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Giobbe: il dubbio di Satana

Duomo di Orvieto
Duomo di Orvieto

L’opera

Quando si parla di san Tommaso d’Aquino è sempre rischioso partire da una distinzione troppo netta, ed aggiungerei troppo moderna, fra filosofia e teologia. Anche se nelle opere dell’Aquinate è riscontrabile un maggiore orientamento verso l’una o l’altra disciplina, bisogna sempre ricordare che la sua ricerca della verità si fondava su di un dinamico coordinamento dei differenti saperi. Questo approccio emerge non solo all’interno delle singole opere, ma anche nel vastissimo catalogo degli scritti del Dottore Comune. Ecco che quindi, accanto ai commenti alle opere di Aristotele, troviamo anche testi di commento ai libri biblici[1]. Lavori simili accompagnano tutta la carriera di san Tommaso e rappresentano l’espressione più piena del titolo di Maestro in Sacra Pagina di cui il santo domenicano si fregiava.

Fra queste, una delle più riuscite[2] è sicuramente il Commento al libro di Giobbe, realizzato dall’Aquinate fra il 1261 ed il 1265. In questo periodo il santo Dottore si trovava nella città di Orvieto, dove era stato chiamato, da Parigi, a svolgere l’ufficio di Lettore conventuale. Tale compito, nel secolo XIII, implicava l’organizzare, a favore dei frati della comunità, quelli che oggi chiameremmo “corsi di formazione permanente”; era quindi un incarico delicato, che tendeva a comunicare a tutti i religiosi la conoscenza sviluppata nella facoltà parigina[3].

Il testo in questione fu quindi realizzato sulla base della necessità di commentare un libro biblico; san Tommaso, in linea con lo stile esegetico scolastico dell’epoca, costruisce il suo commento attenendosi al senso letterale del testo. Ciò implica che le riflessioni teologiche proposte non si fondano su interpretazioni spirituali dello scritto, come invece fa la moraleggiante opera su Giobbe di san Gregorio Magno, bensì sulla comprensione e sullo studio della vicenda concretamente narrata[4].

L’Aquinate costruisce quindi il suo Commento sui connessi temi della provvidenza e della giustizia divina che, di fronte alla sofferenza del giusto rappresentata dalla vicenda di Giobbe, sembrano essere messi in discussione.

 

Il “vedere” di Dio ed il “vedere” di Satana

A questo punto credo sia necessario esplorare, perlomeno parzialmente, l’opera; a tale scopo ho deciso di considerare il commento che san Tommaso fa a Gb 1, 6-12[5]. Questo brano presenta l’evocativa immagine del consesso dei “figli di Dio”, ossia degli angeli, cui anche Satana prende parte.

San Tommaso inizia evidenziando subito la differenza fra le due modalità di presenza: se infatti gli spiriti buoni “[…] vennero per presentarsi al Signore, nel senso che volutamente e di loro iniziativa sottopongono tutto al giudizio divino; gli angeli cattivi invece non intendono affatto dirigere il loro operato in Dio, ma ciò si attua contro la loro volontà, […]”[6]. Ciò significa che sia i buoni che i malvagi stanno alla presenza del Signore, ossia pongono il loro operato al servizio della Provvidenza, ma solo i primi vivono questo fatto con piena coscienza ed accordo.

Inutile dire che questo fatto ha un’importanza centrale nella trattazione di Tommaso: l’agire di Satana, e quindi il male che egli rappresenta, da un lato è mosso dalla sua volontà empia, dall’altro è permesso perché rientra nel piano provvidenziale di Dio. Vi è quindi una sostanziale divergenza di prospettiva: il malvagio vede nel permesso del Signore l’occasione di raggiungere i propri scopi, mentre il giusto vi scorge la realizzazione di una Volontà Divina sempre e misteriosamente tesa la bene.

L’Aquinate rileva con chiarezza questo fatto commentando Gb 1, 12 e dicendo che “[…] il Signore non ha impartito a Satana l’ordine di tormentare Giobbe, ma gliene ha soltanto concesso la facoltà, perché la volontà di nuocere, ogni cattivo l’ha da se stesso, ma il potere l’ha soltanto da Dio. Da quanto si è detto emerge che il motivo della disgrazia di Giobbe è stato questo, che la sua virtù diventasse palese a tutti, […][7].

Se quindi i giusti agiscono all’interno di una consapevole concordia con la Volontà di Dio, alla quale sottopongono volontariamente i loro atti, i malvagi vivono una dissociazione: usano il potere che il Signore ha dato loro per perseguire i propri scopi, in spregio a quelli di Dio, ignorando invece che proprio quel silenzio dell’Altissimo testimonia che la loro ribellione è funzionale ad un bene che non conoscono.

Con ciò, e concordemente al testo di Tommaso sopra riportato, non si vuole affermare che anche la volontà del male è necessaria a Dio, ma che se il malvagio partorisce da sé, e quindi peccaminosamente, il suo intento perverso, il potere di attuarlo, con i suoi confini, gli viene concesso in virtù di una Provvidenza che agisce anche se ignorata.

 

La domanda

A questo punto una domanda sorge spontanea: quale condizione viene migliorata dagli effetti di una volontà maligna debitamente moderata? Il giusto infatti, postosi naturalmente nei panni di Giobbe, si chiede quale elemento necessiti, per essere guarito, di passare attraverso il vaglio del malvagio. Non occorre ribadire come questa sia una domanda chiave: l’intera disponibilità ad accogliere la sofferenza può basarsi sulla comprensione di questo responso, capace di dare al mondo un ordine che il male sembra negare.

San Tommaso ci propone una risposta commentando Gb 1, 9: “Satana però gli rispose: Giobbe teme forse Dio inutilmente?, come a dire: è innegabile che egli agisca rettamente; però non si comporta così spinto dalla retta intenzione del tuo amore e della virtù, ma dal benessere che gli hai concesso[8].

Da questo breve testo comprendiamo che la prova che il Signore consente ai danni del giusto non ha come scopo quello di formarlo nella giustizia, ma di renderlo più consapevole del proprio agire.

Il dubbio sollevato dal diavolo è quello che sempre si affaccia, sia nella mente di chi agisce bene che, soprattutto, in quella di chi osserva: questo bene è mosso dalla convenienza dei frutti spirituali ed eterni o da quella molto più prosaica, dei frutti terreni? Ciò che Satana intende fare è mettere in discussione la stessa esistenza dell’amore verso Dio e della virtù come causa dell’agire, riducendo il bene che ne deriva ad un semplice abbellimento dell’egoistica tensione verso l’utile.

La sofferenza cui Dio consente che il giusto sia sottoposto ha quindi due scopi: da un lato, ed è quello che primariamente l’Aquinate sottolinea, di rendere evidente l’essenza di quel retto agire verso i cui fini altrimenti si può sempre dubitare; dall’altro di purificare il rapporto del giusto con Dio, rendendo evidente la centralità dei benefici spirituali. In conclusione, questo concetto si può forse riassumere così: il giusto soffre per rammentare, a se stesso e agli altri, che l’unica cosa di cui l’amante non può fare a meno è l’Amato stesso.   

 

[1] Per chi volesse approfondire l’opera omnia di san Tommaso, cf Jean-Pierre Torrell, Amico della Verità (trad. Giorgio Maria Carbone), ESD, Bologna 2017, pp. 495-543.

[2] Questo giudizio non è mio ma di Torrell; cf ivi, p. 198.

[3] Cf ivi, pp. 194-197.

[4] Cf ivi, p. 198.

[5] San Tommaso d’Aquino, Commento al libro di Giobbe (a cura di Lorenzo Perotto), ESD, Bologna 1995, Cap. 1, pp. 31-40.

[6] Cf ivi, Cap. 1, p. 33.

[7] Cf ivi, Cap. 1, è. 40.

[8] Cf ivi, Cap. 1, p. 38.

Testi consigliati

  • Jean-Pierre Torrell, Amico della verità (trad. it. di Giorgio Maria Carbone, ESD, Bologna 2017, terza edizione.
  • San Tommaso d’Aquino, Commento al libro di Giobbe (a cura di Lorenzo Perotto), ESD, Bologna 1995.