Siete nel mondo, ma non siete del mondo - Danilo Quinto - 20 aprile 2018

Una delle cose più tristi, sciagurate e ingiuste – uso questo termine a proposito - nei confronti di Dio Onnipotente, che abbia letto negli ultimi tempi, è contenuta nel n. 26 dell’esortazione apostolica “Gaudete et Exsultate”: «Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio. Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione. Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione'. Una "questione di vita o di morte”». In un sol colpo, vengono spazzati via la preghiera e la vita contemplativa, quindi monastica – anche se non la si cita – che ha fondato la civiltà cristiana dell’Europa e costituisce oggi non solo un argine all’apostasia, ma l’unica speranza perché rimanga viva la testimonianza della fede in Nostro Signore Gesù Cristo.

Chi scrive i testi di Bergoglio fa l’economia non solo della storia e della tradizione della Chiesa Cattolica, ma anche di quello che si deve presumere pensi ancora l’altro papa. Uso il verbo “presumere” perché Benedetto XVI nulla corregge o può correggere di quello che proviene da Santa Marta. Durante l’Angelus del 4 marzo 2007, Benedetto XVI affermò: «Dalla preghiera dipende la nostra relazione di amore con Dio, porta per accedere alla vita eterna. Solo chi prega, cioè chi si affida a Dio con amore filiale, può entrare nella vita eterna, che è Dio stesso. Per un cristiano, pregare non è evadere dalla realtà e dalle responsabilità che essa comporta, ma assumerle fino in fondo, confidando nell’amore fedele e inesauribile del Signore». Oggi, che cosa pensa il Papa che si è auto-proclamato emerito?

Se fosse in vita, il grande mistico e monaco Don Divo Barsotti, tuonerebbe per scuotere gli uomini e le donne di buona volontà dal torpore e dall’ignavia che li sta consumando nel non testimoniare la Verità rispetto alla piega che sta prendendo questo amaro epilogo dei frutti nefasti del Concilio Vaticano II. Si farebbe prestare un cavallo, per lasciare il suo monastero e andare a San Pietro a invocare la conversione alla fede. Non avrebbe alcuna paura a chiedere rispetto per la Verità e lo farebbe in modo palese, visibile, senza nascondersi dietro il simulacro dell’obbedienza verso chi alla Verità intende rinunciare. Ne sono fermamente convinto, perché tutte le pagine dei suoi scritti lo dimostrano. Compresa la risposta che Barsotti diede nel 1990, sul settimanale “Il Sabato”, ad Antonio Socci, che gli chiese: «Lei non prova proprio nessuna attrazione per questo homo religiosus che si occupa di diritti umani, di morale, di solidarietà sociale…». Barsotti rispose: «Non voglio giudicare o sentenziare. Ma mi è capitato di parlare amichevolmente con un’eminente personalità ecclesiastica. Ad un certo momento ho dovuto porle una domanda che avevo dentro da tanto tempo: “Non me ne voglia. Se vuole non mi risponda. Ma non le sembra che nella Chiesa sia veramente entrata la massoneria? E che molto spesso proprio da lì vengono le direttive della predicazione, dell’azione della Chiesa?”. Egli tacque. Dopo un po’ mi guardò e mi disse: “Purtroppo lo penso anch’io”».

Solo la Massoneria o forze ad essa riconducibili può avere e coltivare l’interesse ad ignorare la parola del Vangelo. A proposito della preghiera, in uno dei capitoli più belli del Vangelo di Matteo, il numero 6, si esorta l’umanità a non affannarsi nella vita quotidiana - “perché il domani avrà già le sue inquietudini” e “a ciascun giorno basta la sua pena” - e a cercare, invece, momento dopo momento, il Regno di Dio e la sua giustizia, attraverso la preghiera. Viene proposta la preghiera perfetta, come la chiamava Sant’Agostino, che contiene in poche parole tutto quel che l’uomo può chiedere a Dio – il Padre Nostro – e vengono delineati i requisiti essenziali che danno efficacia alla preghiera del cristiano. Il primo di questi requisiti, è il tratto personale della preghiera, che integra, in maniera essenziale, la preghiera pubblica. E’, questo, il dialogo intimo con Dio, nel chiuso della propria stanza o in solitudine dalla folla, come faceva Gesù. Oltre ad essere preghiera di lode perfetta al Padre, la preghiera solitaria di Gesù è preghiera di domanda ed anche esemplare per il cristiano che intende, mentre compie le sue attività ordinarie, coltivare un suo rapporto filiale con Dio. Gesù prega il Padre prima di ogni decisione importante o scelta decisiva. Avviene, ad esempio, nella Sua preghiera nel Battesimo (Lc 3,21), prima della vita pubblica nei quaranta giorni di deserto (Lc 4), prima della scelta degli Apostoli (Lc 6, 12-13), prima della sua Passione (Lc 22, 39-46). Il dialogo con Dio non ha bisogno di molte parole: «Quando pregate - diceva Gesù - «non siate ciarlieri come i pagani, che credono di essere esauditi in ragione della loro loquacità» (Mt 6, 7), «perché il Padre Vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt., 6,8). Se nella preghiera si usano le parole, queste devono essere chiare e semplici, come quelle della donna cananèa, che sa rivolgersi a Gesù, lei, presumibilmente pagana, in modo perfetto, dicendogli «Pietà di me, Signore, figlio di Davide» (Mt. 15,22) e mostra di saper perseverare nel suo dialogo – struggente e bellissimo – con Gesù, mantenendosi umile. La stessa umiltà che esprime il centurione romano, «…comanda con una parola e il mio servo sarà guarito» (Lu, 7,7) o quella che chiede Gesù, quando dice «…chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lu, 18,9-14) o che vive, con la sua fede, il lebbroso (Mt, 8-2). La preghiera ha bisogno di convinzione. Come diceva San Giovanni Crisostomo, «quando manca la nostra cooperazione, anche l’aiuto di Dio viene meno»; quando, ad esempio, Pietro, per la violenza del vento, s’impaurisce e dubita di poter camminare sulle acque, chiede di salvarlo e Gesù lo apostrofa, dicendogli: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt, 14, 24-33). E’ ancora la parola di Matteo a raccontarci la forza che può avere la preghiera fatta con fede: «…se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui e là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile». In qualche modo, con la fede, si partecipa della stessa onnipotenza di Dio; in Gv, 14,12, Gesù infatti dice «Anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre».

«Ecco la prima cosa che si chiede ad un’anima consacrata: vivere la vita divina, vivere la vita di fede luminosa che, naturalmente, ci fa vivere anche la preghiera. Se Dio si fa presente, diviene naturale l’aprirsi nel bisogno che ha la nostra anima di vivere una comunione di amore, nel bisogno che ha di ricevere da Lui continuamente l’alimento alla nostra vita spirituale». Così si espresse Barsotti in un’omelia del 1° maggio 1976, aggiungendo: «Che la preghiera sia un dialogo vivo! Non si tratta di imparare a memoria, si tratta di vivere nella presenza di Dio quello che questa presenza suscita in te: l’amore, la gratitudine, la lode. È la sua presenza che dona il contenuto alla tua preghiera, perché nella presenza di Dio avverti di più il tuo peccato e trovi il perdono, tu ne conosci la bellezza e lo lodi, tu ne avverti l’amore e lo ringrazi e lo ami. È la presenza stessa che tiene il contenuto della preghiera; tante volte non sappiamo come pregare, tante volte non sappiamo che cosa dire, perché Lui è lontano, perché Lui è come se non ci fosse; ma apri gli occhi e guardalo! Apri gli occhi, apri gli orecchi e ascoltalo; apriti a questa presenza di Dio che ti investe da ogni parte e la tua vita si arricchirà immensamente, avrà un contenuto di amore che nessuna vita umana potrebbe mai conoscere». Vita consacrata e vita cristiana impongono che al primo posto vi sia la preghiera. Infatti, Barsotti concluse: «Chi non conosce la vita cristiana, vedendola di lontano si allontana, anzi fugge… una vita così noiosa, così pesante, gli esercizi delle virtù… Ma per chi la conosce, non c’è vita più bella, vita più grande; chi veramente conosce Dio non può più che desiderare di vivere questa comunione di amore. La nostra vita deve essere essenzialmente questo. Ecco la prima cosa che dovevo dirvi per una vita consacrata. Non vi sarà mai né una vita cristiana né, tanto meno, una vita consacrata, che non trovi nella preghiera la sua espressione più autentica e vera, più necessaria».

In uno dei suoi libri più belli, intitolato appunto “La preghiera”, padre Serafino Tognetti, indicato proprio da Barsotti come suo successore a Superiore Generale della Comunità dei Figli di Dio – fu nominato nel 1995 e ricoprì questa responsabilità per moti anni – riprende e approfondisce i concetti del mistico di Settignano. In un paragrafo intitolato “La noia dell’esistenza” cita Macario il grande, un Padre del deserto, che affermava: «Quando l’uomo è sfinito per le tentazioni, quando l’uomo ha quasi ceduto alle tentazioni, allora Dio, l’amico degli uomini, manda la sua forza santa, lo irrobustisce, così gli occhi dell’uomo si aprono perché egli capisca che Lui solo dà la forza. Proprio nelle difficoltà della lotta provengono l’umiltà, la dolcezza, la contrizione, e così anche nella solitudine esplode la nostra debolezza, non si può contare su nessuno al di fuori di Dio, ci si trova di fronte alle proprie povertà». Padre Tognetti definisce il suo noviziato “stranissimo”. Racconta che Barsotti lo faceva andare alle 9 del mattino nella sua cella, raccomandandogli di restare lì fino a mezzogiorno. Lui gli chiedeva cosa dovesse fare e Barsotti rispondeva di stare lì senza fare niente. «La cella ti dirà tutto», aggiungeva Barsotti. «Una noia mortale», commenta Padre Tognetti, «Dopo un po’ veniva il bisogno di fare qualcosa. Eppure, in questa pratica, alla fine o ti attacchi a Dio o ti attacchi al tram, cioè vai via, perché se non c’è Dio non resisti. Ma per provare che c’è Dio solo, devi stare solo con lui, non puoi riempire la testa di altre cose. Prima devi distruggere tutto quello che non va, poi mettere il buon contenuto. Prima svuoti la botte del vino inacidito, poi lo riempi di vino nuovo e frizzante». L’esperienza della noia, sostiene Padre Tognetti, è un’esperienza propriamente umana: è la separazione, l’inferno tra l’uomo e Dio. In Paradiso non ci annoieremo, qui in terra invece sì. Fare quest’esperienza è essenziale per comprendere il senso del nostro stare al mondo. «Con te stesso non stai bene», scrive Padre Tognetti, «allora ti apri a questo grido e dici: “Signore, liberami dalla noia”, non facendo altre cose, non riempiendo il cuore di attività o di pensieri». E’ una purificazione, che si snoda così, spiega Padre Tognetti: «Dio ci toglie tutti gli appoggi. Le nostre qualità, le nostre virtù, quello che riusciamo a fare… ce le toglie tutte. Scopriamo la nostra miseria con i tanti fallimenti della vita, con la salute che se ne va, con i sogni che non si realizzano, con le mille delusioni che ci vengono dal prossimo. Questa purificazione mi inabissa nella mia miseria. Dio ci chiede, nello stesso tempo, di avere una smisurata fiducia in Lui. Se mi apro alla fede, incontro il Signore proprio nel fondo della mia miseria, rimanendo miserabile. (…). Quando ho toccato questo fondo, ogni mia preghiera viene normalmente ascoltata, perché Gesù mi ha portato lì e mi dice: “Era ora che arrivassi qua! Ce ne hai messo di tempo. Ora puoi pregare”». Quando pregheremo così? «Forse», afferma Padre Tognetti, «pregheremo bene solo dieci secondi prima di morire. Però siccome non sappiamo quando e come moriremo, non corriamo il rischio di aspettare troppo per pregare sul serio. Entrate, quando pregate, nel grido profondo. Prostratevi – anche per terra, se volete – basta con la vostra anima sia veramente prostrata. E se toccate questa miseria, sarà giorno di grazia per voi e per tutti. La vostra preghiera salirà al Cielo come profumo d’incenso, come colonna di fuoco. Sarà finalmente una preghiera autentica».

Qualche pagina prima, Padre Tognetti racconta l’incontro tra un calzolaio e Sant’Antonio eremita, che apprese un giorno per ispirazione che quella persona di Alessandria era più grande di lui. Egli aveva pregato il Signore perché gli facesse conoscere l’uomo più simile a Dio. Antonio disse al calzolaio: «Il Signore mi ha mandato da te per vedere come vivi». Allora, l’umile artigiano, che venerava il grande Antonio, gli confidò il segreto della sua anima: «Non faccio niente di speciale. Soltanto, mentre lavoro guardo la gente che passa per la strada e dico dentro di me: Signore, fa che tutti siano salvati e io solo mi perderò». Scrive Padre Tognetti: «Io, confesso, non ce la faccio. Questo ciabattino bisogna canonizzarlo subito! E’ un atto di altruismo, un desiderio della salvezza del prossimo che supera ogni immaginazione, ed è questo il vero cristianesimo, quello che Dio vuole da noi: tanto, a salvarci, ci pensa il Signore. Ecco perché ci dice: “Chi vuole salvarsi, si perderà” (Mc 8,35). Voi dovete ardere dal desiderio della salvezza del mondo. E se il Signore dovesse dirvi: “Gli altri li salvo, tu invece vai nell’Inferno”, cosa direste? Ci ripensereste un attimo e direste: “Signore, aspetta che cambio vocazione, non erano questi i patti…”. Invece, dovreste dire: “Basta che ci sia anche tu, Signore e vado anch’io all’Inferno!”. Naturalmente, questo è un trucco, perché è chiaro che dove c’è Dio non c’è l’Inferno, ma comunque dobbiamo essere disposti a questo».

Quali “stranezze” dobbiamo leggere rispetto alla concezione e alle idee che divulga questa “Nuova Chiesa” di Bergoglio, che proclama, attraverso le colonne di un giornale, la negazione di tre dogmi della fede cattolica: il peccato originale, l’Inferno e l’immortalità dell’anima e disconosce, con “Gaudete et Exsultate”, l’essenza stessa del Cristianesimo. Egli attua – come giustamente ha sottolineato e come, in varie forme, avevano fatto i suoi predecessori – gli esiti del Concilio, che 50 anni fa aveva suggellato secoli e secoli di immanentismo. «Siamo abituati a pensare», dice Padre Tognetti, «ad un Cristianesimo che debba farci stare un po’ meglio nel mondo, più in pace con il prossimo, con maggiore assistenza per le persone bisognose, un Cristianesimo immanentista appiattito sulla vita terrena e sensibile. Eppure, la vita dei santi è questa, perché Dio mi ama proprio nel pormi nell’Inferno, che è questo mondo, e vuole il mio grido per la salvezza del mondo. In fondo, per godere le gioie del Paradiso e stare realmente bene, abbiamo tempo tutta l’eternità, mentre per stare sulla terra a gridare, invece, abbiamo pochi anni e forse qualcuno di noi pochi mesi. Il tempo scorre talmente veloce… Ci capita, invece, al contrario, che, quando siamo negli inferi, ci ribelliamo. “Signore, io voglio la scala per salire e tornare a stare un po’ meglio!”. Ma se il Cristianesimo è “stare un po’ meglio”, allora, direbbe Don Divo Barsotti, piuttosto buttate via il Cristianesimo».

Che dire? In tanti stanno tentando di farlo, ma sappiamo che la loro impresa non riuscirà, perché la Misericordia di Dio si comprende solo con la Sua Giustizia ed Egli saprà esercitarla al momento opportuno, separando, a tempo debito, il grano dalla zizzania.

Tempi di Maria
@Danilo Quinto Mi dispiace di non essere potuto essere persente alla sua testimonianza del 15 aprile ad Imperia. Spero si presenti qualche altra buona occasione in futuro
Tempi di Maria
@Danilo Quinto Grazie, Dott. Quinto, per le sue coraggiose e condivisibili riflessioni