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 PROFESSIONE DI FEDE E GIURAMENTO DI FEDELTÀ

Considerazioni dottrinali*

 

 

Le formule di Professione di fede e di Giuramento di fedeltà ora pubblicate, che saranno obbliganti nella Chiesa a partire dal prossimo 1° marzo, si distinguono per due elementi di novità rispetto alla formula di Professione di fede in vigore dal 1967.

Relativa è la novità della formula di Professione di fede. Essa consiste nella descrizione più chiara e completa degli obblighi ed atteggiamenti del credente, in aggiunta a quelli derivanti dalla integrale accettazione del Simbolo così detto niceno-costantinopolitano, inteso cioè come documento liturgico, con l’inserzione postuma del “Filioque”, che appunto dalla plurisecolare tradizione liturgica deriva anch’essa un carattere sacro ed anche intangibile (cfr S. Bulgakov, Il Paraclito, Bologna 1971, p. 251). È invece una novità assoluta quella dell’aggiunta complementare del Giuramento di fedeltà, che mancava nel testo dei 1967.

1. L’una e l’altra formula hanno un’ascendenza piuttosto remota. Rispettivamente: la Professione di fede tridentina del 1564, poi integrata, nel 1877, con la menzione delle definizioni del Concilio Vaticano I (cfr. DS 1862-1870) e, in certo senso, il Giuramento antimodernista del 1910 (cfr. DS 3537-3550).

La distanza di tempo dalla loro composizione e la peculiarità delle circostanze storiche nelle quali questa era avvenuta, come pure la notevole ampiezza dei due testi abbinati, concorrevano insieme a fare avvertire l’opportunità di un’accurata revisione e riduzione.

Un tentativo in tal senso fu fatto, in vista della celebrazione del Concilio Vaticano II, dalla Commissione teologica preparatoria; che però si risolse in un nulla di fatto. La nuova formula di Professione di fede da essa proposta, pur integrando in un unico testo la Professione di fede e il Giuramento antimodernista, copriva oltre due pagine fitte (cfr. Acta et Documenta Concilio Vaticano II apparando, Ser. II, II 1, pp. 495-497). Il richiamo, poi, agli «errori di questo tempo» e l’assunzione in blocco delle Encicliche Pascendi e Humani generis, a lato dei Concili ecumenici, conferivano alla Professione un carattere di provvisorietà e non la premunivano da una certa eccedenza nell’assenso richiesto. Non sorprende quindi che, in sede di Commissione preparatoria centrale, essa apparisse non rispondente alle giuste attese (cfr. Acta et Documenta, pp. 502-523). Fatto sta che nella prima sessione pubblica del Vaticano II, l’11 ottobre 1962, la Professione di fede emessa dal Sommo Pontefice e dagli altri Padri conciliari rimase ancora quella tridentina (cfr. Acta synodalia, I, 1, p. 157s).

Subito dopo il Concilio un nuovo tentativo fu avviato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, ed arrivò in porto con la produzione del testo ricordato del 1967. In tale testo, della tradizionale Professione di fede tridentina è conservato soltanto il Simbolo. Tutto il resto è stato condensato nell’affermazione di fermamente accettare e ritenere tutto ciò che circa la dottrina sulla fede e i costumi è stato con solenne giudizio definito dalla Chiesa oppure è stato affermato e dichiarato dal suo magistero ordinario, con particolare riguardo al mistero della Chiesa, ai sacramenti, al sacrificio della Messa, e al primato del Romano Pontefice (cfr. AAS 1967, p. 1058).

Questa affermazione onnicomprensiva, se si raccomandava per la sua brevità, non era immune da un doppio svantaggio: quello di non ben distinguere le verità proposte a credere come divinamente rivelate da quelle proposte in modo definitivo sebbene non divinamente rivelate; e quello di passare sotto silenzio gli insegnamenti del supremo magistero senza la connotazione del divinamente rivelato o della proposizione definitiva.

D’altra parte, sé doveva restare abolito il Giuramento antimodernista come tale, non era tuttavia escluso di sostituirlo con una nuova modalità di impegno di fedeltà, che fosse di norma e criterio per l’assolvimento di determinati uffici nella Chiesa. Effettivamente una nuova modalità di tale impegno venne intanto adottata per i Vescovi all’inizio del proprio ministero, espressa nella formula di Giuramento di fedeltà entrata in vigore il 1° luglio 1987. Era dunque naturale che una modalità analoga venisse estesa ad altre persone deputate ad altri uffici, che ugualmente richiedono la previa Professione di fede a norma del CIC can. 833, nn. 5°-8°.

In questo contesto si collocano il significato e la finalità delle nuove formule di Professione di fede e di Giuramento di fedeltà, elaborate, a partire dal 1984, a più riprese e a vari livelli dalla Congregazione per la dottrina della Fede, e approvate dal Papa il 1° luglio 1988.

2. La parte nuova della formula Professione di fede si compone di tre distinti paragrafi o commi, ciascuno dei quali enunzia una particolare categoria di verità o dottrine e il rispettivo assenso che esse richiedono.

1) Nel primo comma sono ricordate le verità appartenenti alla fede, perché contenute nell’unico deposito della Parola di Dio, costituito dalla sacra Tradizione e dalla sacra Scrittura, affidato alla Chiesa (cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione domm. Dei verbum, n. 10), e perché dalla Chiesa sono proposte a credere come divinamente rivelate, sia con una definizione congiunta dell’intero Collegio episcopale oppure con una definizione singolare del Romano Pontefice, sia dal magistero ordinario e universale (cfr. Concilio Vaticano I, Costituzione domm. Dei Filius, cap. 3: DS 3011). Esse pertanto richiedono l’assenso di fede.

Tutte le verità così proposte sono uguali tra loro, anche se diverso è il loro nesso con la fede, poiché alcune si fondano su altre come principali e sono da queste illuminate. Tutte quindi, appunto perché divinamente rivelate, devono essere semplicemente «credute» nel senso immutabile inteso dalla Chiesa (cfr. Concilio Vaticano I, Costituzione domm. Dei Filius, cap. 4 can. 3: DS 3020 e 3043). Le parole che indicano l’assenso ad esse dovuto, «credo con ferma fede», indicano insieme l’intensità e l’immutabilità dell’assenso stesso.

Con le medesime parole è inoltre precisato che soltanto le verità divinamente rivelate fanno parte in senso pieno della Professione di fede. Quelle invece delle altre due categorie che seguono appartengono ad essa in modo più ò meno distanziato, e tuttavia sono anche esse, a loro modo, riflesso e proiezione della Chiesa quale «comunità di fede, di speranza e di carità» (Concilio Vaticano II, Costituzione domm. Lumen gentium, n. 8).

2) Nel secondo comma sono ricordate le verità circa la dottrina sulla fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo, ma non come divinamente rivelate.

Perché proposte in modo definitivo, esse devono essere fermamente accettate e ritenute. Ma perché non proposte come divinamente rivelate, l’ossequio ad esse dovuto non è un ossequio di fede nell’accezione rigorosa del termine.

Il Concilio Vaticano I, nella formula di definizione dommatica dell’infallibilità pontificia, ha deliberatamente inclusa la possibilità che la Chiesa definisca dottrine, senza peraltro proporle come divinamente rivelate. Ad una precedente espressione, infatti, con la quale si diceva che oggetto dell’infallibilità, sia del Romano Pontefice che di tutta la Chiesa docente, è tutto ciò che, in materia di fede e di costumi, è definito «come da ritenersi di fede o da rigettare come contrario alla fede» (cfr. Mansi 52, 7 B), il Concilio volle poi preferire l’espressione possibilista con la quale è definito che oggetto di detta infallibilità è la dottrina circa la fede o i costumi proposta come «da ritenersi dalla Chiesa universale», senza specificazione di come debba essere ritenuta (cfr. Costituzione domm. Pastor aeternus, cap. 4: DS 3074). Anche il Concilio Vaticano II, a proposito dell’infallibilità dei vescovi dispersi nel mondo, ma in comunione tra di loro e con il successore di Pietro, oppure adunati in Concilio ecumenico, parla di sentenze definitive e di definizioni in modo generico, senza specificare che debbano essere esclusivamente proposizioni o definizioni di fede (cfr. Costituzione domm. Lumen gentium, n. 25).

Può rientrare nell’oggetto di definizioni irreformabili, anche se non di fede, tutto ciò che si riferisce alla legge naturale, essa pure espressione della volontà di Dio. A tale titolo appartiene anch’essa alla competenza interpretativa e propositiva della Chiesa, in ragione del suo ministero di salvezza.

3) Il terzo comma è dedicato agli insegnamenti, ancora più remotamente connessi con la Professione di fede propriamente detta, riguardanti le dottrine proposte dal magistero autentico del Romano Pontefice o dal Collegio dei Vescovi senza l’intenzione di proporle in modo definitivo. La mancanza di tale intenzione è qualificante dell’atto di insegnamento e, quindi, della non definitività delle dottrine insegnate.

Ad esse dunque non è dovuto né l’assenso di fède né un assenso irrevocabile. È dovuto tuttavia l’ossequio religioso della volontà e dell’intelletto. In quanto «religioso», esso non si fonda su motivazioni puramente razionali, ma sulla riconosciuta specificità della funzione ecclesiale del Romano Pontefice e dei Vescovi, che gli Apostoli lasciarono come loro successori, affidando ad essi il proprio ufficio di magistero (cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione domm. Dei verbum, n. 7). In quanto ossequio «dell’intelletto», oltre che della volontà, esso non è un semplice atto di insegnamento. È sincera adesione alle stesse dottrine insegnate, sulle quali l’ultima parola spetta comunque al Magistero autentico della Chiesa.

3. Mentre l’emissione della Professione di fede è la condizione abilitante ad assumere un ufficio nella Chiesa, il Giuramento di fedeltà è l’impegnò pubblico a bène esercitarlo di fronte alla Chiesa stessa e di fronte alle istituzioni e persone per le quali è stato assunto.

L’osservanza dei cinque commi che lo compongono costituisce, dunque, il parametro dell’adempimento dei singoli uffici e insieme la verifica della fedeltà dei rispettivi titolari.

Il Giuramento di fedeltà insomma, qualunque sia la categoria di persone tenute a farlo, ha l’unico intento che ciascuna contribuisca, con le parole e i fatti, a mantenere ed accrescere la comunione all’interno della Chiesa, di modo che nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa si abbia pieno accordo dei pastori e dei fedeli (cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione domm. Dei verbum, n. 10).

 

Umberto Betti, o.f.m.

 

 

* Notitiae 25 (1989) 321-325.

 

 

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