:
«Recatevi nelle isole del Kittìm e osservate,
mandate pure a Kedàr e considerate bene;
vedete se là è mai accaduta una cosa simile.
Ha mai un popolo cambiato dèi?
Eppure quelli non sono dèi!
Ma il mio popolo ha cambiato colui che è la sua gloria
con un essere inutile e vano.
Stupitene, o cieli;
inorridite come non mai.
Oracolo del Signore.
Perché il mio popolo ha commesso due iniquità:
essi hanno abbandonato me,
sorgente di acqua viva,
per scavarsi cisterne, cisterne screpolate,
che non tengono l’acqua» (Ger 2, 10-13).

E, dopo aver richiamato le disgrazie che si sono abbattute sul popolo, aggiunge:
«Tutto ciò, forse, non ti accade
perché hai abbandonato il Signore tuo Dio?
E ora perché corri verso l’Egitto
a bere le acque del Nilo?
Perché corri verso l’Assiria
a bere le acque dell’Eufrate?
La tua stessa malvagità ti castiga
e le tue ribellioni ti puniscono.
Riconosci e vedi quanto è cosa cattiva e amara
l’avere abbandonato il Signore tuo Dio
e il non avere più timore di me.
Oracolo del Signore degli eserciti.
Poiché già da tempo hai infranto il tuo giogo,
hai spezzato i tuoi legami
e hai detto: Non ti servirò!
Infatti sopra ogni colle elevato
e sotto ogni albero verde ti sei prostituita.
Io ti avevo piantato come vigna scelta,
tutta di vitigni genuini;
ora, come mai ti sei mutata
in tralci degeneri di vigna bastarda?» (Ger 2, 17-21).

Ma sembra che fin da allora ci fossero molti che, pur avendo deviato dalla retta via del Signore, affermavano, invece, di essere perfettamente in regola – forse rifacendosi a qualche teoria della “discontinuità”:
«Perché osi dire: Non mi sono contaminata,
non ho seguito i Baal?
Considera i tuoi passi là nella valle,
riconosci quello che hai fatto,
giovane cammella leggera e vagabonda,
asina selvatica abituata al deserto:
nell’ardore del suo desiderio aspira l’aria;
chi può frenare la sua brama?
Quanti la cercano non devono stancarsi:
la troveranno sempre nel suo mese.
Bada che il tuo piede non resti scalzo
e che la tua gola non si inaridisca!
Ma tu rispondi: No. È inutile,
perché io amo gli stranieri,
voglio seguirli» (Ger 2, 23-25).

E non è solo il popolo ignorante a farsi deviare dall’alleanza del Dio del Sinai. Il profeta rivolge il suo rimprovero anche più in alto:
«Come si vergogna un ladro preso in flagrante
così restano svergognati quelli della casa di Israele,
essi, i loro re, i loro capi,
i loro sacerdoti e i loro profeti.
Dicono a un pezzo di legno: Tu sei mio padre,
e a una pietra: Tu mi hai generato.
A me essi voltan le spalle e non la fronte;
ma al tempo della sventura invocano:
Alzati, salvaci!» (Ger 2, 26-27).

Così tutto il popolo è stato traviato:
«Perché il mio popolo dice: Ci siamo emancipati,
più non faremo ritorno a te?
Si dimentica forse una vergine dei suoi ornamenti,
una sposa della sua cintura?
Eppure il mio popolo mi ha dimenticato
per giorni innumerevoli.
Come sai ben scegliere la tua via
in cerca di amore!» (Ger 2, 31-33).

Ma non per questo cessa di ritenersi in regola!
«Eppure protesti: Io sono innocente,
la sua ira è già lontana da me.
Eccomi pronto a entrare in giudizio con te,
perché hai detto: Non ho peccato!» (Ger 2, 35).

Il falso profeta troverà i più ingegnosi argomenti per dimostrare che le cose cambiano e che quello che ieri era considerato peccato ora non lo è più, e che, quindi, tutto va bene così. Il popolino si accontenta di dire che bisogna aggiornarsi e adattarsi ai costumi degli altri popoli – «perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali» (1Mac 1, 11) – ma la sostanza non cambia.

«Perché dal piccolo al grande
tutti commettono frode;
dal profeta al sacerdote
tutti praticano la menzogna.
Essi curano la ferita del mio popolo,
ma solo alla leggera, dicendo:
“Bene, bene!” ma bene non va.
Dovrebbero vergognarsi dei loro atti abominevoli,
ma non si vergognano affatto,
non sanno neppure arrossire» (Ger 6, 13-15).

Ovviamente la maggiore responsabilità è dei falsi profeti, che illudono il popolo parlando come se fossero inviati da Dio. Ma il Signore li smentisce per bocca di Geremia:
«Io infatti non li ho mandati – dice il Signore – ed essi predicono menzogne in mio nome; perciò io sarò costretto a disperdervi e così perirete voi e i profeti che vi fanno tali profezie» (Ger 27, 15).

Per tutti risuona il richiamo urgente del profeta. E di nuovo è un invito a tornare indietro all’alleanza eterna ed intramontabile del Dio del Sinai:
«Così il Signore:
“Fermatevi nelle strade e guardate,
informatevi circa i sentieri del passato,
dove sta la strada buona e prendetela,
così troverete pace per le anime vostre”.
Ma essi risposero: “Non la prenderemo!”» (Ger 6, 16).

Riflettendo su questi testi, possiamo legittimamente chiederci se, di là dalle ingegnose elucubrazioni teoriche, una qualsiasi teoria della “discontinuità” possa sottrarsi al sospetto di “infedeltà” all’alleanza e di cedimento agli “dei stranieri”. Come potrebbe armonizzarsi la teoria e la prassi di una “rottura” dottrinale e morale con l’appassionato grido di Geremia:
«Ritornate, figli traviati!» (Ger 3, 14)?

di Emanuele d’Agapiti

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