MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME I CAPITOLO 28



XXVIII. L'arrivo a Betlemme.

   5 giugno 1944.

   28.1Vedo una strada maestra. Vi è tanta folla. Asinelli che vanno carichi di masserizie e di persone. Asinelli che tornano. La gente sprona le cavalcature, e chi è a piedi va in fretta perché fa freddo.
   L’aria è tersa e asciutta, il cielo sereno, ma tutto ha quel tagliente netto dei giorni di pieno inverno. La campagna, spogliata, sembra più vasta, e i pascoli hanno un’erbetta corta, bruciacchiata dai venti invernali; sui pascoli le pecore cercano un poco di nutrimento e cercano il sole che sorge piano piano. Stanno strette l’una all’altra perché hanno freddo anche loro, e belano alzando il muso e guardando il sole come dicessero: «Vieni presto, ché fa freddo!». Il terreno è a ondulazioni che si fanno sempre più nette. È un vero posto di collina. Vi sono conche erbose e coste, vi sono vallette e dorsi. La strada vi passa in mezzo e va a sud-est.
   Maria è su un ciuchino bigio. Tutta avvolta nel pesante mantello. Sul davanti della sella è quell’arnese già visto nel viaggio verso Ebron, e sopra il cofano delle cose più necessarie.
   Giuseppe cammina a lato tenendo la briglia. «Sei stanca?», chiede ogni tanto.
   Maria lo guarda sorridendo e dice: «No». Alla terza volta aggiunge: «Tu piuttosto, che devi camminare, sarai stanco».
   «Oh! io! Per me è niente. Penso che, se avessi trovato un altro asino, potevi essere più comoda e fare più presto. Ma non ho proprio trovato. Occorre a tutti, ora, la cavalcatura. Ma fa’ cuore. Presto siamo a Betlemme. Oltre quel monte è Efrata».
   Tacciono. La Vergine, quando non parla, pare raccogliersi in interna preghiera. Sorride di un sorriso mite ad un suo pensiero e, se guarda la folla, pare non la veda per quello che è: un uomo, una donna, un vecchio, un pastore, un ricco o un povero. Ma per quello che Lei solo vede.
   «Hai freddo?», chiede Giuseppe, perché il vento si leva.
   «No. Grazie».
   Ma Giuseppe non si fida. Le tocca i piedi, penzolanti sul fianco del ciuchino, i piedi calzati nei sandali e che appena si vedono spuntare dalla lunga veste, e li deve sentire freddi, perché scuote il capo e si leva una coperta che ha a tracolla e avvolge le gambe di Maria e gliela stende anche sul grembo, di modo che le mani stiano ben calde sotto di essa e del manto.

   28.2Incontrano un pastore, che taglia la via col suo gregge passando dal pascolo di destra a quello di sinistra. Giuseppe si curva a dirgli qualcosa. Il pastore annuisce. Giuseppe prende il ciuchino e lo trascina dietro al gregge nel pascolo. Il pastore si leva una rozza scodella da una bisaccia e munge una grassa pecora dalle gonfie mammelle e dà la scodella a Giuseppe, che la offre a Maria.
   «Dio vi benedica entrambi», dice Maria. «Tu per il tuo amore, e tu per la tua bontà. Pregherò per te».
   «Venite da lontano?».
   «Da Nazareth», risponde Giuseppe.
   «E andate?».
   «A Betlemme».
   «Lungo viaggio per la donna in quello stato. È tua moglie?».
   «È mia moglie».
   «Avete dove andare?».
   «No».
   «Brutta cosa! Betlemme è piena di popolo venuto da ogni dove per segnarsi o per andare a segnarsi altrove. Non so se troverete alloggio. Sei pratico del luogo?».
   «Non molto».
   «Ebbene… io ti insegno… per Lei (e accenna a Maria). Cercate dell’albergo. Sarà pieno. Ma ve lo dico per darvi una guida. È in una piazza, la più grande. Vi si va da questa via maestra. Non potete sbagliare. Vi è una fonte davanti, ed è grande e basso con un gran portone. Sarà pieno. Ma, se non trovate niente nell’albergo e nelle case, girate dietro all’albergo, verso la campagna. Vi sono stalle nel monte, che delle volte servono ai mercanti che vanno a Gerusalemme per mettervi le bestie che non trovano posto nell’albergo. Sono stalle, sapete, nel monte: umide, fredde e senza porta. Ma sono sempre un rifugio, perché la donna… non può rimanere per la via. Forse là trovate un posto… e del fieno per dormire e per l’asino. E che Dio vi accompagni».
   «E Dio ti dia gioia», risponde Maria.
   Giuseppe invece risponde: «La pace sia con te».

   28.3Riprendono la strada. Una conca più vasta si mostra dal ciglione che hanno superato. Nella conca, su e giù per le chine morbide che la circondano, vi sono case e case. È Betlemme.
   «Eccoci nella terra di Davide, Maria. Ora riposerai. Mi sembri stanca tanto…».
   «No. Pensavo… penso…». Maria afferra la mano di Giuseppe e gli dice con un sorriso beato: «Penso proprio che il tempo sia giunto».
   «Dio di misericordia! Come facciamo?».
   «Non temere, Giuseppe. Abbi costanza. Vedi come sono calma io?».
   «Ma soffri molto».
   «Oh! no. Sono piena di gaudio. Un gaudio tale, così forte, così bello, così incontenibile, che il mio cuore batte forte forte e mi dice: “Egli nasce! Egli nasce!”. Lo dice ad ogni battito. È il mio Bambino che bussa al mio cuore e dice: “Mamma, son qui che vengo a darti il bacio di Dio”. Oh! che gioia, Giuseppe mio!».
   Ma Giuseppe non è nella gioia. Pensa all’urgenza di trovare un ricovero e affretta il passo. Porta per porta chiede un ricovero. Niente. Tutto occupato. Giungono all’albergo. È pieno, persino sotto i rustici portici che circondano il grande cortile interno, di gente che bivacca.
   Giuseppe lascia Maria sul ciuchino dentro al cortile ed esce cercando nelle altre case. Torna sconfortato. Non vi è nulla. Il rapido crepuscolo invernale comincia a stendere i suoi veli. Giuseppe supplica l’albergatore. Supplica dei viaggiatori. Loro sono uomini e sani. Qui vi è una donna prossima a dare un figlio alla luce. Abbiano pietà. Niente.
   Vi è un ricco fariseo che li guarda con palese disprezzo e, quando Maria si accosta, si scansa come si fosse avvicinata una lebbrosa. Giuseppe lo guarda e un rossore di sdegno gli monta al volto. Maria posa la sua mano sul polso di Giuseppe per calmarlo e dice: «Non insistere. Andiamo. Dio provvederà».

   28.4Escono e seguono il muro dell’albergo. Svoltano per una stradetta incassata fra questo e delle povere case. Girano dietro l’albergo. Cercano. Ecco delle specie di grotte, di cantine, direi, più che di stalle, tanto sono basse e umide. Le più belle sono già occupate. Giuseppe si accascia.
   «Ehi! Galileo!», gli grida dietro un vecchio. «Là in fondo, sotto quella rovina, vi è una tana. Forse non c’è ancora nessuno».
   Si affrettano a quella «tana». È proprio una tana. Fra macerie di qualche fabbricato in rovina vi è un pertugio, oltre il quale vi è una grotta, uno scavo nel monte più che grotta. Si direbbe che sono le fondamenta dell’antica costruzione, a cui fan da tetto le macerie appuntellate da tronchi d’albero appena sgrezzati.



   Per vedere meglio, poiché vi è pochissima luce, Giuseppe trae esca e acciarino e accende una lucernetta che trae dalla bisaccia che ha a tracolla. Entra, e un muggito lo saluta. «Vieni, Maria. È vuota. Non vi è che un bue». Giuseppe sorride. «Meglio che niente!…».

   28.5Maria smonta dal ciuchino ed entra.
   Giuseppe ha appeso la lucernetta ad un chiodo infisso in uno dei tronchi che fanno da pilone. Si vede la volta piena di ragnatele, il suolo — terreno battuto e tutto sconquassato, con buche, ciottoli, detriti ed escrementi — sparso di steli di paglia. In fondo, un bue si volta e guarda coi suoi occhi quieti mentre del fieno gli pende dalle labbra. Vi è un rozzo sedile e due pietre in un angolo presso una feritoia. Il nero di quell’angolo dice che là si fa fuoco.
   Maria si accosta al bue. Ha freddo. Gli mette le mani sul collo per sentirne il tepore. Il bue muggisce e si lascia fare. Pare comprenda. Anche quando Giuseppe lo spinge in là per levare molto fieno alla greppia e fare un letto a Maria — la greppia è doppia, ossia vi è quella dove mangia il bue e, sopra, una specie di scansia con su dell’altro fieno di scorta, e Giuseppe prende quello — lascia fare. Fa posto anche al ciuchino che, stanco e affamato, si dà subito a mangiare.
   Giuseppe scova anche un secchio capovolto, tutto ammaccato. Esce, perché fuori ha visto un rio, e torna con dell’acqua per l’asinello. Poi si impadronisce di una fascina di frasche messa in un angolo e cerca scopare un poco il suolo. Poi stende il fieno, ne fa un giaciglio, presso il bue, nell’angolo più asciutto e riparato. Ma lo sente umido, questo povero fieno, e sospira. Accende il fuoco e, con una pazienza da certosino, asciuga a manate il fieno tenendolo presso il calore.
   Maria, seduta sullo sgabello, stanca, guarda e sorride. Ecco pronto. Maria si accomoda meglio nel soffice fieno, con le spalle appoggiate ad un tronco. Giuseppe completa… l’arredamento stendendo il suo mantello come una tenda sul pertugio che fa da porta. Un riparo molto relativo. Poi offre pane e formaggio alla Vergine e le dà da bere l’acqua di una borraccia.
   «Dormi, ora», le dice poi. «Io veglierò perché il fuoco non si spenga. Vi è della legna, per fortuna, speriamo duri e arda. Potrò risparmiare l’olio del lume».
   Maria si stende ubbidiente. Giuseppe la copre col mantello di Maria stessa e con la coperta che aveva prima ai piedi.
   «Ma tu… avrai freddo, tu».
   «No, Maria. Sto presso al fuoco. Cerca di riposare. Domani andrà meglio».
   Maria chiude gli occhi senza insistere. Giuseppe si rincantuccia nel suo angolo, sullo sgabello, con degli sterpi accanto. Pochi. Che durino a lungo non credo.
   Sono situati così: Maria a destra, con le spalle alla… porta, semi nascosta dal tronco e dal corpo del bue, che si è accosciato nella lettiera. Giuseppe a sinistra e verso la porta, in diagonale perciò, e, avendo il volto al fuoco, ha le spalle verso Maria. Si gira però a guardarla ogni tanto e la vede quieta, come dormisse. Spezza piano le sue fraschette e le getta una per una sul fuocherello perché non si spenga, perché dia luce e perché la poca legna duri. Non vi è che il bagliore, ora più vivo ora quasi morto, del fuoco. Perché il lume è stato spento e nella penombra spicca soltanto il biancore del bue e del viso e delle mani di Giuseppe. Tutto il resto è una massa che si confonde nella penombra greve.
   

   28.6«Non vi è dettato», dice Maria. «La visione parla da sé. A voi di capirne la lezione di carità, umiltà e purezza che emana. Riposa. Vegliando riposa, come io vegliavo attendendo Gesù. Egli verrà a portarti la sua pace».