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Disastro mondiale ed ecclesiale: è giunta l'ora di pregare il Miserere in ginocchio col capo cosparso di cenere... Offro un commento

“Tu non hai ancora considerato seriamente quanto sia grave il peso del peccato”, sono parole di sant’Anselmo di Aosta quando s’interrogava sul perché sia stato necessario che Dio si facesse uomo per la redenzione dell’umanità. Il Miserere ci vuole aiutare a fare nostra la meditazione dolorosa sul peccato, ma che sia anche piena di speranza sulla misericordia e la bontà del Signore. Poi c’è una seconda parte che è invece piuttosto di contemplazione del mistero e dell’identità del Signore. Ma innanzitutto bisogna passare dalla meditazione sulla gravità del nostro peccato.

1. La richiesta di perdono

Di fatto, ad un certo punto il Miserere dice: «Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre». Vuole dire: il peccato è inciso profondamente nella mia vita. Non è come un vestito che io indosso e che posso togliere quando lo desidero, ma, diceva il profeta Geremia, è piuttosto come una pelle: “Può forse il Moro cambiare la sua pelle o la pantera cambiare il suo mantello? E voi potete forse fare il bene, abituati come siete a fare il male?» (Ger 13, 23). Il Miserere esprime questa dimensione di profondità con un’immagine temporale: «nel peccato mi ha concepito mia madre». Vuole dire: se io ritorno indietro fino all’inizio della mia vita trovo ugualmente il peccato. È come se io, disgustato dalla mia condizione di egoismo attuale, volessi andare indietro nella mia vita nel tempo passato per trovare un’epoca in cui il mio cuore era puro e la mia mente era sana. Ma non riesco a trovarlo, perché fin dal primo istante della mia vita mi sento segnato dalla realtà negativa del peccato. Per questo il Miserere dice: «il mio peccato mi sta sempre dinanzi». È come se fosse un tormento, una presenza scomoda e inquietante, alla quale vorrei sfuggire ma senza mai riuscirci, perché mi sta davanti come un’ossessione, come un incubo, poiché molti sono i crimini contro di te e i nostri peccati ci accusano. Diceva il profeta: «Siamo diventati tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia» (Is 64, 5a).

Ma che cos’è il peccato? Perché è così pesante da portare? Il Salmo lo dice attraverso una serie di immagini che cercano di introdurci e di accostarci alla comprensione di una realtà che rimane fondamentalmente incomprensibile (non si riesce a comprendere con la ragione, perché il peccato è un’espressione di irrazionalità, è la smentita della sanità del cuore e della mente dell’uomo).

La prima immagine è della macchia, quando dice: «Lavami... cancella il peccato». Dietro c’è quest’idea del peccato come una macchia che rovina la bellezza dell’uomo. Secondo il Libro della Genesi, Dio ha fatto l’uomo bello: «lo ha fatto a sua immagine e somiglianza» (Gen 1, 26), tanto che il Salmo può dire con stupore: «che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, lo hai coronato di gloria e di onore» (Sal 8, 5-6). È proprio questa gloria, che Dio ha messo sul volto dell’uomo, che è offuscata e macchiata con il peccato.

La seconda immagine è il debito. Il peccato è un debito, perché è una ribellione contro quel rapporto di alleanza che Dio ha voluto stabilire con l’uomo: «Dio è il nostro Dio, e noi siamo il suo popolo» (Sal 95, 7). Dio ha fatto di noi dei figli, c’è quindi un impegno, un debito di reciprocità; all’amore e alla generosità di Dio deve rispondere la fedeltà e l’obbedienza dell’uomo. Il peccato è una ribellione contro questo debito che abbiamo con Dio. Diceva il profeta Isaia: «Figli ho allevato e cresciuto, ed essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non capisce» (Is 1, 2b-3). Quell’amore che Dio ha donato con generosità al suo popolo, per farlo suo popolo, è stato rifiutato, non compreso da un Israele ribelle. Tanto che – di fronte alla ribellione d’Israele Dio rimane sgomento – si chiede ancora nel profeta Isaia: «Che cosa dovevo fare... che io non abbia fatto?» (Is 5, 4). Che cosa potevo offrire che io non abbia donato al mio popolo? Perché, mentre io mi aspettavo giustizia, ho trovato oppressione, falsità e menzogna?

La terza immagine è del fallimento di un progetto che aveva suscitato delle speranze e che in realtà è miseramente fallito, si è ripiegato su se stesso. Uno potrebbe pensare (perché questo è l’immagine che sta sotto ad un verbo del miserere) che ha l’arco allentato. Un arco allentato può cercare di gettare la freccia, ma non riesce a farla arrivare al bersaglio, perché cade prima di quella che è la sua meta, il suo obiettivo.

Ebbene, il peccato è questo: è la condizione dell’uomo che dovrebbe avere una meta e un obiettivo da raggiungere, e che invece si perde per la strada, cade e fallisce la sua vocazione, la sua chiamata. Il salmista del Miserere riconosce questo peccato con sincerità, perché dice: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi». E quel “riconosco” non vuole dire semplicemente: so di essere peccatore. Ma significa: sperimento tutto il dolore e l’avvilimento, e la vergogna del mio peccato mi pesa. È una conoscenza per l’esperienza che suscita dolore e nasce davanti a Dio per quello che viene riconosciuto come offesa a Dio: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto». Non c’è dubbio che il peccato è contro l’uomo, è offesa e distruzione del tessuto sociale, è umiliazione della persona umana. Ma in realtà si può comprendere la gravità del peccato solo quando si riconduce a Dio e ritrovo, nella mia menzogna verso il fratello, il mio rifiuto radicale di quel Dio da cui viene il mondo e la mia esistenza. Nel momento in cui io riconosco la mia colpa proclamo nello stesso tempo la giustizia di Dio. A questo non ci siamo molto abituati, ma nella Scrittura, nei Salmi, ritorna fuori abbastanza spesso, perché dice: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto; perciò sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio». Per capire un’espressione di questo genere bisogna pensare a Dio non solo come ad un giudice, ma come ad una parte lesa, che è in gioco; in quello che è il gioco della vita e della storia sono coinvolto io e Dio. C’è un patto, un’alleanza; ebbene di fronte alla realtà del peccato c’è qualcosa che in questo patto non ha funzionato. Gli Israeliti del tempo dell’esilio, che abbiamo ascoltato nel cap. 18° di Ezechiele, davano la colpa a Dio, proclamavano che quella punizione, quell’esperienza di esilio, era immeritata: è Dio che è venuto meno al suo impegno di proteggere Israele. Quando noi riconosciamo il nostro peccato, proclamiamo che Dio ha avuto ragione, che Dio è giusto, che se qualche cosa non ha funzionato è dalla nostra parte. Vuole dire: se il mondo non è così bello come dovrebbe, e se la Chiesa non è così santa come dovrebbe, non posso dare la colpa a Dio, la colpa la debbo assumere e portare io, «perché tu sei giusto quando parli», perché tu appaia giusto nel tuo comportamento e nelle tue parole, non sei venuto meno alla fedeltà; l’infedeltà è mia. Quando l’uomo proclama il suo peccato implicitamente proclama la giustizia di Dio; è una confessione della santità e della verità di Dio.

Ma questa confessione di colpa si manifesta nel modo più pieno, proprio negli imperativi che aprono la preghiera del Miserere. Il Miserere è fatto in ebraico con 17 imperativi, sono verbi che esprimono la richiesta, l’attesa e la speranza dell’uomo: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe». In ebraico sono tre verbi. In italiano la parola “pietà” sembra un sostantivo, ma in realtà non è il nome “pietà, è il verbo “abbi pietà”: «Guarda con benevolenza me, o Dio, secondo la tua misericordia». Quindi ci sono tre imperativi: “abbi pietà” – “cancella” – “lava”; sono il grido di chi si sente affondare nella morte e può solo chiamare aiuto. Perché l’uomo è in grado di produrre il peccato, ma non è in grado di uscire dal peccato. Per questo ha bisogno di Dio, di un aiuto, di una grazia, di un sostegno che gli venga dalla potenza e dalla misericordia di Dio.

Anzi soprattutto dalla misericordia, perché dice il Miserere: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; secondo la tua grande bontà cancella il mio peccato». In questo modo vengono richiamati alcuni termini che sono l’immagine fondamentale di Dio. Nel Libro dell’Esodo, quando Mosè vuole vedere il volto di Dio, Dio gli si rivela passandogli davanti proclamando il suo nome: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 6). Così si è presentato Dio e sono esattamente le parole del Miserere: «Pietà di me» – «Dio pietoso»; «secondo la tua misericordia» – «Dio misericordioso».

Ed è significativo come «nella tua grande bontà», voglia dire: «nel tuo grande amore viscerale cancella il mio peccato». Cosa dice questo? Che, quando Dio cancella il peccato dell’uomo, manifesta quello che lui è. Certamente, quello che Dio è, si manifesta nella creazione, quando Dio fa dal mondo il sole, la luna, le stelle, le piante... manifesta quello che è, cioè la sua potenza. Ma in realtà non c’è una manifestazione così vera e piena dell’identità di Dio come il perdono dei peccati. Perché l’identità di Dio, quella che Dio ha manifestato a Mosè, è questa: «Dio misericordioso e pietoso». Noi vediamo il Dio misericordioso e pietoso proprio nel perdono dei peccati. Dio non è mai così Dio (questo è un modo barbaro di parlare, ma intendete cosa voglio dire) come quando perdona. Una preghiera dell’Eucaristia dice: “O Dio, che manifesti la tua potenza, soprattutto con la misericordia e il perdono”. Sant’Ambrogio, quando spiegava l’“Hexaemeron”, i sei giorni della creazione, si chiedeva: «Come mai solo al sesto giorno Dio si è riposato? Perché leggo che Dio nel primo giorno ha separato la luce dalle tenebre, ma non leggo che si sia riposato. E dopo il secondo giorno non leggo che si sia riposato, nemmeno dopo il terzo e neanche dopo il quarto... Solo dopo il sesto giorno si è riposato, perché nel sesto giorno aveva creato l’uomo, e quindi aveva qualcuno a cui rimettere i peccati». Dio cercava qualcuno a cui rimettere i peccati, nei cui confronti manifestare la sua misericordia, la bontà, la fedeltà e il suo amore paterno. E quando lo ha trovato nella creazione dell’uomo, Dio ha potuto riposarsi perché la creazione era completa, non mancava più niente.

Per questo il Miserere nello stesso tempo è proclamazione del peccato dell’uomo e della misericordia di Dio; anzi la consapevolezza del proprio peccato nasce dalla conoscenza della misericordia di Dio. Quando ci guardiamo allo specchio non possiamo comprendere bene il nostro peccato, anche se sulla nostra faccia vediamo tutti i nostri difetti, quello che non funziona e non è bello; questo è solo un inizio, una propedeutica al senso del peccato. Il senso del peccato scaturisce quando la misericordia di Dio è misurata in tutta la sua grandezza. Allora appare, in tutta la sua gravità, l’infedeltà e la mancata risposta dell’uomo.

Questa consapevolezza del peccato diventa una supplica: «Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato». Ma questo chiedere il perdono è espresso nel Miserere anche in un altro modo, come la domanda di una richiesta di gioia: «Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato». E un po’ più avanti: «Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso». Le ossa spezzate” sono il simbolo di una vita fiaccata, di un’esistenza che non ha più sostegno. Le ossa danno al corpo umano la sua solidità e il suo sostegno, ma è venuto meno: la mia esistenza si è ripiegata su se stessa. Allora ho bisogno che Dio mi ridia la vita, la dignità di creatura e di suo figlio. Per questo chiedo il perdono secondo la sua misericordia, perché la mia vita possa rifiorire e rinascere la gioia.

Per questo bisogna che Dio distolga lo sguardo dai miei peccati: «Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe»; cioè che tiri via la faccia dal mio egoismo e dal mio orgoglio. Però qui c’è un aspetto sorprendente e paradossale, perché il versetto 11 dice: «Distogli lo sguardo dai miei peccati». Invece il versetto 13 dice: «Non respingermi dalla tua presenza». Allora mi chiedo: io debbo stare o no davanti a Dio? Dio deve guardare da un’altra parte o deve accogliermi alla sua presenza? Tutte e due le cose! è necessario che Dio mi accolga, e per me stare alla presenza di Dio, altrimenti non si vive. Dio è sorgente di vita e di gioia, non è possibile andarlo a cercare da un’altra parte: «Non respingermi dalla tua presenza», perché se tu non mi parli la mia vita precipita nell’oscurità della notte. Ho bisogno dello sguardo di Dio, ma che nello stesso tempo sia benevolo e accogliente; e che non stia misurando a valutare e a pesare il mio peccato, altrimenti lo sguardo di Dio diventerebbe di distruzione, di annientamento. Allora «distogli lo sguardo dai miei peccati», vuole dire: io chiedo a Dio di “non guardare il peccato, ma il peccatore” (cfr. Ez 33, 11), perché se il peccato ha bisogno di essere cancellato, il peccatore, cioè io, ho bisogno di essere accolto e di ritrovare dallo sguardo di Dio la mia gioia.

2. La richiesta di una nuova creazione

Ma il perdono è ancora di più. Il Miserere è fatto più o meno di due sezioni, la prima è questa richiesta di perdono che abbiamo tentato di esprimere. La seconda incomincia così: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo». Sottolineate quel verbo, quell’imperativo iniziale, “crea”, che non è messo lì a caso. Il verbo che è usato si ritrova nella Bibbia sempre con Dio come soggetto. In italiano diciamo che gli artisti creano, un poeta crea. Nella Bibbia questo verbo è riservato a Dio, è il suo; dice un’azione da Dio quale lui solo è in grado di compiere.

Proprio perché il peccato è radicato profondamente nel mio cuore, ho bisogno di un’azione che non può essere semplicemente umana di purificazione; ho bisogno di un’azione divina che è niente meno una creazione: «Crea in me, o Dio, un cuore puro». Il cuore è il centro della coscienza da cui escono i pensieri, i sentimenti e le decisioni dell’uomo. Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della libertà. Allora “un cuore puro” vuole dire: una libertà pulita non deformata dall’interesse o dall’egoismo, che non vede le cose secondo il proprio vantaggio, che non decide secondo le sue preferenze ma sa vedere la realtà e la sa accettare e riconoscere così com’è; cioè un cuore pulito che non ha doppi fini né maschere.

Insieme al cuore l’altra richiesta fondamentale è lo spirito, che è ricordato tre volte. In italiano se ne vedono due, ma in realtà il testo ne ha tre: «rinnova in me uno spirito saldo»;«non privarmi del tuo santo spirito»; «sostieni in me uno spirito (non un animo) generoso». Ed è quello che gli esegeti chiamano una triplice epìclesi. “Epìclesi” vuole dire: invocazione dello Spirito. Che facciamo nella Messa quando invochiamo lo Spirito, perché “il pane e il vino diventino il corpo e il sangue del Signore”. Poi invochiamo lo Spirito, perché la gente che è a Messa diventi “il corpo e il sangue del Signore”. È l’epìclesi, è il momento più solenne della celebrazione, perché è quello dell’intervento di Dio che dona, non qualche cosa, ma lo Spirito, cioè se stesso.

Dunque il perdono non consiste solo nel cancellare il male; questo sarebbe ancora troppo poco. Perché il perdono sia autentico bisogna che ci sia una creazione nuova, che si esprime nel cuore e soprattutto nello spirito.

Il quale spirito deve essere prima di tutto «uno spirito saldo». Anche questo è un po’ strano, perché la parola “spirito” in ebraico o in greco è la parola stessa che indica il vento; e se c’è qualche cosa di poco saldo, fermo e stabile è il vento. È invece no, è uno spirito che ha la leggerezza e la libertà del vento, ma che è stabile e fermo e di cui ci si può fidare, che non cambia capricciosamente il suo atteggiamento e che deve essere forte nella sua perseveranza e costanza. È quello che chiediamo al Signore, perché siamo così incostanti che se il Signore non ci dona lo Spirito noi non ce la caviamo. Diceva Osea: «La vostra pietà è come la nube del mattino, come la rugiada che svanisce presto» (Os 6, 4); vi entusiasmate, fate delle grandi celebrazioni penitenziali e poi durano per qualche istante, poi si ritorna alla propria inconsistenza. Ebbene «uno spirito saldo», consistente e fermo.

Poi «uno spirito santo». “Santo” vuole dire quello che il Signore aveva promesso e donato ad Israele, quando ha proposto l’alleanza al suo popolo: «Voi sarete per me... una nazione santa» (Es 19, 6); cioè una nazione che appartiene integralmente e totalmente a Dio, che non ha due o tre padroni, ma ha un unico Signore. «Li chiameranno popolo santo, redento dal Signore» (Is 62, 12a); «siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 11, 45). La somiglianza con lui, che mi permette di assomigliare a Dio e di essere santi come lui è santo, è solo il suo Spirito: «non privarmi del tuo santo spirito».

«Sostieni in me un animo generoso». Questa è la traduzione, ma il testo dice: «uno spirito principesco», cioè da principe. “Da principe” vuole dire: padrone; non uno spirito da schiavo, che fa le cose per timore e sottomesso a chissà quali condizionamenti. No, questo è un principe, è un re, che si muove liberamente e spontaneamente, che opera con generosità e con un animo – spirito – nobile. Dentro è ricco della libertà e dignità che vengono dal Signore: «quelli che sono guidati dallo spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8, 14), quindi quelli che nei loro desideri sono suscitati e animati dallo spirito e dalla generosità ricca di Dio. Non è una legge esterna che possa guidare l’esistenza dell’uomo, ma è lo Spirito che mette nel cuore la connaturalità con la volontà di Dio, per cui la volontà di Dio diventa nostra. Questo è il centro del Miserere, l’aspetto più bello e sorprendente, quello che richiama l’insegnamento dei profeti, in particolare nel profeta Ezechiele (bisognerebbe leggere anche Geremia). Ezechiele nel cap. 36° fa esattamente questa promessa: «Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36, 24-27). Qui corrisponde esattamente al Miserere, in tutto il suo dinamismo: 1) La purificazione: «Vi aspergerò con acqua pura... vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli». 2) Poi la nuova creazione: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo». Anzi questo spirito nuovo che metto dentro di voi è il mio spirito: «Porrò il mio spirito dentro di voi», perché voi impariate ad avere i desideri e i pensieri di Dio, quindi anche i suoi comportamenti.

Questa esperienza del perdono e il dono dello spirito costituiscono il salmista, una volta perdonato, in testimone: «Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno. Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza, la mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode». Che cosa significhi quel “liberami dal sangue” è misterioso (forse dalla punizione della vita che mi toccherebbe), ma il significato globale si capisce. Sino a che sono in questa condizione di peccato le mie labbra sono sigillate: non possono lodare, benedire e ringraziare. E il non poterlo fare vuole dire: non posso vivere. Non esiste una vita gioiosa, degna di questo nome, se non quella per la quale si può ringraziare e dire: Signore è bello, ringrazio. Ma nella condizione di peccato questa lode è inaridita, esprime l’inaridimento della vita. Ma quando il Signore farà fiorire il perdono, rinascerà anche la lode e il ringraziamento. E la lode non sarà privata e nascosta, ma proclamata davanti a tutti gli uomini, perché tutti possano partecipare della mia gioia e della mia salvezza: «Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno».

Tradizionalmente la lode, il sacrificio di ringraziamento, era accompagnata da sacrifici veri e propri: dall’offerta di un capretto o di un vitello, secondo le situazioni diverse. Questo adesso è impossibile: il Salmo è nato probabilmente al tempo dell’esilio, quando il tempio era distrutto e la possibilità di fare dei sacrifici era tolta a Israele. Allora vuole dire che il ringraziamento non è completo, perché ci manca l’aspetto sacrificale? No, dice il nostro Salmo: il sacrifico ha solo cambiato prospettiva, anzi il vero sacrificio, che può e deve accompagnare la lode, è la vita, non dei capretti o vitelli o animali: «tu non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi». Siamo ancora nell’insegnamento dei profeti, quando hanno aiutato Israele a comprendere che il sacrifico esterno non può altro che essere il segno di un cuore che diventa lui stesso sacrificio, di un cuore spezzato e donato al Signore.

Secondo molti autori gli ultimi due versetti dovrebbero essere un’aggiunta, ma in ogni modo danno al Salmo una prospettiva più ampia. Abbiamo commentato che il Salmo si presenta come la preghiera di un singolo: è un peccatore che davanti a Dio presenta la sua angoscia e il pentimento; e proprio per questo il titolo attribuisce il Salmo a Davide (gli esperti dicono che non è probabilmente di Davide, perché dovrebbe appartenere al tempo dell’esilio). Infatti, è significativo che sia stato messo questo titolo, perché vuole dire che l’esperienza di Davide, peccatore e condotto al pentimento, si esprime meglio in questo Salmo: «Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Batsabea». Ricordate come il profeta racconta a Davide una storiella, perché non capisca che si sta parlando di lui, e quando Davide ha dato un giudizio di condanna nei confronti del protagonista di questa storiella il profeta gli ha detto: «Sei tu quell’uomo!» (2 Sam 12, 7), il peccato è tuo. E Davide ha risposto chiedendo il perdono di Dio: «Pietà di me, o Dio». Per questo il Miserere si taglia bene sull’esperienza di Davide. Ma gli ultimi due versetti l’allargano: non è più Davide che parla, è Gerusalemme, è il popolo intero che ha conosciuto tutto il peccato e chiede il perdono e la rinascita. È Israele del dopo esilio che attende da Dio di potere ritornare in patria e di riprendere tutta quell’esperienza di culto, di sacrificio religioso, che aveva accompagno la sua storia. In questo senso anche gli ultimi due versetti sono preziosi perché ci permettono di leggere il Miserere, come preghiera della Chiesa, di ciascuno di noi, ma della comunità nel suo complesso.

Conclusione

Il Miserere fino al versetto 11 è fondamentalmente una richiesta di perdono: la consapevolezza e la gravità del peccato, la supplica a Dio e soprattutto alla misericordia e alla bontà di Dio.

Quindi il versetto dal 12 in poi è la richiesta di una nuova creazione: non solo il perdono come cancellazione del male, ma il perdono come una nuova esistenza, un nuovo cuore, e soprattutto un nuovo spirito. Lo spirito di Dio come sorgente di un’esistenza nuova: «Se qualcuno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5, 17).

Credo che riprendendolo con pazienza, imparandolo un po’ a memoria, facendolo entrare dentro al cuore, il Miserere ci possa davvero fare entrare nello spirito penitenziale della Quaresima. È il testo più bello che c’è nel Salterio per cogliere la dimensione penitenziale e di conversione del nostro cammino quaresimale.

Fonte:

www.cistercensi.info/monari/1999/m19990226.htm