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#SALVIAMOLAMESSA/PARLA BENEDETTO XVI

"Messa senza prete, comunità che celebra se stessa"

In un libro del 2011 Benedetto XVI aveva già visto i rischi delle liturgie domenicali senza sacerdote in assenza di uno stato di necessità dettato da persecuzioni o terre di missione. E metteva in allerta sul rischio di trovarsi con una “comunità che celebra se stessa” anteponendo al primato di Dio le esigenze della parrocchia: "La chiesa diventa un veicolo per uno scopo sociale e si rende schiava di un romanticismo anacronistico". Il punto è capire "se qui avvenga qualcosa che non proviene da noi stessi, o se invece siamo soltanto noi a progettare e a plasmare un'atmosfera di comunione".

Ecclesia 29_12_2018

Cos'è più importante: la comunità o il primato di Dio? La campagna della Nuova BQ #salviamolamessa sull'uso di ricorrere con sempre più superficialità alle liturgie della Parola in luogo della Santa Messa ha messo in evidenza, attraverso le segnalazioni dei lettori, un problema ormai sotto gli occhi di tutti: la comunità viene messa al primo posto e pazienza se non si celebra la messa. Ma come stanno le cose? Che comunità cristiana ci può mai essere se le viene tolta la principale fonte di sostentamento e di attrattiva rappresentata dall'Eucarestia? E' evidente che bisognerebbe iniziare a ricentrare tutta la questione per poter inquadrare anche il fenomeno delle liturgie domenicali senza sacerdote nel giusto ambito, rappresentato da uno stato di necessità oggettivo e non da una scomodità più o meno accertata.

In questo senso ci viene in soccorso uno scritto recente di Papa Benedetto XVI che nel 2011 aveva già inquadrato la problematica denunciando l'inversione tra il primato di Dio e la comunità. Un'inversione che possiamo vedere anche nell'uso di celebrare le messe in maniera sciatta o nell'abuso di chiese utilizzate per altri scopi da quelli cultuali. Questo capitolo intitolato "Liturgie domenicali senza sacerdote" e pubblicato nel libro di Joseph Ratzinger "Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana" (Libreria Editrice Vaticana, 2011, pp 287 – 291) può contribuire a chiarire le idee e a stimolare un dibattito che i lettori possono continuare ad arricchire segnalando quanto accade nella propria comunità parrocchiale a redazione@lanuovabq.it con oggetto #salviamolamessa

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Sono due i princìpi che, conseguentemente alle nostre riflessioni, devono guidare il nostro agire nella prassi.
1. Vale la priorità del Sacramento sulla psicologia. Vale la priorità della Chiesa sul gruppo.
2. Col presupposto di quest'ordine gerarchico, le Chiese locali devono cercare la risposta giusta alle rispettive situazioni, sapendo che il loro compito essenziale è la salvezza degli uomini (salus animarum). In tale orientamento di tutto il loro lavoro si ritrovano sia il loro vincolo che la loro libertà.

Guardiamo ora ambedue i princìpi più da vicino. Nelle terre di missione, nella diaspora, in situazioni di persecuzione, non vi è nulla di nuovo nel fatto che di Domenica la Celebrazione eucaristica sia irraggiungibile e che allora si debba tentare, nella misura del possibile, di sintonizzarsi interiormente con la celebrazione domenicale della Chiesa. Da noi il calo delle vocazioni sacerdotali suscita sempre più sensibilmente situazioni di tal genere che finora ci erano in gran parte insolite. Purtroppo, la ricerca della soluzione giusta è spesso offuscata da ideologie d'impronta collettivista che sono piuttosto di ostacolo che non di aiuto alla reale esigenza. Si è detto, per esempio: ogni chiesa che prima aveva un parroco o comunque una regolare celebrazione domenicale, deve continuare ad essere luogo di adunanza festiva della comunità locale. Soltanto così la chiesa rimarrebbe il punto centrale del paese; soltanto così la comunità rimarrebbe viva come comunità. Per questo motivo sarebbe più importante per essa riunirsi proprio lì ascoltando e celebrando la Parola di Dio, che non approfittare della possibilità, di per sé esistente, di partecipare alla Celebrazione eucaristica stessa in una chiesa situata nelle vicinanze.

In quest'argomentazione ci sono molti elementi plausibili e, indubbiamente, anche buone intenzioni. Ma vengono dimenticate le valutazioni fondamentali della fede. In tale visione, l'esperienza dello stare insieme, la cura della comunità del paese, sta al di sopra del dono del Sacramento. Senza dubbio, l'esperienza dello stare insieme è più direttamente accessibile e più facilmente spiegabile di quanto non lo sia il Sacramento.

Viene quindi spontaneo ripiegare dalla dimensione oggettiva dell'Eucaristia verso quella soggettiva dell'esperienza, dalla dimensione teologica verso quella sociologica e psicologica. Ma le conseguenze di un simile anteporre la condivisione vissuta alla realtà sacramentale sono gravi: la comunità in tal caso celebra se stessa. La chiesa diventa un veicolo per uno scopo sociale; per giunta, in questo modo si rende schiava di un romanticismo che nella nostra società caratterizzata dalla mobilità è alquanto anacronistico.

Certo, all'inizio le persone, piene di gioia, si sentono valorizzate dal fatto che ormai celebrano esse stesse nella loro chiesa, che possono «farlo da sé». Ma ben presto si accorgono che ora non c'è altro se non quello che fanno esse stesse; che non ricevono più nulla, ma celebrano se stesse. In quel caso, però, tutto diventa una cosa di cui si può anche fare a meno, poiché ora il culto domenicale, in sostanza, non va più al di là di ciò che si fa di solito e sempre. Non tocca più un ordine diverso; è anch'esso ormai solo «produzione propria». È quindi impossibile che gli possa essere insito quell'«obbligo» assoluto di cui la Chiesa ha sempre parlato.

Tale valutazione, però, si estende poi con intrinseca logica anche all'autentica Celebrazione eucaristica. Poiché se la Chiesa stessa sembra dire che l'assemblea è più importante dell'Eucaristia, allora anche l'Eucaristia è, appunto, solo «assemblea» - altrimenti, infatti, l'equiparazione non sarebbe possibile; allora l'intera Chiesa si abbassa al livello del «fai da te» e alla fine si dà ragione alla triste visione di Durkheim, secondo cui religione e culto non sono altro che forme di stabilizzazione sociale attraverso l'autopresentazione della società. Ma non appena si diventa di ciò consapevoli, tale stabilizzazione non funziona più, giacché essa si realizza solo quando si pensa che ci sia in gioco qualcosa di più. Chi eleva la comunità a scopo diretto, è proprio lui che ne dissolve le fondamenta. Ciò che inizialmente appare tanto pio e plausibile, è in realtà un rovesciamento delle valutazioni e degli ordini, che tocca le radici, e con cui, dopo qualche tempo, si ottiene il contrario di quanto si era voluto.

Solo se conserva il suo carattere del tutto incondizionato e la sua assoluta priorità su ogni finalità sociale e su ogni intenzione di spirituale edificazione, il Sacramento crea comunità ed «edifica» l'uomo. Anche una celebrazione sacramentale psicologicamente meno ricca e dal punto di vista soggettivo piuttosto priva di splendore e noiosa, è alla lunga (se ci si può esprimere in modo così utilitaristico) anche «socialmente» più efficace che non lo sia l'auto-edificazione psicologicamente e sociologicamente ben riuscita della comunità. Si tratta, infatti, della questione fondamentale, se qui avvenga qualcosa che non proviene da noi stessi, o se invece siamo soltanto noi a progettare e a plasmare un'atmosfera di comunione. Se non esiste «l'obbligo» superiore del Sacramento, diventa insulsa la libertà che ora ci si prende, perché resta priva del suo contenuto.

In modo completamente diverso stanno invece le cose quando si tratta di un caso di vera necessità. Allora, infatti, non è che con una celebrazione senza sacerdote ci si riduca nella sfera solamente umana; in quel caso essa rappresenta piuttosto il gesto comune con cui ci si protende verso il «dominicus», la Domenica della Chiesa. Con questa azione ci si aggrappa allora al comune dovere e volere della Chiesa, e quindi al Signore stesso.

La domanda decisiva è: dove corre il confine tra volontà personale e vera necessità? Questo confine certamente non può essere tracciato in modo astrattamente univoco e sarà anche nel dettaglio sempre fluttuante. Esso deve essere trovato nelle singole situazioni dalla sensibilità pastorale degli interessati, in sintonia con il Vescovo. Esistono delle regole che possono essere utili. Che non sia lecito ad un sacerdote celebrare di Domenica più di tre volte, non è una fissazione positiva del diritto canonico, ma corrisponde ai limiti di ciò che è realmente eseguibile. Questa è una disposizione dal punto di vista del celebrante; per quanto riguarda i fedeli, bisogna porsi la questione della ragionevolezza delle distanze da superare e della raggiungibilità delle celebrazioni in tempi convenienti. Di tutto ciò non si dovrebbe troppo costruire una casistica prefabbricata, ma lasciare spazio alla decisione coscienziosa in considerazione delle esigenze.

L'essenziale è che si rispetti l'ordine giusto del grado di importanza e che la Chiesa non celebri se stessa, ma il Signore che essa riceve nell'Eucaristia al quale va incontro nelle situazioni in cui la comunità senza sacerdote si protende verso il dono che Egli costituisce.