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venerdì 17 maggio 2024

Raniero La Valle: Ebrei e Palestinesi patrimonio dell’umanità


Raniero La Valle
Ebrei e Palestinesi patrimonio dell’umanità


Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Newsletter n.339 del 14 maggio 2024

Cari Amici,

la guerra non solo provoca catastrofi immediate, ma travolge e sconvolge anche valori e processi di lungo periodo. Tra le cose più preziose che vengono messe in crisi dalla tragedia di Gaza c’è anche il dialogo ebraico-cristiano intrapreso dopo il Concilio, volto a ritrovare e condividere tutto ciò che unisce le due religioni. Ora non può esserci niente di più lontano e inaccettabile per i cristiani di ciò che sta avvenendo a Gaza ad opera delle Forze Armate e dello Stato di Israele, mentre ogni protesta o critica a tale azione, che venga dalle piazze o dagli studenti delle Università o dall’ONU e perfino dagli Stati Uniti viene respinta e tacciata di antisemitismo, e perciò da condannare come continuazione sotto altra forma della Shoà. Questa accusa viene reiterata anche per ribadire che l’operazione a Gaza non può cessare, pur contro le sollecitazioni internazionali, finché non “sia finito il lavoro”, come viene chiamata la strage della popolazione palestinese, rinominata come Hamas. Tutto ciò si fonda su una identificazione dello Stato di Israele con l’intero popolo ebraico, compreso quello della diaspora, a partire da quella che è considerata una filiazione diretta dello Stato di Israele dalla Scrittura, invocata anche come suggello dell’esclusiva sovranità israeliana sull’intera Terra promessa “dal mare al Giordano”, con Gerusalemme indivisa “capitale eterna di Israele”; è questo l’assioma sostenuto soprattutto dai partiti religiosi ma assunto di fatto come legittimazione anche delle politiche del governo laico.

Questa concezione di un messianismo realizzato, che non si credette di poter formalizzare in una Costituzione scritta al momento della fondazione dello Stato, è stata infine suffragata dalla Legge fondamentale approvata dalla Knesset il 19 luglio 2018, sotto la spinta di Netanyahu ma con la contrarietà del presidente Reuven Rivlin che ne temeva le conseguenze negative per tutti gli Ebrei e per lo stesso Stato di Israele. Tale Costituzione definisce Israele come «lo Stato nazione del popolo ebraico», la Terra come sua patria storica e «il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale» (cioè i diritti politici e di cittadinanza) come riservato «esclusivamente al popolo ebraico». Si tratta di una statuizione che non ammette alcuna altra etnia, emette la parola fine a qualsiasi forma di “due popoli e due Stati”, e in ultima analisi esclude l’esistenza stessa di una entità palestinese entro il territorio dello Stato, ciò che è appunto il “lavoro” da finire a Gaza, ma portato avanti anche in Cisgiordania.

È di fronte a tutto ciò che l’ebreo Bernie Sanders, leader democratico americano, ha scritto a Netanyahu che «non è antisemita sottolineare che in poco più di sei mesi il suo governo estremista ha ucciso 34mila palestinesi e ne ha feriti 77mila, il 70 per cento dei quali donne e bambini, e che i bombardamenti hanno lasciato senza casa un milione di persone, quasi la metà della popolazione di Gaza»; né è antisemita la Corte dell’Aja che adotta misure cautelari per arginare il genocidio, né lo è Francesca Albanese relatrice dell’ONU per i diritti umani.

E allora la condizione imprescindibile perché il dialogo cristiano-ebraico possa continuare e arricchirsi è che si distingua tra il popolo ebraico e lo Stato di Israele, come voleva Primo Levi, e tra la fede biblica e la sua attuale traduzione politica a Tel Aviv, la quale risponde a una lettura fondamentalista della Scrittura che, come dice la Pontificia Commissione Biblica, è «un suicidio del pensiero» ma può diventare anche il suicidio di uno Stato, e può dar ragione al lamento di Michea al vedere i «governanti della casa d’Israele costruire Sion col sangue e Gerusalemme con il sopruso». Perciò lo stesso Stato di Israele dovrebbe avviare un processo di cambiamento

Noi cristiani possiamo fare senza abuso questo discernimento nel nostro rapporto con gli Ebrei, perché noi non siamo estranei ad Israele, gli Ebrei non sono solo «i nostri fratelli maggiori», essi sono noi e noi siamo loro. Questo è il vero dialogo ebraico-cristiano: fino a Gesù eravamo una cosa sola, lui era ebreo e nel contempo era Cristo, c’è una corrispondenza tra Sinagoga e Chiesa, Tempio e Cenacolo, l’Arca e la Croce, il Rabbi e il Crocefisso, che è poi quanto san Paolo ha scritto a noi romani, parlando degli Israeliti come «fratelli e consanguinei secondo la carne, che possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi e da cui proviene Cristo secondo la carne».

In forza di questa unità, a differenza di quanto sostiene ogni altra voce oggi corrente, noi possiamo dire che la vera soluzione politica della questione palestinese, e la vera alternativa al genocidio dell’uno o dell’altro popolo, è la riconciliazione tra Ebrei e Palestinesi nella convivenza in un’unica Terra; e possiamo fare la proposta all’Europa, e a tutta la comunità internazionale, di assecondare questo processo adottando il popolo ebreo e quello palestinese come «patrimoni dell’umanità»: è questa la figura giuridica istituita dalla Convenzione dell’UNESCO per la protezione del patrimonio culturale e naturale da trasmettere alle generazioni future, proprio in quanto rappresenta «il legame tra il nostro passato, ciò che siamo ora, e ciò che passeremo alle future generazioni»: e quali altri popoli sono portatori di tradizioni e valori universali e perenni da trasmettere al mondo futuro come l’ebreo e il palestinese?

L’obiezione è che i patrimoni di cui si parla sono i siti, i complessi architettonici e altre strutture materiali da preservare per il futuro: ma non sono gli uomini e i popoli il patrimonio più grande da salvare? La perdita di un popolo, che sia l’herero, il primo sterminato nell’altro secolo, o l’armeno, l’ebreo, il tutsi, il palestinese, non è più grave della perdita della diga di Assuan?

Sarebbe questo il modo anche per rispondere alla più penetrante forma di alienazione e di dominio che oggi espropria la dignità delle persone e devasta la Terra, che consiste nella sottomissione dell’uomo al dominio della cosa; il sistema di guerra che struttura oggi l’intera politica mondiale è infatti interamente fondato sul dominio della cosa, a cominciare dalle armi, dalla produzione e dal profitto: un’inversione di tendenza, che parta proprio da quella terra di Palestina, sarebbe un segnale di ritrovata speranza.

Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri 

Newsletter n.339 del 14 maggio 2024

giovedì 16 maggio 2024

Tonio dell'Olio Il genocidio

Tonio dell'Olio
Il genocidio

PUBBLICATO IN MOSAICO DEI GIORNI 16 MAGGIO 2024


Ho visto un video in cui alcuni attivisti della destra israeliana assaltavano un camion di aiuti umanitari destinato alla popolazione stremata della Striscia di Gaza. Era un camion che trasportava farina e zucchero. Dopo aver costretto l'autista a fermarsi hanno scaricato per strada tutto il carico.

Dal momento che in quel territorio la gente sta morendo di stenti, di epidemie, di mancanza di cure indispensabili, oltre che di bombe, quel gesto è sacrilego e violento. È un contributo al genocidio o alla pulizia etnica in atto. È una violenza ulteriore e gratuita che va fermata da chiunque abbia il potere di farlo. Non è espressione del dissenso o delle proprie opinioni ma violenza e, per questo, va fermata. Al contrario le stesse immagini mostrano che uomini in uniforme dell'esercito israeliano proteggono i protagonisti dei saccheggi, della distruzione e degli incendi degli aiuti umanitari.

Io credo che usare la fame come arma di guerra sia genocidio. La Corte de L'Aia acquisisca materiale probatorio.

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Vedi anche:

Alessandro D'Avenia: Giocarsi la vita

Alessandro D'Avenia
Giocarsi la vita


Corriere della Sera, 29 aprile 2024

Amo il calcio da quando sono bambino. L’ho praticato ovunque, dal corridoio al campetto, sull’erba o sulla sabbia, in strada o in un parcheggio. Da dilettante, chi si diletta, cioè gode. Amo altrettanto guardarlo, ancor più da quando ho smesso di giocare per la terza frattura al polso sinistro (“La prossima volta non lo recuperiamo”, mi ha detto il chirurgo), cicatrici che non cancellerei in cambio di una vita senza calcio.

Pasolini giocava come ala e faceva un tifo sfrenato per il Bologna: per lui il calcio conservava il sacro popolare più delle messe (allo stadio la gente si stringe con più verità che al segno della pace). Saba, conquistato dall’atmosfera del tifo, ne scrisse in poesia. Luzi ne dedicò una struggente al grande Torino scomparso nel disastro aereo di Superga. La leva calcistica del ’68 di De Gregori mi fa ancora sognare.

Le ragioni di questo amore per il calcio mi si sono chiarite una volta di più nel finale del recente derby tra Milan e Inter, che ha attribuito lo scudetto alla squadra supportata da mio padre, mentre io, “guidato” dai miei fratelli all’età di 5 anni, mi schierai dal lato opposto. A dieci minuti dal termine della partita, che l’Inter conduceva per 2 a 0, il Milan ha segnato. Il commentatore ha urlato: “Si riapre la partita” e a me si è riaperto il cuore, come se si trattasse della vita stessa.

Qual è il segreto del giocare e in particolare al calcio?

Come tutti i giochi anche il calcio mostra ciò che umano nell’uomo. Giocare ci rende felici perché imita la vita come nient’altro, tanto che al verbo ludico diamo la massima estensione umana possibile: “giocarsi la vita”. Gli studiosi spiegano che in tutte le culture il godimento del gioco dipende dalle regole. Sembra strano per noi che cerchiamo la felicità nella libertà, nell’assenza di condizionamenti. Invece il gioco ci ricorda che siamo veramente liberi solo nei e non dai legami. L’uomo gode a trovare la propria via, originalissima e creativa, in mezzo ai limiti: giocare è la rappresentazione della vita come destino e destinazione. Il destino è ciò che non scegli, la destinazione che cosa fai con le carte (altra immagine ludica) che ti capitano.

Nel calcio, come in molti giochi, i limiti sono spaziali e temporali: rettangoli le cui linee sanciscono zone più o meno sacre, da custodire o conquistare, e porzioni di tempo con recuperi commisurati al “non gioco” (non vita). Gli attori agiscono dentro questo spazio-tempo: il destino. Non ci si potrebbe divertire senza confini (la prima cosa che si faceva da ragazzi, improvvisando una partita, era piazzare due zaini come pali e ci si scannava per immaginare l’altezza della traversa nei tiri alti…), né senza orologi (il fatidico “chi segna vince” delle “infinite” partite interrotte solo dal buio). Ma il calcio, ai limiti di spazio-tempo che ha in comune con tanti giochi, aggiunge un azzardo. È un gioco contro-evolutivo: preferisce il piede, meno sensibile e duttile, alla mano, da cui è invece cominciata l’evoluzione. Dentro questi “legami”, garantiti da un giudice (l’arbitro vituperato proprio perché rappresenta e custodisce “il limite”), i giocatori si esaltano, cercando di trasformare il destino in destinazione, il limite in gioia. Non è forse questa la vita: un perimetro di spazio e di tempo dato una volta sola a ciascuno di noi? Non è la vita un’azione che siamo chiamati a fare entro limiti che non scegliamo? La passione per il calcio lo è per la vita così com’è: cercare, nei legami, la propria originalità.

Anche sulla lapide ci sono scritte le regole del gioco della vita: luogo e data di nascita/morte. Le regole grazie alle quali siamo come tutti ma anche come nessuno. Ce la dobbiamo giocare in questo limite spazio-temporale, e quindi la chiave è nel trattino tra quelle scritte del nascere e del morire: agire, nel calcio l’azione, nella partita, cioè la parte che ci è data, sia come “porzione” di storia umana, sia come “ruolo” da interpretare in quella storia. Come me la gioco? Agire entro dei limiti, nel proprio ruolo, con altri, non assomiglia alla vita? Essere convocati, rimanere in panchina, scendere in campo non sono tutte metafore dell’esistenza? E oltre ai limiti previsti e fissi, ci sono gli avversari (le “avversità” della vita), limiti imprevisti e mutevoli. Non sono nemici, ma occasioni e resistenze: e chi non ne incontra nel mondo? E poi il risultato a volte non corrisponde all’essere stati superiori e non sempre vince il più forte, perché, nella vita come in questo gioco, c’è sempre la sorpresa di una grazia inattesa. Chi gioca o guarda confida sino all’ultimo in un guizzo, anche in partite noiose e bloccate, perché il goal non è come il punto, è raro e non garantito. Il risultato può anche essere un pareggio, e come era bello, in origine, affidare non ai rigori ma al caso, una monetina, la vittoria, perché sul campo si è pari. Siamo fatti per giocarci la vita, eroi di una squadra in cui siamo chiamati a trasformare il destino, regole e limiti, in destinazione, azioni da goal.

Il calcio mima ed esorcizza anche la guerra con il suo lessico: strategie e tattiche, attacco e difesa, ali e centro, incursioni e assedi, barriere e cannonate, infortunati e sostituti… ma della guerra non ha la violenza mortifera, tranne quando i giocatori e le tribù di supporto dimenticano stupidamente che è solo un gioco, una rappresentazione, come a teatro (to play dicono gli inglesi per l’agire in scena e per il giocare). E in tempi così ottusamente bellici, capisco meglio perché amo il calcio, perché, come ogni gioco, è un sogno: un giorno saremo così evoluti da abbandonare gli scontri armati per dedicarci solo a quelli sportivi. Sapremo mai giocarci così umanamente e gioiosamente la vita?
(fonte: sito dell'autore)

Papa Francesco «Si parla tanto dell’amore, ma cos’è l’amore?» Udienza Generale 15/05/2024 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 15 maggio 2024


Anche oggi il Papa ha cominciato l’udienza generale facendo salire quattro piccoli ospiti sulla jeep bianca scoperta. I bimbi si sono quindi goduti il giro della piazza delimitata dal colonnato del Bernini fino al momento in cui Francesco si è congedato da loro, facendoli scendere e compiendo in solitaria l’ultimo tratto sulla papamobile fino alla sua postazione al centro del sagrato. Migliaia i pellegrini presenti in questa giornata romana piena di sole; immancabili le foto e i selfie di coloro che, per guadagnarsi una migliore posizione, hanno raggiunto le transenne.













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Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

Catechesi. I vizi e le virtù. 19. La carità


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parleremo della terza virtù teologale, la carità. Le altre due, ricordiamo, erano la fede e la speranza: oggi parleremo della terza, la carità. Essa è il culmine di tutto l’itinerario che abbiamo compiuto con le catechesi sulle virtù. Pensare alla carità allarga subito il cuore, allarga la mente, corre alle parole ispirate di San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi. Concludendo quell’inno stupendo, San Paolo cita la triade delle virtù teologali ed esclama: «Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità» (1 Cor 13,13).

Paolo indirizza queste parole a una comunità tutt’altro che perfetta nell’amore fraterno: i cristiani di Corinto erano piuttosto litigiosi, c’erano divisioni interne, c’è chi pretende di avere sempre ragione e non ascolta gli altri, ritenendoli inferiori. A questi tali Paolo ricorda che la scienza gonfia, mentre la carità edifica (cfr 1 Cor 8,1). L’Apostolo poi registra uno scandalo che tocca perfino il momento di massima unione di una comunità cristiana, vale a dire la “cena del Signore”, la celebrazione eucaristica: anche lì ci sono divisioni, e c’è chi se ne approfitta per mangiare e bere escludendo chi non ha niente (cfr 1 Cor 11,18-22). Davanti a questo, Paolo dà un giudizio netto: «Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore» (v. 20), avete un altro rituale, che è pagano, non è la cena del Signore.

Chissà, forse nella comunità di Corinto nessuno pensava di aver commesso peccato e quelle parole così dure dell’Apostolo suonavano un po’ incomprensibili per loro. Probabilmente tutti erano convinti di essere brave persone, e se interrogati sull’amore, avrebbero risposto che certo l’amore era per loro un valore molto importante, come pure l’amicizia e la famiglia. Anche ai nostri giorni l’amore è sulla bocca di tutti, è sulla bocca di tanti “influencer” e nei ritornelli di tante canzoni. Si parla tanto dell’amore, ma cos’è l’amore?

“Ma l’altro amore?”, sembra chiedere Paolo ai suoi cristiani di Corinto. Non l’amore che sale, ma quello che scende; non quello che prende, ma quello che dona; non quello che appare, ma quello che si nasconde. Paolo è preoccupato che a Corinto – come anche oggi tra noi – si faccia confusione e che della virtù teologale dell’amore, quella che viene solo da Dio, in realtà non ci sia alcuna traccia. E se anche a parole tutti assicurano di essere brave persone, di voler bene alla propria famiglia e ai propri amici, in realtà dell’amore di Dio sanno ben poco.

I cristiani dell’antichità avevano a disposizione diverse parole greche per definire l’amore. Alla fine, è emerso il vocabolo “agape”, che normalmente traduciamo con “carità”. Perché in verità i cristiani sono capaci di tutti gli amori del mondo: anche loro si innamorano, più o meno come capita a tutti. Anche loro sperimentano la benevolenza che si prova nell’amicizia. Anche loro vivono l’amor di patria e l’amore universale per tutta l’umanità. Ma c’è un amore più grande, un amore che proviene da Dio e si indirizza verso Dio, che ci abilita ad amare Dio, a diventare suoi amici, ci abilita ad amare il prossimo come lo ama Dio, col desiderio di condividere l’amicizia con Dio. Questo amore, a motivo di Cristo, ci spinge là dove umanamente non andremmo: è l’amore per il povero, per ciò che non è amabile, per chi non ci vuole bene e non è riconoscente. È l’amore per ciò che nessuno amerebbe; anche per il nemico. Anche per il nemico. Questo è “teologale”, questo viene da Dio, è opera dello Spirito Santo in noi.

Predica Gesù, nel discorso della montagna: «Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso» (Lc 6,32-33). E conclude: «Amate invece i vostri nemici – noi siamo abituati a sparlare dei nemici – amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi» (v. 35). Ricordiamo questo: “Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare nulla”. Non dimentichiamo questo!

In queste parole l’amore si rivela come virtù teologale e assume il nome di carità. L’amore è carità. Ci accorgiamo subito che è un amore difficile, anzi impossibile da praticare se non si vive in Dio. La nostra natura umana ci fa amare spontaneamente ciò che è buono e bello. In nome di un ideale o di un grande affetto possiamo anche essere generosi e compiere atti eroici. Ma l’amore di Dio va oltre questi criteri. L’amore cristiano abbraccia ciò che non è amabile, offre il perdono – quanto è difficile perdonare! quanto amore ci vuole per perdonare! –, l’amore cristiano benedice quelli che maledicono, mentre noi siamo abituati, davanti a un insulto o a una maledizione, a rispondere con un altro insulto, con un’altra maledizione. È un amore così ardito da sembrare quasi impossibile, eppure è la sola cosa che resterà di noi. L’amore è la “porta stretta” attraverso cui passare per entrare nel Regno di Dio. Perché alla sera della vita non saremo giudicati sull’amore generico, saremo giudicati proprio sulla carità, sull’amore che noi abbiamo avuto in concreto. E Gesù ci dice questo, tanto bello: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Questa è la cosa bella, la cosa grande dell’amore. Avanti e coraggio!

Guarda il video della catechesi

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Saluti
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APPELLO

Rivolgo il mio pensiero alle care popolazioni dell’Afghanistan, duramente colpite dalle tragiche inondazioni che hanno causato numerose perdite di vite umane, tra cui bambini, e continuano a causare distruzione di molte case. Prego per le vittime, in particolare per i bambini e le loro famiglie, e faccio appello alla Comunità internazionale affinché fornisca subito gli aiuti e il sostegno necessari a proteggere i più vulnerabili.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. ...

Rivolgo infine il mio pensiero ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli. А pochi giorni dalla Solennità della Pentecoste, vi esorto a essere sempre docili all’azione dello Spirito Santo; la confortante presenza del Consolatore sia per ciascuno sorgente di sollievo nella prova.

E preghiamo per la pace: non dimentichiamo la martoriata Ucraina; non dimentichiamo la Palestina, Israele, il Myanmar. Preghiamo per la pace, preghiamo per tutti i popoli che soffrono la guerra. Tutti insieme, con il cuore grande, preghiamo perché ci sia la pace definitiva, e niente guerre, niente. Perché la guerra sempre è una sconfitta: sempre!

A tutti la mia benedizione!


Guarda il video integrale


mercoledì 15 maggio 2024

Pax Christi: “coscienza dell’obiezione”. 15 maggio, Giornata internazionale dell’Obiezione di coscienza

Pax Christi: “coscienza dell’obiezione”.
15 maggio, Giornata internazionale dell’Obiezione di coscienza

SCRITTO DA PAX CHRISTI ITALIA - PUBBLICATO: 14 MAGGIO 2024


Il 15 maggio di ogni anno si celebra la Giornata Internazionale dell’Obiezione di coscienza al servizio militare, e Pax Christi rinnova il proprio impegno e il proprio invito alla ‘coscienza dell’obiezione’.

La storia e il cammino di Pax Christi sono segnati da scelte e impegni in questa direzione. Una delle prima Marce di fine anno (1969) sì è svolta proprio davanti al Carcere di Peschiera, dove erano rinchiusi alcuni obiettori di coscienza, prima che venisse riconosciuta la legge 772/72. Il 15 maggio 1974 alla Casa dell’ospitalità di Ivrea, fondata da monsignor Bettazzi con l’intento di accogliere persone ai margini della società, cominciava il corso di formazione per venti obiettori.
Fino al convegno di fine dicembre 2022 a Gravina in Puglia, “Obiezione di coscienza, ieri oggi e domani. Un dovere cristiano, una conversione per tutti”, prima della marcia nazionale per la pace.
Oggi la situazione è ancora più tragica, soffiano forti venti di guerra. È ancora più importante ribadire il valore dell’Obiezione di coscienza che non è “un insulto alla Patria e ai suoi caduti, estranea al comandamento cristiano dell’amore, espressione di viltà”, come scritto dai cappellani militari in congedo della regione Toscana, il 12 febbraio 1965. A quella lettera rispose don Lorenzo Milani. Seguì poi il processo e la condanna del priore di Barbiana. “L’obbedienza non è più una virtù” resta attualissimo, un memoriale e un testamento spirituale, da rileggere e da vivere.
Papa Francesco (che incontreremo a Verona all’Arena di Pace, sabato 18 maggio) ha indicato ai giovani riuniti a Praga, il 6 luglio 2022, la grande figura di Franz Jägerstätter: “Franz era un giovane contadino austriaco che, a motivo della sua fede cattolica, fece obiezione di coscienza di fronte all’ingiunzione di giurare fedeltà a Hitler e di andare in guerra. Franz preferì farsi uccidere che uccidere. Riteneva la guerra totalmente ingiustificata. Se tutti i giovani chiamati alle armi avessero fatto come lui, Hitler non avrebbe potuto realizzare i suoi piani diabolici. Il male per vincere ha bisogno di complici.”

RIBADIAMO IL NOSTRO NO! 
NON VOGLIAMO ESSERE COMPLICI DELLA GUERRA.

Per questo, in occasione della Giornata internazionale dell’Obiezione di coscienza, ribadiamo il nostro sostegno:

Alla Campagna Obiezione alla guerra 
Agli obiettori di coscienza in Paesi in guerra 
Alla lotta dei portuali di Genova che si rifiutano di caricare e scaricare armi dalle navi
Alla Campagna contro le banche armate 
All’Osservatorio contro le scuole smilitarizzate 

Impruneta (Fi), 14 maggio 2024

Pax Christi Italia



Sperare in tempi difficili

Sperare in tempi difficili

colloquio con Enzo Bianchi a cura di Stefano Zecchi

“Rocca” nr. 9 - 01 Maggio 2024


“Casa della Madia” luogo dell’ascolto, del silenzio, dell’accoglienza, della fraternità. Siamo nella bella campagna di Albiano d’Ivrea nel canavese, in una bella giornata di sole e veniamo accolti con amicizia e affetto da Fratel Enzo Bianchi.

Carissimo Fratel Enzo, come stai?

Sto bene, molto bene. Dopo alcuni mesi di malattia, anche grave, sono stato ricoverato in ospedale e sottoposto ad alcune operazioni. Adesso mi sono ripreso, mi sento come prima, nonostante sia entrato in dialisi, ma la mia vita si svolge in pieno ritmo, con la forza che avevo prima. Sono contento di questa situazione, che non speravo più, vista la mia età di ottantuno anni.

Ci puoi raccontare com’ è nata Casa della Madia? E come mai questo nome?

“Casa della Madia” è nata per caso. Quando sono stato cacciato da Bose, ho cercato subito, nonostante le difficoltà, perché era il tempo della pandemia e non era facile muoversi viste le restrizioni che c’erano, ho cercato una casa nel Monferrato. Perché il Monferrato è la mia terra, sia perché l’amavo particolarmente e la ritenevo indicata per una vita monastica. Abbiamo trovato una ventina di strutture che potevano essere adatte, ma purtroppo il costo di queste strutture nel Monferrato è altissimo, prezzi proibitivi, da un milione di euro in su e noi non avevamo nessuna possibilità di raggiungere cifre simili. Abbiamo poi trovato, per caso, questa struttura abbandonata dai proprietari. Una bella struttura che ben si adattava ad una vita comunitaria, anche se aveva necessità di una ristrutturazione. Visto anche il prezzo abbiamo fatto un mutuo bancario e siamo riusciti ad acquistarla e poi pian piano abbiamo fatto anche i lavori di ristrutturazione. Ci aveva anche affascinato il nome “Casa della Madia”, perché in questo luogo venivano costruite le madie, un mobile in cui si faceva il pane. Era augurante per noi, il luogo del pane, della condivisione, dove si conserva il lievito e tutto questo ci ha accompagnato nella scelta.

Tu sei nato nelle Langhe, nel Monferrato, terra del buon vino, come ha inciso nella tua vita l’esser nato in questo luogo?

Direi tantissimo. Chi ha letto il mio libro, “Il pane di ieri”, vede come io sia un monferrino, appartenente al Monferrato Langhe, perché sono al confine fra questi due raggruppamenti di colline di vigne senza fine. Ho portato dentro di me da sempre il mondo contadino, il mondo della vite, che la sento come la mia spina dorsale, il mondo del vino, dell’uva e soprattutto i piccoli paesi che formano questa regione. Paesi in cui c’era la costruzione di un’umanità un tempo davvero diversa da quella che si sta costruendo oggi. Un’umanità piena di rapporti, di riconoscimenti, un’umanità che certamente aveva le sue problematiche, ma faceva in qualche misura luccicare lo sperare insieme, perché insieme si stava, insieme si sentiva di avere un unico destino, insieme si sperava.

Com’è nato il tuo desiderio, possiamo dire la vocazione, alla vita monastica?

Devo dire che c’è stato un insieme di situazioni. Mia madre è morta che avevo otto anni e mio padre non era credente, ed eravamo rimasti noi due soli. Due donne vicine di casa si erano prese cura di me. Una di loro che era anche intellettualmente raffinata mi aveva regalato a tredici anni, dopo avermi regalato la Bibbia a dodici, le regole di San Basilio, pubblicate nel 1932, le conservo ancora. Quelle regole sono state per me sempre sul comodino, mi hanno sempre accompagnato. Giunta la giovinezza mi sono chiesto che cosa dovevo fare. Dopo un’esperienza di alcuni mesi presso l’Abbé Pierre, alla periferia di Ruane, vivendo con gli straccioni, con gli scarti della società, non come volontariato, ma in mezzo a loro. Perché l’Abbé Pierre non voleva volontari ma persone che si identificassero con questi scarti, con questi straccioni, con questi alcolizzati, vivendo sotto i ponti della Senna. Questa esperienza mi cambiò profondamente. Mi convertì da un cristianesimo di Azione Cattolica ad un cristianesimo del Vangelo. Non potei più pensare a quella che era la strada già tracciata, ed era la strada della vita politica, ero già segretario del movimento giovanile provinciale della Democrazia Cristiana ad Asti. Ma lasciai tutto e andai a vivere da solo a Bose, in questa frazione abbandonata, senza luce elettrica, senza acqua potabile, case diroccate abbandonate dai contadini negli anni ’20. Tutto questo per fare una vita monastica, che fosse quella di Basilio, che non fosse una vita religiosa, che fosse la vita che possono fare tutti gli uomini senza diventare una casta o qualcosa di separato o privilegiato. Semplici cristiani. Grazie a Basilio e a Pacomio ho poi edificato quello che è stato Bose, che aveva questa singolarità di semplici cristiani, non religiosi che vivevano questa presenza nella Chiesa.

Come ci hai accennato prima hai compiuto da poco ottant’uno anni “…gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti” ci dice il Salmo 89. Hai attraversato tutta la storia della Chiesa di questi ultimi anni, che idea ti sei fatto di tutti questi cambiamenti, dal pre Concilio, al Concilio, al post Concilio?

Ho vissuto con grande attenzione, con grande coinvolgimento questa Chiesa perché sono sempre stato impegnato nella vita ecclesiale. Da sei anni fino a diciannove alle sei del mattino ho sempre servito Messa, ho avuto una vita ecclesiale molto intensa. A otto anni sono stato a Roma dal Papa, ho vinto un concorso del Piemonte perché ero quello che conosceva meglio i Vangeli. Sono arrivato al Concilio come cristiano tridentino doc, con le rigidità, i legalismi che erano del pre Concilio. Il Concilio mi ha convertito, mi ha fatto fare tutti i passaggi. Poi ho seguito il post Concilio che coincideva con gli anni universitari, la vita a Bose mi ha dato la possibilità di vedere la vita della Chiesa, di vedere i sui sviluppi e le successioni dei papi, che ho conosciuto bene. Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger di cui ero amico fin dal 1978 e poi Francesco che ha avuto per me un amore veramente forte, oserei dire che mi sento perfino indegno di tanto amore, di tanta attenzione da parte sua. Vedo oggi una Chiesa affaticata, stanca, che fa fatica ad andare avanti. Manca una visione del futuro, non sa bene dove andare. Il Papa ha visioni profetiche, ma il popolo di Dio non lo segue. C’è un divario molto forte fra il popolo di Dio e il Papa, fra il Papa e i Vescovi. Il Papa si sta arrestando, si sta fermando, lo si vede da mille cose. È impedito ad andare avanti come sentirebbe da un impulso interiore dello Spirito Santo, perché il popolo di Dio fatica, si è assottigliato, è diventato una minoranza, sembra perdente costantemente nel confronto con il mondo. Questa diagnosi molti altri non hanno il coraggio di farla: un popolo di Dio che ha perso la fede e la fraternità. Quando si perde tutto questo la Chiesa si sfilaccia. La Chiesa stessa diventa una realtà soltanto religiosa, ma non è più viva, non cammina più insieme con gli uomini verso il domani. Questa è la situazione, abbiamo sperato tanto specialmente nel post Concilio. Ho sperato nell’ecumenismo, posso dire ho dato tutta la vita per l’ecumenismo e oggi ci troviamo l’ecumenismo in frantumi, fra le Chiese e all’interno della Chiesa cattolica. Divisioni che noi non conoscevamo certamente in questi ultimi tempi.

Proprio riguardo all’ ecumenismo, questa guerra fra Ucraina e Russia come incide nei rapporti con le Chiese ortodosse?

È una guerra che in realtà sotterraneamente era combattuta molto prima, perché dopo la caduta del comunismo, gli ortodossi si sono sentiti offesi dall’invasione missionaria cattolica. Loro non hanno un apparato missionario come noi e soprattutto una dimensione del territorio, che chiamano territorio canonico, per loro è più importante della dimensione di un popolo. Questo aveva creato attrito fra i greco-ortodossi, aveva creato attrito fra le Chiese e poi è apparso un certo nazionalismo, si è cominciato ad avere un frazionamento di Chiese all’interno della stessa Ucraina. Per cui attualmente ci sono quattro Chiese ortodosse in Ucraina, senza contare i greco-cattolici. La Russia questa aggressione, in cui il patriarca si è mostrato coinvolto benedicendo la guerra, ha inteso vederla come una missione difensiva per i valori cristiani, contro i valori corrotti dell’occidente. Tutto questo ha fatto sì che fra le Chiese si sia creata una tensione forte, per cui le Chiese di origine greca si sono staccate da quelle di origine slava e anche fra quelle di origine slava non c’è più quella sintonia che c’era prima. Il mondo ortodosso è molto diviso e la Chiesa cattolica è paralizzata, perché ha sempre avuto come principio quello di dialogare con tutta l’ortodossia e non con una Chiesa piuttosto che con un’altra. Oggi si trova costretta a non dialogare per non offendere l’una, per non offendere l’altra, per non entrare in concorrenza. L’ecumenismo è veramente in frantumi e non sappiamo quanti anni occorreranno perché si possa sperare in un ecumenismo il quale porti veramente il volto di chi vuole l’unità delle Chiese e non che ogni Chiesa faccia la sua strada.

In gioventù sei stato attivo nella Fuci, una vera scuola di formazione per i cattolici impegnati in politica. Oggi non esistono più scuole di formazione, i cattolici in politica non ci sono più e se ci sono afoni. C’è disaffezione per la cosa pubblica. Come possiamo recuperare, coinvolgere specialmente i giovani all’amore per la polis?

Io credo che vada fatta una diagnosi molto chiara. Risalendo a quando negli anni ’90 i Vescovi, soprattutto con Ruini, hanno cancellato i cattolici democratici, quelli che furono accusati con disprezzo di essere cattolici adulti. A quel punto i cattolici sono stati smarriti, all’interno della sinistra hanno perso propulsione e hanno perso una capacità di coinvolgimento con gli altri. Sono diventati dei cattolici accodati alla sinistra, accodati al Partito Democratico e di conseguenza sono senza entusiasmo, senza forza, senza una motivazione. I cattolici devono riscoprire la loro identità, che senza diventare un partito (non è più il tempo del partito cattolico) ma in collaborazione con altri, percorrano lo stesso tragitto di giustizia, di pace, di uguaglianza, e possano davvero essere una forza alta. Con i giovani è difficile adesso. Con le scuole è stato tentato più volte, ma ho visto che non hanno reso, anche scuole fatte bene, basta pensare a quelle in Sicilia, a Milano… il tessuto cattolico deve ritrovare una certa unità, ma è alla radice che questo tessuto non c’è più. Persino i preti non riescono a radunare un tessuto che sia compatto e che abbia capacità di legami. La gente deve interrogarsi su cosa fa della Chiesa una fraternità. Ma in questa maniera credo che si può far poco. Se invece i cristiani hanno dei legami sono capaci di portare un messaggio nel mondo e una presenza anche nella politica. Non è possibile che i cristiani vivano in minoranza senza un’efficacia all’interno della società.

I laici, le donne non hanno ancora un ruolo significativo all’interno della Chiesa. Abbiamo ancora, nonostante papa Francesco, una Chiesa clericalizzata. Che giudizio dai del sinodo? Arriveremo ad avere i “viri probati”? Nella Chiesa primitiva il ruolo delle donne era essenziale, anche come diaconesse, come mai questa chiusura verso il diaconato femminile?

Io avevo molte speranze, adesso ne ho molte meno. Soprattutto dopo l’uscita di un documento che prepara la prossima sessione che dovrebbe dar origine all’ instrumentum laboris per la sessione di ottobre. Un documento lunghissimo, farraginoso, tutto attento al meccanismo, allo svolgimento, alla macchina, all’organizzazione, non ai punti. Sembra che ci si interessi più di come procedere, invece d’indicare dei punti verso cui procedere. Si parla di un diaconato femminile, ma per me non è essenziale. S’inventi invece un ministero per la donna, come hanno fatto nel Nuovo Testamento, quando mancava un ministero hanno inventato il ministero dei sette. Non erano diaconi, il ministero dei sette. Per la donna, se non vogliono fare il diaconato, lo inventino. Perché le donne devono avere assolutamente voce nella liturgia, nella predicazione del Vangelo, durante la vita nella Chiesa, nei luoghi in cui si comanda. Le donne sono l’altra parte del mondo, non si vede perché devono essere costantemente ausiliarie degli uomini, finché saranno ausiliarie degli uomini ci sarà il clericalismo e questo non va. Per quanto riguarda i “viri provati” temo di no, purtroppo. Hanno tutti paura, il celibato dei preti che è una legge, dovremmo vederlo si nella sua gloria, ma anche nella sua miseria. Noi invece lo conserviamo sempre come perla preziosa. Non si tratta di toglierlo, ma si tratta di permettere anche a uomini che siano sposati, che siano “provati”, che possono esercitare il ministero la dove è necessario. Sapendo che nella Chiesa per secoli è stato possibile, nelle Chiese orientali, Chiese cattoliche orientali ci sono ancora preti sposati. Perché tanta paura? Vale di più l’eucarestia oppure un assetto di Chiesa formale? Io temo… anche vedendo questo documento confuso, che parla un ecclesialese che lo capiscono forse soltanto quelli che l’anno scritto. Io confesso che non l’ho capito, l’ho letto tre volte senza capirci niente. Non c’è visione, non c’è un orientamento. Temo che in quel caso il sinodo diventi un aborto e questo sarebbe triste, perché sarebbe una grande delusione per molti cristiani che aspettavano dal sinodo un rinnovamento della vita della Chiesa, un rinnovamento nella comunione. Perché il sinodo serve solo per avere una comunione più reale, più concreta, più vera fra i cristiani. Che la Chiesa sia davvero una fraternità, come la chiamava Pietro nella sua prima lettera, ricordando che la Chiesa se non è una fraternità sarà un’identità religiosa, ma non è la Chiesa di Gesù Cristo.

Fra israeliani e palestinesi non si vede una via d’uscita all’infuori della guerra. La corsa a gli armamenti aumenta sempre più. Che ruolo possono avere le Chiese in questa fase storica? Ci sarà una speranza di pace nella terra di Gesù?

È molto difficile. Io conosco quella terra, perché ho dimorato a lungo sia in Israele che nei territori occupati, conosco bene sia gli israeliani che i palestinesi. La soluzione sarebbe quella di due popoli due stati, sia pure con il rischio che uno stato voglia diventare più forte dell’altro, essere il carabiniere dell’altro. Io credo che l’unica cosa è avviare un processo di pace, lo facciano anche l’autorità islamica e le autorità cristiane. Ma chi dovrebbe imporre la pace, mi rincresce dirlo, sono gli americani che aizzano questa guerra e non vogliono finirla, questo è il dramma. Perché nel Medio Oriente sono costantemente gli americani che accendono guerre dall’ Afganistan, alla Siria, ecc. O noi riusciamo a far stare gli americani in una situazione di osservanza della pace nel mediterraneo o altrimenti continuerà la guerra, perché loro continuano a farla quasi per tenere sempre vivo il mediterraneo come un luogo di scontro in cui misurano la propria forza.

Sono passati cento anni dalla nascita di don Lorenzo Milani, il suo insegnamento è ancora importante per noi. Rivalutato dalla Chiesa, con la visita di papa Francesco a Barbiana, e dallo Stato, con quella del Presidente Mattarella. Lui condannato per apologia di reato, per aver difeso l’obiezione di coscienza, dopo che i cappellani militari della Toscana avevano dichiarato l’obiezione di coscienza una forma di viltà. Fratel Enzo che senso ha oggi il ruolo dei cappellani militari, equiparati ai gradi dell’esercito? Le stellette sulla tonaca, mi danno fastidio. Non è un controsenso viste anche le parole di papa Francesco? Perché non si riescono ad abolire?

Credo che diano fastidio a tutti i cristiani che riflettono un po’. Ma sono tante le contraddizioni che attualmente la Chiesa ha sulle armi. La Chiesa continua a tuonare contro chi vende le armi, però bisogna essere molto chiari. Il Vaticano ha comprato ultimamente armi molte sofisticate, se pur per la difesa del proprio Stato. Non ci son più alabarde della guardia svizzera che erano decorative, ci sono armi letali ben precise, quindi in realtà c’è un esercito, c’è una guardia palatina armata. Questo, mi rincresce, ma contraddice i discorsi di pace di papa Francesco. È per un uso di difesa, ma la difesa per il vero cristiano, e papa Francesco ne è convinto, si fa con la nonviolenza attiva, non con le armi. Lì doveva crescere il popolo di Dio, noi abbiamo un popolo di Dio che in questi anni la domenica fa i cortei per la pace, ne fa tanti. Ma questi cortei per la pace poi non fanno crescere nulla nella vita concreta dei cristiani. Cosa han fatto i cristiani per imparare che cos’è la nonviolenza attiva, per rendere efficaci le vie della nonviolenza? Il papa non riesce neanche a proporre la nonviolenza attiva e si deve fermare lui, la diplomazia vaticana, a parlare di difesa con armi proporzionate, ma li non c’è il Vangelo. Il Vangelo che ci dice di non rispondere al maligno, ci dice di rispondere all’ingiustizia con una nonviolenza attiva, efficace, con l’aiuto degli altri naturalmente. La via cristiana alla pace dobbiamo imboccarla, i cortei non bastano, si fanno di sabato o di domenica poi si sciolgono subito. Ci vuole un’educazione alla pace nelle scuole, nelle parrocchie, nelle varie iniziative che la Chiesa fa, educazione alla pace attiva, questo deve essere fatto e il papa lo vorrebbe. Qualche volta ne fa un accenno, la indica, ma poi sa che anche lui non può andare troppo avanti nella dottrina perché il popolo di Dio, oggi, non è in grado di seguirlo.

Grazie Fratel Enzo, grazie davvero, però prima di salutarci vorrei chiedere a te, che considero un “folle di Dio”, una parola di speranza.

La speranza per me è sempre forte, perché anche nei momenti più bui io mi sento cantare nel cuore quelle parole di san Paolo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Nessuno ci separerà dall’ amore di Cristo”. E l’amore di Cristo non è soltanto qualcosa di personale, ma è qualcosa per l’umanità, l’umanità si salverà, sarà migliore, nonostante questi momenti bui, queste cadute, questa barbarie, che ogni tanto appare, l’umanità riprenderà, riprenderà meglio. Dobbiamo fare di tutto per questo cammino d’umanizzazione, convinti che non ci saremo più, ma quelli che verranno dopo di noi saranno uomini migliori di noi. La società sarà migliore di quella di oggi. Questa è una speranza che non può venir meno, la speranza umana. Come dicevano gli antichi “l’uomo sta in piedi grazie alla speranza.”
(fonte: Blog dell'autore)


Più di 11milioni di bambini e giovani nell'UE soffrono di un problema di salute mentale. L'analisi e le proposte dell'Unicef

Più di 11milioni di bambini e giovani nell'UE soffrono di un problema di salute mentale.
L'analisi e le proposte dell'Unicef

Settimana europea della salute mentale, circa 11,2 milioni di bambini e giovani entro i 19 anni nell’Unione Europea soffrono di un problema di salute mentale


In occasione della Settimana europea della salute mentale (13-19 maggio), l’UNICEF ricorda che, secondo la pubblicazione “Child and adolescent mental health - The State of Children in the European Union 2024”, circa 11,2 milioni di bambini e giovani entro i 19 anni nell’Unione Europea (ovvero il 13%) soffrono di un problema di salute mentale.

Nell’Unione Europea in totale, circa 5,9 milioni di maschi e 5,3 milioni di femmine fino a 19 anni soffrono di disturbi mentali. Tra le persone di età compresa tra i 15 e i 19 anni, circa l'8% soffre di ansia e il 4% di depressione.

Il suicidio è la seconda causa di morte (dopo gli incidenti stradali) tra i giovani fra i 15 e i 19 anni nell’Unione Europea. Nel 2020, circa 931 giovani sono morti per suicidio nell'UE, equivalenti alla perdita di circa 18 vite a settimana. La prevalenza del suicidio è diminuita nel corso del tempo nell'UE, con il 20% dei suicidi in meno nel 2020 rispetto al 2011. Circa il 70% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 19 anni nell'UE che muoiono per suicidio sono maschi.

In Italia, tra i ragazzi tra i 15 e i 19 anni che hanno perso la vita intenzionalmente tra il 2011 e il 2020 il 43% erano ragazzi e circa il 36% ragazze.

Investimenti esigui

Circa la metà (48%) di tutti i problemi di salute mentale a livello globale si manifesta entro i 18 anni, eppure molti casi rimangono non individuati e non trattati. Nell’Unione Europea i dati sull'accesso ai servizi per la salute mentale da parte dei bambini sono limitati, ma le evidenze indicano che, nel 2022, per quasi la metà dei giovani adulti (tra i 18 e i 29 anni) i bisogni di assistenza per la salute mentale non erano soddisfatti.

I livelli di alta soddisfazione della vita tra i quindicenni sono scesi da circa il 74% nel 2018 al 69% nel 2022 nei 23 Paesi per i quali sono disponibili i dati. Ciò equivale a oltre 220.000 ragazzi di 15 anni in meno in 23 Paesi dell'UE con un'alta soddisfazione di vita nel 2022 rispetto al 2018.

L'UNICEF accoglie con favore l'attenzione costante e crescente dell'UE all'agenda sulla salute mentale negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia di COVID-19. Ma attualmente, nei Paesi dell'UE gli investimenti nei servizi per la salute mentale sono esigui rispetto a quelli per la salute fisica. È necessario porre maggiore enfasi sull'affrontare le cause profonde dei problemi di salute mentale attraverso iniziative di prevenzione e la promozione di una salute mentale e di un benessere positivi.

In Italia

La salute mentale di bambini e adolescenti rappresenta una delle priorità di azione dell’UNICEF. Lo scorso 6 marzo, una delegazione dell’UNICEF Italia e dell’Ufficio Regionale UNICEF per l’Europa e l’Asia Centrale hanno incontrato il Ministro della Salute Orazio Schillaci, al quale sono state consegnate le oltre 21.000 adesioni raccolte per la petizione UNICEF “Salute per la mente di bambini e adolescenti” per chiedere azioni a sostegno del benessere psicosociale e della salute mentale di bambine, bambini e adolescenti.

Per sottolineare l’importanza della salute mentale fra i bambini e i giovani, l’UNICEF Italia ha realizzato una serie di materiali utili:

Iniziative rivolte anche ai minori stranieri non accompagnati

Tra le altre iniziative dell’Ufficio UNICEF per l’Europa e l’Asia centrale in Italia, che rivolgono particolare attenzione anche al gruppo specifico di minori stranieri non accompagnati in Italia, anche:
  • Il corso e-learning "Supporto integrato all’adolescenza e alla transizione all’età adulta”: frutto di collaborazione con FEDERPED, CNOAS e CNOP, il corso fornisce conoscenze e competenze di base su sei aree tematiche per favorire la comprensione delle problematiche della fascia d'età specifica e promuovere la collaborazione interdisciplinare tra professionisti;
  • Il Kit di Espressione e Innovazione per Adolescenti: uno strumento operativo versatile per giovani dai 10 ai 17 anni e indirizzato a operatori educativi, ricreativi e sanitari, che offre una guida mirata a rafforzare le competenze per la vita e il benessere di ragazze e ragazzi in adolescenza;
  • Una mappatura di buone pratiche sui servizi di supporto psicosociale e salute mentale per minori stranieri non accompagnati e giovani migranti e rifugiati che vivono in Italia;
  • Documentazione Here4U, sul servizio di salute mentale e supporto psicosociale a distanza per giovani persone migranti e rifugiate in Italia;
  • La creazione della Comunità di Pratiche (CoP) dell’UNICEF sul benessere psico-sociale e la salute mentale di giovani migranti e rifugiati per la condivisione e promozione di buone pratiche;
  • La creazione dello Youth Sounding Board, un gruppo di giovani adolescenti migranti e rifugiati che si riunisce per raccogliere e condividere con i propri coetanei informazioni chiave su servizi ed opportunità in Italia e per elaborare le loro istanze affinché diventino spunto per migliorare i servizi a loro dedicati.
(fonte: Unicef 13/05/2024)



martedì 14 maggio 2024

“Nella vecchiaia non abbandonarmi” messaggio di Papa Francesco per la quarta Giornata mondiale dei nonni e degli anziani

“Nella vecchiaia non abbandonarmi”
Il messaggio di Francesco per la quarta Giornata mondiale dei nonni e degli anziani

No alla triste “congiura sociale” 
che produce abbandono e isolamento


L’accusa rivolta ai vecchi di «rubare il futuro ai giovani» è molto presente oggi ovunque: prende le mosse da questa constatazione il messaggio di Papa Francesco per la quarta Giornata mondiale dei nonni e degli anziani, che si celebrerà il prossimo 28 luglio.

«Nella vecchiaia non abbandonarmi» il tema tratto dal Salmo 71, 9 del documento pontificio diffuso oggi: e proprio sul contrasto all’abbandono e all’isolamento considerati «una esclusione programmata... una triste “congiura sociale”... quando l’età avanza e le forze declinano» è incentrata la riflessione del vescovo di Roma.

Del resto, «troppo spesso la solitudine è l’amara compagna della vita di noi anziani», scrive Papa Bergoglio identificandosi con i suoi coetanei. Anche perché, aggiunge, essa «e lo scarto non sono casuali né ineluttabili, ma frutto di scelte — politiche, economiche, sociali e personali — che non riconoscono la dignità della persona». Da qui l’esortazione del vescovo di Roma a superare la contrapposizione tra generazioni, vero e proprio «inganno», anzi «frutto avvelenato della cultura dello scontro». Perché, spiega, «mettere i giovani contro gli anziani è una manipolazione inaccettabile». Contestualmente alla pubblicazione del messaggio del Papa, il Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, organizzatore della Giornata, ha reso disponibile un kit pastorale ad essa dedicato.
(fonte: L'Osservatore Romano14/05/2024)

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DELLA
IV GIORNATA MONDIALE DEI NONNI E DEGLI ANZIANI

28 luglio 2024

“Nella vecchiaia non abbandonarmi” (cfr. Sal 71,9)


Cari fratelli e sorelle!

Dio non abbandona i suoi figli, mai. Nemmeno quando l’età avanza e le forze declinano, quando i capelli imbiancano e il ruolo sociale viene meno, quando la vita diventa meno produttiva e rischia di sembrare inutile. Egli non guarda le apparenze (cfr 1 Sam 16,7) e non disdegna di scegliere coloro che a molti appaiono irrilevanti. Non scarta alcuna pietra, anzi, le più “vecchie” sono la base sicura sulla quale le pietre “nuove” possono appoggiarsi per costruire tutte insieme l’edificio spirituale (cfr 1 Pt 2,5).

La Sacra Scrittura, tutta intera, è una narrazione dell’amore fedele del Signore, dalla quale emerge una consolante certezza: Dio continua a mostrarci la sua misericordia, sempre, in ogni fase della vita, e in qualsiasi condizione ci troviamo, anche nei nostri tradimenti. I salmi sono colmi della meraviglia del cuore umano di fronte a Dio che si prende cura di noi, nonostante la nostra pochezza (cfr Sal 144,3-4); ci assicurano che Dio ha tessuto ognuno di noi fin dal seno materno (cfr Sal 139,13) e che nemmeno negli inferi abbandonerà la nostra vita (cfr Sal 16,10). Dunque, possiamo essere certi che ci starà vicino anche nella vecchiaia, tanto più perché nella Bibbia invecchiare è segno di benedizione.

Eppure, nei salmi troviamo anche quest’accorata invocazione al Signore: «Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia» (Sal 71,9). Un’espressione forte, molto cruda. Fa pensare alla sofferenza estrema di Gesù che sulla croce gridò: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46).

Nella Bibbia, dunque, troviamo la certezza della vicinanza di Dio in ogni stagione della vita e, al tempo stesso, il timore dell’abbandono, particolarmente nella vecchiaia e nel momento del dolore. Non si tratta di una contraddizione. Guardandoci attorno, non facciamo fatica a verificare come tali espressioni rispecchino una realtà più che evidente. Troppo spesso la solitudine è l’amara compagna della vita di noi, anziani e nonni. Tante volte, da vescovo di Buenos Aires, mi è capitato di visitare case di riposo e di rendermi conto di quanto raramente quelle persone ricevessero visite: alcune non vedevano i loro cari da molti mesi.

Sono tante le cause di questa solitudine: in molti Paesi, soprattutto i più poveri, gli anziani si ritrovano soli perché i figli sono costretti a emigrare. Oppure, penso alle numerose situazioni di conflitto: quanti anziani rimangono soli perché gli uomini – giovani e adulti – sono chiamati a combattere e le donne, soprattutto le mamme con bambini piccoli, lasciano il Paese per dare sicurezza ai figli. Nelle città e nei villaggi devastati dalla guerra rimangono tanti vecchi e anziani soli, unici segni di vita in zone dove sembrano regnare l’abbandono e la morte. In altre parti del mondo, poi, esiste una falsa convinzione, molto radicata in alcune culture locali, che genera ostilità nei confronti degli anziani, sospettati di fare ricorso alla stregoneria per togliere energie vitali ai giovani; così che, in caso di morte prematura o di malattia o di sorte avversa che colpiscono un giovane, la colpa viene fatta ricadere su qualche anziano. Questa mentalità va combattuta ed estirpata. È uno di quegli infondati pregiudizi, dai quali la fede cristiana ci ha liberato, che alimenta una persistente conflittualità generazionale fra giovani e anziani.

Se ci pensiamo bene, quest’accusa rivolta ai vecchi di “rubare il futuro ai giovani” è molto presente oggi ovunque. Essa si riscontra, sotto altre forme, anche nelle società più avanzate e moderne. Ad esempio, si è ormai diffusa la convinzione che gli anziani fanno pesare sui giovani il costo dell’assistenza di cui hanno bisogno, e in questo modo sottraggono risorse allo sviluppo del Paese e dunque ai giovani. Si tratta di una percezione distorta della realtà. È come se la sopravvivenza degli anziani mettesse a rischio quella dei giovani. Come se per favorire i giovani fosse necessario trascurare gli anziani o addirittura sopprimerli. La contrapposizione tra le generazioni è un inganno ed è un frutto avvelenato della cultura dello scontro. Mettere i giovani contro gli anziani è una manipolazione inaccettabile: «È in gioco l’unità delle età della vita: ossia, il reale punto di riferimento per la comprensione e l’apprezzamento della vita umana nella sua interezza» (Catechesi 23 febbraio 2022).

Il salmo citato in precedenza – dove si supplica di non essere abbandonati nella vecchiaia – parla di una congiura che si stringe attorno alla vita degli anziani. Sembrano parole eccessive, ma le si comprende se si considera che la solitudine e lo scarto degli anziani non sono casuali né ineluttabili, bensì frutto di scelte – politiche, economiche, sociali e personali – che non riconoscono la dignità infinita di ogni persona «al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi» (Dich. Dignitas infinita, 1). Ciò avviene quando si smarrisce il valore di ciascuno e le persone diventano solo un costo, in alcuni casi troppo elevato da pagare. Ciò che è peggio è che, spesso, gli anziani stessi finiscono per essere succubi di questa mentalità e giungono a considerarsi come un peso, desiderando essi stessi per primi di farsi da parte.

D’altro canto, oggi sono molte le donne e gli uomini che cercano la propria realizzazione personale in un’esistenza il più possibile autonoma e slegata dagli altri. Le appartenenze comuni sono in crisi e si affermano le individualità; il passaggio dal “noi” all’“io” appare uno dei più evidenti segni dei nostri tempi. La famiglia, che è la prima e più radicale contestazione dell’idea che ci si possa salvare da soli, è una delle vittime di questa cultura individualista. Quando si invecchia, però, a mano a mano che le forze declinano, il miraggio dell’individualismo, l’illusione di non aver bisogno di nessuno e di poter vivere senza legami si rivela per quello che è; ci si trova invece ad aver bisogno di tutto, ma oramai soli, senza più aiuto, senza qualcuno su cui poter fare affidamento. È una triste scoperta che molti fanno quando è troppo tardi.

La solitudine e lo scarto sono diventati elementi ricorrenti nel contesto in cui siamo immersi. Essi hanno radici molteplici: in alcuni casi sono il frutto di una esclusione programmata, una sorta di triste “congiura sociale”; in altri casi si tratta purtroppo di una decisione propria. Altre volte ancora si subiscono fingendo che si tratti di una scelta autonoma. Sempre di più «abbiamo perso il gusto della fraternità» (Lett. enc. Fratelli tutti, 33) e facciamo fatica anche solo a immaginare qualcosa di differente.

Possiamo notare in molti anziani quel sentimento di rassegnazione di cui parla il libro di Rut quando narra della vecchia Noemi che, dopo la morte del marito e dei figli, invita le due nuore, Orpa e Rut, a far ritorno al loro paese di origine e alla loro casa (cfr Rut 1,8). Noemi – come tanti anziani di oggi – teme di rimanere da sola, eppure non riesce a immaginare qualcosa di diverso. Da vedova, è consapevole di valere poco agli occhi della società ed è convinta di essere un peso per quelle due giovani che, al contrario di lei, hanno tutta la vita davanti. Per questo pensa che sia meglio farsi da parte e lei stessa invita le giovani nuore a lasciarla e a costruire il loro futuro in altri luoghi (cfr Rut 1,11-13). Le sue parole sono un concentrato di convenzioni sociali e religiose che sembrano immutabili e che segnano il suo destino.

Il racconto biblico ci presenta a questo punto due diverse opzioni di fronte all’invito di Noemi e dunque di fronte alla vecchiaia. Una delle due nuore, Orpa, che pure vuol bene a Noemi, con un gesto affettuoso la bacia, ma accetta quella che anche a lei sembra l’unica soluzione possibile e se ne va per la sua strada. Rut, invece, non si stacca da Noemi e le rivolge parole sorprendenti: «Non insistere con me che ti abbandoni» (Rut 1,16). Non ha paura di sfidare le consuetudini e il sentire comune, sente che quell’anziana donna ha bisogno di lei e, con coraggio, le rimane accanto in quello che sarà l’inizio di un nuovo viaggio per entrambe. A tutti noi – assuefatti all’idea che la solitudine sia un destino ineluttabile – Rut insegna che all’invocazione “non abbandonarmi!” è possibile rispondere “non ti abbandonerò!”. Non esita a sovvertire quella che sembra una realtà immutabile: vivere da soli non può essere l’unica alternativa! Non a caso Rut – colei che rimane vicina all’anziana Noemi – è un’antenata del Messia (cfr Mt 1,5), di Gesù, l’Emmanuele, Colui che è il “Dio con noi”, Colui che porta la vicinanza e la prossimità di Dio a tutti gli uomini, di tutte le condizioni, di tutte le età.

La libertà e il coraggio di Rut ci invitano a percorrere una strada nuova: seguiamo i suoi passi, mettiamoci in viaggio con questa giovane donna straniera e con l’anziana Noemi, non abbiamo paura di cambiare le nostre abitudini e di immaginare un futuro diverso per i nostri anziani. La nostra gratitudine va a tutte quelle persone che, pur con tanti sacrifici, hanno seguito di fatto l’esempio di Rut e si stanno prendendo cura di un anziano o semplicemente mostrano quotidianamente la loro vicinanza a parenti o conoscenti che non hanno più nessuno. Rut ha scelto di stare vicina a Noemi ed è stata benedetta: con un matrimonio felice, una discendenza, una terra. Questo vale sempre e per tutti: stando vicino agli anziani, riconoscendo il ruolo insostituibile che essi hanno nella famiglia, nella società e nella Chiesa, riceveremo anche noi tanti doni, tante grazie, tante benedizioni!

In questa IV Giornata Mondiale dedicata a loro, non facciamo mancare la nostra tenerezza ai nonni e agli anziani delle nostre famiglie, visitiamo coloro che sono sfiduciati e non sperano più che un futuro diverso sia possibile. All’atteggiamento egoistico che porta allo scarto e alla solitudine contrapponiamo il cuore aperto e il volto lieto di chi ha il coraggio di dire “non ti abbandonerò!” e di intraprendere un cammino differente.

A tutti voi, carissimi nonni e anziani, e a quanti vi sono vicini giunga la mia benedizione accompagnata dalla preghiera. Anche voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 25 aprile 2024.

FRANCESCO