Trilogia MORTE - VALTORTAVOX

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Ora Santa di Gesù370

«“Se non ti laverò non avrai parte nel mio Regno”.
Anima che amo, e voi tutti che amo, udite. Io sono che vi parlo, perché voglio passare con voi quest’ora.
Io, Gesù, non vi allontano dal mio altare anche se ad esso venite con l’anima lesa da piaghe e malattie o avvolta in liane di passioni che vi mortificano nella vostra libertà spirituale, dandovi legati in potere della carne e del suo re: Lucifero.
Io sono sempre Gesù, il Rabbi di Galilea, quello che i lebbrosi, i paralitici, i ciechi, gli ossessi, gli epilettici chiamavano a gran voce dicendo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me”. Io sono sempre Gesù, il Rabbi che tende la mano a colui che affoga e gli dice: “Perché dubiti di Me?”. Io sono sempre Gesù, il Rabbi che dice ai morti: “Alzati e vai. Lo voglio. Esci dal tuo sonno di morte, dal tuo sepolcro, e cammina” e vi rendo a chi vi ama.
E chi vi ama, o miei diletti? Chi vi ama di amore vero, non egoista, non mutabile? Chi vi ama di un amore non interessato, non avaro, ma unica sua mèta è quella di darvi ciò che per voi ha accumulato e dirvi: “Prendi. È tutto tuo. Tutto questo l’ho fatto per te, perché sia tuo e tu ne goda”? Chi? L’eterno Dio. Ed Io a Lui vi rendo. A Lui che vi ama.
Io non vi allontano dal mio altare. Perché quell’altare è la mia cattedra, è il mio trono, è la dimora del Medico che guarisce ogni male. Da qui Io vi insegno ad avere fede. Da qui, Re di Vita, vi dono la Vita. Da qui mi curvo sulle vostre malattie e le risano con l’alito del mio amore.
Faccio più ancora, o figli. Scendo da questo altare e vi vengo incontro. Eccomi che mi faccio alla soglia di queste mie case dove troppo pochi entrano e in meno ancora vi entrano con fede sicura. Eccomi che, figura di pace, mi affaccio sulle vostre vie dove passate accasciati, avvelenati, arsi dal dolore, dall’interesse, dall’odio. Ecco che vi tendo le mani perché vi vedo vacillare stanchi sotto il peso di macigni che vi siete imposti e che hanno preso il posto di quella croce che Io vi avevo data in mano perché vi fosse sostegno come lo è il bordone per il pellegrino. Ecco che vi dico: “Entra. Riposa. Bevi”, perché vi vedo esausti, assetati.
Ma voi non mi vedete. Mi passate accosto, mi urtate, talora per malanimo, talora per offuscamento di vista spirituale, mi guardate delle volte. Ma sapete di essere sozzi e non osate accostarvi al mio candore di Ostia divina. Ma questo Candore vi sa compatire. Conoscetemi, uomini, che di Me diffidate perché non mi conoscete.
Udite. Io ho voluto lasciare la Libertà e la Purezza che sono l’atmosfera del Cielo e scendere in questa vostra carcere, in quest’aria impura, per aiutarvi, perché vi amo. Più ancora ho fatto: mi sono privato della mia libertà di Dio e mi sono reso schiavo di una carne. Lo spirito di Dio chiuso in una carne, l’Infinità serrata in un pugno di muscoli e ossa, soggetta a sentire le voci di questa carne a cui è pena il freddo e il sole, la fame, la sete, la fatica. Tutto potevo ignorare. Ho voluto conoscere le torture dell’uomo decaduto dal suo trono di innocente per amarvi di più.
Non mi è bastato ancora. Ho voluto – poiché per compatire bisogna patire ciò che patisce chi si compatisce – ho voluto sentire l’assalto di tutti i sentimenti per sentire le vostre lotte, per capire quale astuta tirannide vi pone nel sangue Satana, per comprendere come è facile rimanere ipnotizzati dal Serpente se si abbassano un solo momento gli occhi sul suo sguardo fascinatore, dimenticando di vivere nella luce. Perché nella luce non vive il serpe. Va nei recessi ombrosi che paiono riposanti e sono unicamente insidiosi. Per voi queste ombre hanno nome: donna, denaro, potere, egoismo, senso, ambizione. Vi eclissano la Luce che è Dio. In mezzo ad esse è il Serpente: Satana. Pare un monile. È la corda per il vostro strangolamento. Ho voluto conoscere ciò perché vi amo.
Non mi è bastato ancora. A Me sarebbe bastato. Ma la Giustizia del Padre poteva dire alla sua Carne: “Tu hai trionfato dell’insidia. L’uomo-carne come Te, ora, non sa trionfare, e perciò sia punito perché Io non posso perdonare a chi è sozzo”. Ho preso su Me le vostre sozzure. Quelle passate, quelle del momento e quelle future. Tutte. Più di Giobbe, immerso in un letamaio putrido per fare velo alle sue piaghe, Io fui quando, sommerso dal peccato di tutto un mondo, non osavo neppur più alzare gli occhi a cercare il Cielo e gemevo sentendo pesare su Me il corruccio del Padre accumulato da secoli, cosciente delle colpe avvenire. Un diluvio di colpe sulla Terra, dalla sua alba alla sua notte. Un diluvio di maledizioni sul Colpevole. Sul­l’Ostia del Peccato.
O uomini! Più innocente di un pargolo che la madre bacia al ritorno dal suo battesimo Io ero. E di Me inorridì l’Altissimo perché ero il Peccato, avendo preso su Me tutto il peccato del mondo. Ho sudato di ribrezzo. Sangue ho sudato per il ribrezzo di questa lebbra su Me che ero l’Innocente. Il sangue m’ha rotto le vene nello schifo di questo fetido stagno in cui ero sommerso. E a compiere questa tortura, a spremere dal cuore il mio sangue, si è unito l’amaro di esser maledetto, perché non ero in quell’ora il Verbo di Dio: ero l’Uomo. L’Uomo. Il Colpevole.
Posso, Io che ho provato, non comprendere il vostro avvilimento e non amarvi perché siete avviliti? Vi amo per questo. Non ho che ricordare quell’ora per amarvi e chiamarvi: “Fratelli!”. Ma chiamarvi così non basta perché il Padre vi possa chiamare: “Figli”. Ed Io voglio che così vi chiami. Che fratello sarei se non vi volessi meco nella Casa paterna?
Ecco allora che vi dico: “Venite ché Io vi lavi”. Nessuno è tanto lurido che il mio lavacro non lo deterga. Nessuno è tanto puro da non aver bisogno del mio bagno. Venite. Non è acqua questa. Vi sono fonti di miracolo che sanano le piaghe e i morbi della carne. Ma questa è più di esse. Questa fonte sgorga dal mio petto.
Ecco il Cuore squarciato da cui zampilla l’acqua che lava. Il mio Sangue è la più limpida acqua che sia nel creato. In esso si annullano infermità e imperfezioni. E bianca e integra torna la vostra anima, degna del Regno.
Venite. Lasciate che Io vi dica: “Io ti assolvo!” Apritemi il vostro cuore. In esso sono le radici dei vostri mali. Lasciate che Io entri. Lasciate che Io sleghi le vostre bende. Vi fanno ribrezzo le vostre piaghe? Viste alla mia luce vi appaiono qual sono: brulicanti di vermi schifosi. Non le guardate. Guardate le mie. Lasciatemi fare. Ho mano leggera. Non sentirete che una carezza… e tutto sarà guarito. Non sentirete che un bacio e una lacrima. E tutto sarà mondato.
O come belli sarete, allora, intorno al mio altare! Angeli fra gli angeli del Ciborio. E grande gioia ne avrà il mio Cuore. Perché sono il Salvatore e non disprezzo nessuno. Ma sono anche l’Agnello che si pasce fra i gigli, e d’esser circondato di candore mi beo perché per farvi candidi ho preso vita e ho dato vita.
O come vedo sorridervi il Padre e sfolgorarvi dei suoi fulgori l’Amore, perché non siete più macchiati di peccato!
Venite alla fonte del Salvatore. Il mio Sangue scenda sul­l’animo contrito e una voce, in cui è la mia, dica: “Io ti assolvo nel nome del Padre, Figlio e Spirito Santo”.»
«“Uno di voi mi tradirà”.
Uno di voi! Sì, nella proporzione di uno a dodici uno di voi mi tradisce.
Ogni tradimento è più penoso di una lanciata. Guardate l’Umanità del vostro Redentore. Dalla testa ai piedi è tutta una ferita. La flagellazione fa inorridire chi la medita e agonizzare chi la prova. Ma fu strazio di un’ora. Voi che mi tradite mi flagellate il Cuore. Sono secoli che lo fate.
Io vi ho amato. Io vi amo. Io vi compatisco. Io vi perdono. Io vi lavo, levandomi il Sangue per farvene bagno purificatore. E voi mi tradite.
Sono il Verbo di Dio. Sono glorioso in Cielo. Ma in questo Cielo vi sono non solo come spirito. Vi sono anche come Carne. La carne ha sentimenti e affetti. Perché volete rinnovare a Me, continuamente, quel corrodente fuoco che è la vicinanza di un traditore? Il Cielo è lontano? No, figli che mi tradite. Io sono vicino a voi. Sono fra voi. E voi mi bruciate con la vampa del vostro tradire.
Guardo, cercando un conforto, fra le diverse classi di persone. Ed in ognuna incontro sguardi e sguardi di traditori. Perché mi tradite? Io sto fra voi per farvi del bene. Perché mi volete fare del male? Io vi porto i miei doni. Perché voi mi gettate contro mordenti aspidi? Io vi chiamo: “Amici”. Perché voi mi rispondete: “Maledetto”? Che vi ho fatto? Quale uomo conoscete che sia paziente e buono più di Me?
Guardate. Quando siete felici nessuno vi abbandona. Ma se piangete, ma se la ricchezza vi abbandona, ma se una malattia vi fa contagiosi, ecco che tutti si allontanano da voi. Io resto. Anzi Io vi accolgo proprio allora, perché allora venite. Non avete più nessuno con cui piangere e parlare, e allora vi ricordate di Me. Ed Io non vi dico: “Va’ via, ché non ti conosco”. Lo potrei dire perché infatti non siete mai venuti a dirmi, mentre eravate ricchi, sani e felici: “Lo sono e te ne dico grazie”.
Ma no. Non pretendo neppure questo, da chi non è già gigante d’amore. Il “grazie” non lo pretendo. Mi basterebbe mi diceste: “Sono felice”. Dirmelo. Non considerarmi estraneo a voi. Ricordarvi che ci sono anche Io. Avere un pensiero per questo Gesù. Il “grazie” lo direi Io per voi a Dio: Padre mio e vostro. Invece non venite mai. E potrei dire: “Non vi conosco”. Invece, ecco che vi apro le braccia e dico: “Vieni, ché piangiamo insieme”.
Guardate. Sono nelle carceri, nelle celle piccole e avvilenti, seduto sullo stesso tavolaccio del forzato, e gli parlo di una libertà più vera di quella che è oltre quelle quattro mura, di una libertà che non teme più d’esser lesa da colpe che vanno punite. Eppure quel carcerato è uno che mi ha tradito, offendendo la mia legge d’amore. Forse ha ucciso. Forse ha rubato. Ma ora mi chiama. Eccomi da lui. Il mondo lo sprezza. Io lo amo. Ho chiamato “amico” colui che uccideva Me e mi derubava della vita. Posso chiamare “amico” questo infelice che mi ritorna.
Sono, fiamma d’amore, presso i malati. Le loro febbri conoscono la mia carezza, il loro sudore il mio sudario, i loro languori il mio braccio che li sostiene, le loro angosce la mia parola. Eppure molti sono malati per avermi tradito nella mia legge. Hanno servito la carne. E la carne, pazza belva, si è perduta e li perde, ora, anche nella vita. Pure eccomi che Io sono l’Unico che non mi stanco del loro male e veglio con loro, e soffro con loro, e sorrido alle loro speranze e, se appena il Padre lo vuole, le muto in realtà. Ma se vedo che il decreto è di morte, ecco che prendo questo mio fratello, che trema davanti al mistero della morte e che mi chiama, e gli dico: “Non temere. Credi sia tenebra: è luce. Credi sia dolore: è gioia. Dàmmi la tua mano. Conosco la morte. L’ho conosciuta prima di te. So che è un attimo e che Dio soprannaturalmente sovviene ad attutire il sensorio per non accasciare l’anima nella lotta estrema. Fidati. Guarda Me. Me solo… Ecco! vedi? Hai passato la soglia. Vieni con Me ora, dal Padre. Non temere neppure ora. Io sono con te. Il Padre ama chi amo”.
Sono nelle case deserte. Prima erano liete di voci. È passata la morte o la miseria. Il superstite si aggira solo. Gli amici fuggiti. Gli amati lontani, per lavoro o per morte. Vi è il sole nel cielo, ma al superstite tutto è tenebra. Vi è pace nell’aria notturna, ma per il superstite non c’è riposo. Eppure molte volte in quella casa mi si è tradito, facendo delle creature degli dèi. Si è amato idolatramente le creature tradendo la mia legge. Ma Io entro e vengo a mettere un raggio nelle tenebre, a infondere una pace dove è tempesta. Quel superstite mi ha chiamato… Forse soprappensiero… forse senza vera volontà di avermi. Ma Io vado senza ritardo.
Oh! che non chiedo che di esser con voi. Ogni ricordo cade, di passato errore, quando mi chiamate: “Gesù!”.
Ma non mi flagellate il Cuore! È già aperto e svenato. Non invelenite la sua ferita. E a quelli che mi hanno capito nel mio dolore di tradito dico: “Uno di voi mi tradirà. Datemi il vostro amore fedele per balsamo”. E lo dico a tutti. Ai santi, i prediletti miei come Dio. Ai peccatori, i prediletti miei come Gesù. Perché anche i peccatori, per cui divenni Gesù, possono medicarmi questa ferita.
Siete samaritani? Lo so. Ma la mia parabola parla di un samaritano buono che medica le ferite non medicate dai figli della Legge che passano oltre, assorti nella fretta di servire Dio. Non sanno che Dio si serve più amando che facendo pratiche.
Io sono il Ferito languente sulle vostre vie. I predoni mi hanno assalito e spogliato. I predoni: coloro che indegnamente fruiscono del mio sacrificio di Dio che si fa carne. Mi spogliano: negandomi con le loro eresie molteplici i miei attributi. Spogliano la Verità perché quella veste fa loro gola perché è splendente. Ma non sanno che splende perché è indossata da chi è Sole e in mano a loro, che la coprono della bava della loro mente superba, diviene straccio qualunque.
La Verità è verità, e di questa luce illumina ogni cosa quando è vista unita a Dio. Divisa, diviene linguaggio babelico. Perché la Verità è Scienza e Sapienza. Ma avulsa da Dio diviene caos.
Voi medicatemi, anche se samaritani. Datemi il vostro olio e vino. L’olio: l’amore; il vino: la contrizione del vostro io. Medicatemi. Non vi sdegno. La peccatrice che ristora i miei piedi stanchi vi parli e dica se Io sprezzo il peccatore.
Ma non mi tradite mai più. Andate e non peccate più. Tutto vi perdono se tutto in voi mi ama. Datemi un bacio sincero. La mia guancia brucia per il bacio dei traditori. Medicatela col bacio della fedeltà.»
«“Amatevi l’un l’altro come Io vi ho amati”.
Dalla cuna alla croce. Da Betlem al monte Oliveto, vi ho amati.
Il freddo e la miseria della prima mia notte nel mondo non mi hanno impedito di amarvi collo spirito mio e, annichilendo Me stesso sino a non poter dirvi, Io-Verbo: “Vi amo”, vi ho detto quelle parole con lo spirito mio, inscindibile da quello del Padre e con esso operante in una attività inesausta.
L’agonia della mia ultima notte sulla Terra non mi ha impedito di amarvi. Anzi ha toccato le vette più alte dell’amore. Anzi ha arso nell’incendio più vivo. Anzi ha consumato tutto quanto non era amore sino a spremere, insieme al ribrezzo per il peccato e al dolore del paterno abbandono, il sangue dalle mie vene.
Quale amore più grande di quello che sa amare sapendosi odiato? Io vi ho amati così. Il primo gesto delle mie mani, una carezza. L’ultimo, una benedizione. E in mezzo a questi due gesti, nato il primo nel buio di una notte d’inverno, l’ultimo nello splendore di un ardente mattino d’estate, trentatré anni di gesti di amore, rispondenti ad altrettanti moti di amore. Amore di miracoli, amore di carezze ai pargoli e agli amici, amore di maestro, amore di benefattore, amore di amico, amore, amore, amore…
E amore più che umano nell’ultima Cena. Prima d’essere legate e trafitte, queste mie mani hanno lavato i piedi degli apostoli, anche di colui al quale avrei voluto lavare il cuore, ed hanno spezzato il pane. E mi spezzavo il Cuore con quel pane. Quello vi davo. Perché sapevo prossimo il mio ritorno al Cielo e non volevo lasciarvi soli. Perché sapevo come siete facili a dimenticarvi e volevo vi vedeste, fratelli seduti ad un unico desco, intorno alla mia mensa, per dirvi l’un l’altro: “Siamo di Gesù!”.
Quale amore più grande di quello che sa amare chi lo tortura? Eppure Io vi ho amati così. E per voi ho saputo pregare mentre morivo.
Amatevi come Io vi ho amati. L’odio estingue la luce. Anche il semplice astio offusca la pace. Dio è pace, è luce, perché Dio è amore. Ma se non amate, e [non] amate come Io vi ho amati, non potrete avere Dio.
Come Io vi ho amati. Perciò senza superbie. Da questo tabernacolo, da questa croce, da questo Cuore non escono che parole di umiltà. Sono Dio e sono Servo vostro, e sto qui in attesa che mi diciate: “Ho fame” per darmi Pane a voi. Sono Dio e mi espongo ai vostri occhi su un legno che era patibolo infame, nudo e maledetto. Sono Dio e vi prego di amare il mio Cuore. Vi prego. Per amore vostro, perché se mi amate fate del bene a voi. Io sono Dio. Con o senza il vostro amore sono sempre Dio. Ma voi no. Senza il mio amore siete nulla: polvere.
Io vi voglio con Me. Vi voglio qui. Voglio della vostra polvere fare una luce di beatitudine. Voglio che non moriate. Ma viviate perché Io sono Vita e voglio che voi abbiate la Vita.
Amatevi senza egoismi. Sarebbe un amore impuro, destinato a morire di malattia. Amatevi volendo per gli altri più bene di quello che non augurate a voi. È molto difficile. Lo so. Ma vedete questo eucaristico Pane? Esso ha fatto i martiri. Erano creature come voi: paurose, deboli, viziose anche. Questo Pane ne ha fatto degli eroi.
Nel primo punto vi ho indicato il mio Sangue per vostra purificazione. Al terzo punto, per fare di voi dei santi, vi indico questa Mensa e questo Pane. Il Sangue da peccatori vi ha fatto giusti. Il Pane da giusti vi fa santi. Un bagno monda ma non nutre. Rinfresca, ristora, ma non si fa carne nella carne. Il cibo invece diviene sangue e carne, diviene voi stessi. Il mio Cibo diviene voi stessi.
Oh! pensate! Guardate un piccolo bambino. Oggi mangia il suo pane e domani ancora e poi domani, e domani, e domani. Eccolo che si fa uomo: alto, robusto, bello. È sua mamma che l’ha fatto così? No. Sua madre l’ha concepito, portato, dato alla luce, allattato e amato, amato, amato. Ma il piccolino, se dopo il latte non avesse avuto altro che bagni, baci e amore, sarebbe perito di inedia. Quel piccolo si fa uomo per il cibo da adulto che prende. Quell’uomo è tale perché prende giornalmente il suo cibo.
Lo stesso è per il vostro io spirituale. Nutritelo del Cibo vero che dal Cielo discende e che dal Cielo vi porta tutte le energie per farvi virili nella Grazia. La virilità sana e forte è sempre buona. Guardate come è più facile vedere uno, malazzato, essere aspro e senza compatimento e pazienza. Il mio Cibo vi farà sani e forti nella virilità dello spirito e saprete amare gli altri più di voi stessi, come Io vi ho amati.
Perché, guardate, figli, Io vi ho amati non come uno ama se stesso. Ma più di Me stesso. Tanto che mi sono posto a morte per salvare voi dalla morte. Se amerete così, conoscerete Dio. Sapete cosa vuol dire conoscere Dio? Vuol dire sapere il gusto della vera Gioia, della vera Pace, della vera Amicizia.
Oh! l’Amicizia, la Pace, la Gioia di Dio! È premio promesso ai beati. Ma esso è già dato a chi ama sulla Terra con tutto se stesso.
L’amore per esser vero non è di parole. È di fatti. Attivo come la sua fonte che è Dio. Né mai si stanca di operare neppure per delusioni che vengono dai fratelli. Povero quell’amore che cade come uccello dalle ali deboli quando un ostacolo lo ferisce! Il vero amore, anche ferito, sale. Con l’unghia e col becco si arrampica, se più non può volare, per non giacere nell’ombra e nel gelo, per essere nel sole, medicina di ogni male. E appena rinvigorito ecco che riprende il volo. E va da Dio ai fratelli e da questi a Dio, angelica farfalla che porta i pollini dei celesti giardini per fecondare i terrestri fiori, e porta i profumi, rapiti ai più umili fiori, a Dio perché li accolga e li benedica.
Ma guai se si allontana dal sole. Il Sole è la mia Eucarestia, perché in essa è benedicente il Padre, amante lo Spirito, mentre Io, il Verbo, opero.
Venite e prendete. Questo è il Cibo che ardentemente chiedo sia consumato da voi.»
«“Se rimanete in Me e rimane in voi la mia dottrina, vi sarà dato quel che chiedete”.
Io scendo in voi e mi faccio cibo vostro. Ma, come Centro che Io sono, a Me vi aspiro. Voi vi nutrite di Me, ma con più ragione Io mi nutro di voi. Le due fami sono insaziabili e continue. La vite nutre i suoi polloni. Ma sono i polloni che fanno la vite. L’acqua nutre i mari, ma sono i mari che nutrono l’acqua, risalendo in evaporazioni per scendere di nuovo. Perciò voi dovete rimanere in Me come Io in voi. Divisi, non Io, ma voi morreste.
Io sono cibo per lo spirito e cibo per il pensiero. Lo spirito si nutre della Carne di un Dio. Essenza effusa da Dio, non può aver cibo che da ciò che è la sua matrice. Il pensiero si nutre della mia Parola che è il Pensiero di un Dio.
Il vostro pensiero! L’intelligenza è quella che vi fa somiglianti a Dio perché nell’intelligenza è memoria, intelletto e volontà, come nello spirito è somiglianza per essere spirito, libe­ro, immortale.
Il vostro pensiero, per esser capace di ricordare, intelligere, volere ciò che è bene, deve esser nutrito della mia dottrina. Essa vi ricorda i benefici e le opere di Dio, chi è Dio, che si deve a Dio. Essa vi fa comprendere il bene e discernerlo dal male. Essa vi fa volere fare il bene. Senza la mia dottrina divenite schiavi di altre che hanno nome “dottrina”, ma sono errori. E come navi senza bussola e timone voi andate a naufragio. Uscite dalle rotte. E come potete allora dire: “Dio mi ha abbandonato” quando siete voi che avete abbandonato Lui?
Rimanete in Me. Se non vi rimanete, è segno che mi odiate. E il Padre mio odia chi mi odia, perché chi odia Me odia il Padre essendo Io uno col Padre. Rimanete in Me. Fate che il Padre non possa distinguere il tralcio dalla vite tanto il tralcio è uno con essa. Fate che il Padre non possa capire dove finisco Io e cominciate voi tanto la somiglianza è piena. Chi ama finisce per prendere dell’amato inflessioni, intercalari e gesti.
Io voglio che voi siate altrettanti Gesù. E questo perché voglio che voi abbiate quanto chiedete – fusi a Me, non potete chiedere che cose buone – e non abbiate a conoscere ripulse. E questo perché Io voglio che abbiate più ancora di quanto chiedete, perché il Padre effonde in un continuo flusso d’amore i suoi tesori sul Figlio suo. E chi è nel Figlio fruisce di questa infinita effusione, che è l’amore di Dio che si letifica nel suo Verbo e che circola in Lui. Ora Io sono il Corpo e voi le membra, e perciò la Gioia che mi inonda e viene dal Padre, la Potenza, la Pace, ogni altra perfezione che in Me circola, si trasfonde in voi, miei fedeli che siete parte di Me, inscindibile qui e oltre.
Venite e chiedete. Non abbiate paura di chiedere. Tutto potete chiedere perché Dio tutto può dare. Chiedete per voi e per tutti. Io vi ho insegnato. Chiedete per i presenti e per gli assenti. Chiedete per i passati, i presenti, i futuri. Chiedete per questa vostra giornata e per la vostra eternità, e per questa e quella di chi amate.
Chiedete, chiedete, chiedete. Per tutti. Per i buoni perché Dio li benedica. Per i malvagi perché Dio li converta. Dite con Me: “Padre, perdona loro”. Chiedete: la salute, la pace in famiglia, la pace nel mondo, la pace per l’eternità. Chiedete la santità. Sì, anche questa. Dio è il Santo ed è il Padre. Chiedetegli, in un con la vita che vi mantiene, la santità attraverso la Forza che viene da Lui.
Non abbiate paura di chiedere. Il pane quotidiano e la benedizione quotidiana. Non siete tutto corpo, non siete ancora tutto spirito. Chiedete per questo e quello, e vi sarà dato. Non temete di osare troppo. Io per voi ho chiesto la mia stessa gloria, anzi ve l’ho data addirittura perché siate simili a Noi che vi amiamo e il mondo conosca che siete figli di Dio.
Venite. In questo mio Cuore è il Padre vostro. Entrate, ché Egli vi possa riconoscere e dire: “Si faccia gran festa nei Cieli perché ho ritrovato un figlio che amavo”.»
«Ti ho accontentata» dice Gesù. «Ho parlato sempre Io. Ho voluto parlasse la mia eucaristica Voce. Abbiatela per mio regalo. Benedico te e tutti quelli che l’ascolteranno.»

[368] Nennolina, così veniva chiamata la piccola Antonietta Meo (1930-1937), che apparirà e parlerà alla scrittrice il 6 luglio.
[369] hai detto, il 25 maggio, descrivendo la “visione” avuta la sera precedente.
[370] Ora Santa di Gesù. Si articola in quattro punti, ciascuno dei quali si richiama ad una frase del Vangelo. Il primo: Giovanni 13, 8. Il secondo: Matteo 26, 21; Marco 14, 18; Luca 22, 21; Giovanni 13, 21. Il terzo: Giovanni 13, 34. Il quarto: Giovanni 15, 7.
[371] dicendo, per esempio in Matteo 15, 22 e Marco 10, 47. Seguono un rinvio a Matteo 14, 31; e un altro rinvio a Marco 5, 41 o Luca 7, 14; 8, 54 o Giovanni 11, 43.
[372] immerso…, come si legge in Giobbe 2, 8.
[373] Ho chiamato “amico”, in Matteo 26, 50.
[374] parabola riportata in Luca 10, 29-37.
[375] La peccatrice, quella dell’episodio di Luca 7, 36-50.
[376] Cibo vero che dal Cielo discende, come nel discorso riportato in Giovanni 6, 30-58.
[377] ardentemente, come nell’episodio della cena pasquale riferito in Luca 22, 14-16.
[378] Essenza effusa da Dio, espressione che sarà chiarita nel “dettato” del giorno seguente.
[379] il Padre mio odia…, come in Sapienza 14, 9 e in Siracide 12, 6.
[380] tralciovite…, secondo l’immagine del discorso riportato in Giovanni 15, 1-11.
[381] Corpomembra…, secondo l’immagine di san Paolo in 1 Corinzi 12, 12; parte di Me, nel significato paolino di “unità”, non in quello di “frazione”.
[382] vi ho insegnato, per esempio in Matteo 7, 7-8; 21, 22; Marco 11, 24; Luca 11, 9-10.
[383] Dite con Me, come in Luca 23, 34.
[384] ho chiesto la mia stessa gloria, in Giovanni 17, 1-5. Anche questo punto sarà ripreso e chiarito nel “dettato” del giorno seguente.
[385] dire, come in Luca 15, 32.

♦ Estratto dai QUADERNI del 1944 /14 giugno ♦ Copyright © Fondazione Erede di Maria Valtorta • ETS


L’ora del Getsemani. 6 luglio 1944

Dice Gesù:
«Vedi, anima mia, che avevo molta ragione di dire: “La conoscenza del mio tormento del Getsemani non sarebbe capita e diverrebbe scandalo”?
La gente non ammette il Demonio. Quelli che l’ammettono non ammettono che il Demonio abbia potuto vessare l’anima di Cristo sino al punto di far sudare sangue. Ma tu, che hai avuto un briciolo di questa tentazione, puoi comprendere. Parliamo dunque insieme [Lc 22, 44].
Mi hai chiesto: “Quante sono le agonie del Getsemani che mi dai?”.
Oh! tante! Non per piacere di tormentarti. Unicamente per bontà di Maestro e Sposo. Non potrei su te, piccola sposa, abbattere tutto insieme il cumulo di desolazione che mi accasciò quella sera e che nessuno intuì, che nessuno comprese fuorché mia Madre e il mio Angelo. [Lc 22, 43] Ne morresti pazza. E allora ti dò adesso un briciolo, domani un altro, di modo da farti gustare tutto il mio cibo e di ottenere dal tuo soffrire il massimo di amore di compassione per il tuo dolente Sposo e di redenzione per i tuoi fratelli.
Ecco perché ti dò tante ore di Getsemani. Uniscile e, come il mosaicista unendo le tessere piano piano vede formarsi il quadro completo, tu, riunendo nel tuo pensiero il ricordo delle diverse ore, vedrai l’Agonia vera del tuo Signore.
Rifletti come ti amo. La prima volta ti ho dato soltanto la vista della mia smania fisica. E tu, soltanto per vedermi col Volto stravolto, andare e venire, alzare le braccia, torcermi le mani, piangere e abbattermi, ne hai avuta tanta pena che per poco non mi moristi.
Ti ho presentato quella tortura visibile più e più volte sinché l’hai conosciuta e l’hai potuta sopportare. Poi, volta per volta, ti ho svelato le mie tristezze. Le mie tristezze. Di uomo. Tutte le passioni dell’uomo si sono drizzate come serpi irritate, fischiando i loro diritti d’essere, ed Io le ho dovute strozzare una per una per esser libero di salire il mio Calvario.
Non tutte le passioni sono malvagie. Te l’ho già spiegato. Io dò a questo nome il senso filosofico, non quello che voi gli date scambiando il senso col sentimento. E le passioni buone il tuo Gesù-Uomo le aveva come tutti gli uomini giusti. Ma anche le passioni buone possono divenire nemiche in certe ore, quando con la loro voce fanno catena, e catena di durissimo, fortissimo, annodatissimo acciaio, per impedirci di compiere la volontà di Dio.
Amare la vita, dono di Dio, è dovere, tanto che chi si uccide è colpevole come e più di chi uccide, poiché colui che uccide manca alla carità di prossimo ma può avere l’attenuante di una provocazione che lo dissenna, mentre chi si uccide manca contro sé stesso e contro Dio, che gli ha dato la vita perché egli la viva sino al suo richiamo. Uccidersi è strapparsi di dosso il dono di Dio e gettarlo con urlo di maledizione sul Volto di Dio. Chi si uccide dispera di avere un Padre, un Amico, un Buono. Chi si uccide nega ogni dogma di fede e ogni asserzione di fede. Chi si uccide nega Dio. Dunque occorre aver cara la vita.
Ma come: cara? Facendosi schiavi di essa? No. Amica buona la vita. Amica dell’altra. Della Vita vera. Questa è la grande Vita. Quella è la piccola vita. Ma come un’ancella serve e procura cibo alla sua signora, così la piccola vita serve e nutre la grande Vita, la quale raggiunge l’età perfetta attraverso le cure che la piccola vita le dà.
È proprio questa piccola vita che vi procura la veste ornata da indossare quando divenite le Signore del Regno di Vita. È proprio questa piccola vita che vi fortifica col pane amaro, intriso di forte aceto, delle cose di ogni giorno, e vi fa adulti e perfetti per possedere la Vita che non termina.
Ecco perché occorre chiamare “cara” questa triste esistenza d’esilio e di dolore. È la banca in cui maturano i frutti delle ricchezze eterne. È passabilmente buona? Lodarne il Signore. È cosparsa di pene? Dir “grazie” al Signore. È triste oltre misura? Non dir mai: “È troppo”. Non dir mai: “Dio è cattivo”.
L’ho detto mille volte: “Il male – e le tristezze che sono se non frutto del male? – il male non viene da Dio. È l’uomo il malvagio che fa soffrire”.
L’ho detto mille volte: “Dio sa finché potete soffrire e, se vede che è troppo ciò che il prossimo vi procura, interviene non soltanto aumentando la vostra forza di sopportazione, ma con conforti celesti; e quando è l’ora con spezzare i malvagi, perché non è lecito torturare oltre misura il prossimo migliore”.
La vita è cara per le oneste soddisfazioni che procura. Dio non le biasima. Il lavoro Egli l’ha messo. [Gen 3, 17-19] Per punizione, ma anche per svago all’uomo colpevole. Guai se aveste dovuto vivere nell’ozio. Da secoli la Terra sarebbe un enorme manicomio di furenti che si sbranerebbero l’un coll’altro. Lo fate già, perché ancor troppo oziate. L’onesta fatica rasserena e dà gioia e riposo sereno.
La vita è ancor più cara per gli affetti santi di cui si infiora. Dio non li biasima. Potrebbe Dio, che è Amore, biasimare un amore onesto? O gioia d’esser figli! e gioia d’esser padri! O gioia di trovare una compagna che genera figli al proprio nome e figli a Dio! O gioia di avere una dolce sorella, un buon fratello, e amici sinceri! No, che queste oneste dolcezze Dio non le biasima.
L’amore lo ha messo Lui, e non sulla Terra, come il lavoro, per punizione e svago del colpevole. Ma nel Terrestre Paradiso per base alla grande gioia di esser figli di Dio. “Non è bene che l’uomo sia solo” [Gen 2, 18] ha detto. Re del creato, l’uomo sarebbe stato in un deserto senza una compagna.
Buoni gli animali tutti col loro re, ma troppo, sempre troppo inferiori al figlio di Dio. Buono, infinitamente buono Dio col suo figlio, ma sempre troppo superiore ad esso. L’uomo avrebbe patito la solitudine di essere ugualmente distante dal divino e dall’animale. E Dio gli diede la compagna. Non solo. Ma dal casto amore con la stessa gli avrebbe concesso i dolci figli, perché l’uomo e la donna potessero dire la parola più dolce dopo il Nome di Dio: “Figlio mio!”; e i figli potessero dire la parola più santa dopo il Nome di Dio: “Mamma!”.
Mamma! Chi dice “mamma” prega già.
Dire “mamma” vuol dire ringraziare Dio della sua Provvidenza, che dà una madre ai figli dell’uomo e fino ai piccoli figli delle fiere e dei domestici animali e dei volanti uccelli e fin dei muti pesci, perché l’uomo non conoscesse l’orrore di crescere solo e non cadesse per mancanza di sostegno quando ancora è troppo debole per conoscere il Bene e il Male.
Dire “mamma” vuol dire benedire Iddio che ci fa conoscere cosa sia l’amore attraverso il bacio di una madre e le parole delle sue labbra.
Dire “mamma” vuol dire conoscere Iddio che ci dà un riflesso del suo principale attributo, la Bontà, attraverso l’indulgenza di una madre. E conoscere Iddio vuol dire sperare, credere e amare. Vuol dire salvarsi.
Avere un fratello non è come avere, per una pianta, la pianta gemella che sostiene nelle ore di burrasca, intrecciando i rami, e che nelle ore di gioia aumenta la fioritura di essa col polline del suo amore? Per questo ho voluto che i cristiani si chiamassero l’un l’altro “fratelli”, perché è giusto, dato che venite tutti da un Dio e da un sangue d’uomo, e perché è santo, perché è confortevole per coloro che non hanno fratelli di carne poter dire al vicino: “Fratello, io ti amo. Amami”.
Avere un amico sincero non è come avere un compagno nel cammino? Andare soli è troppo triste. Quando Dio elegge alla solitudine di vittima un’anima, allora gli si fa compagno perché soli non si può stare senza flettere. La vita è una strada scoscesa, sassosa, spesso interrotta da crepacci e correnti vorticose. Aspidi e spine lacerano e mordono sull’irto sentiero.
Esser soli sarebbe perire. Dio ha creato l’amicizia per questo. In due cresce la forza e il coraggio. Anche un eroe ha attimi di debolezza. Se è solo dove si appoggia? Ai rovi? Dove si afferra? Agli aspidi? Dove si adagia? Nel torrente vorticoso o nell’orrido oscuro? Ovunque troverebbe nuova ferita e nuovo pericolo. Ma ecco l’amico. Il suo petto è appoggio, il suo braccio sostegno, il suo affetto riposo. E l’eroe riprende forza. Il camminatore cammina di nuovo sicuro.
Per valorizzare l’amicizia Io ho voluto chiamare “amici” [Gv 15, 15] i miei apostoli, e tanto ho apprezzato questo affetto che nell’ora del dolore ho voluto i tre più cari con Me nel Getsemani. [Mt 26, 36-46] Li ho pregati di vegliare e pregare con Me, per Me… e di vederli incapaci di farlo ne ho tanto sofferto da uscirne indebolito, e perciò più suscettibile alle seduzioni sataniche. Una parola, avessi potuto scambiare una parola con degli amici desti e comprensivi del mio stato, non sarei giunto a svenarmi, prima della Tortura, nella lotta per respingere Satana.
Ma vita e affezioni non devono divenire nemiche. Mai. Se tali divengono, occorre spezzarle.
Le ho spezzate. Una per una.
Avevo già spezzato l’umano fermento di sdegno verso il Traditore. E un nervo del mio Cuore s’era lacerato nello sforzo.
Ora ecco che sorgeva la paura di perdere la vita. La vita! Avevo trentatré anni. Ero uomo in quell’ora. Ero l’Uo­mo. Avevo perciò l’amore vergine della vita come lo aveva Adamo nel Paradiso Terrestre. Una gioia d’esser vivo, d’esser sano, d’esser forte, bello, intelligente, amato, rispettato. Una gioia di vedere, di intendere, di poter esprimere. Una gioia di respirare l’aria pura e profumata, di udire l’arpa del vento fra gli ulivi e del rio fra i sassi, e il flauto di un usignolo innamorato; di vedere splendere le stelle in cielo, tanti occhi di fuoco che guardavano Me con amore; di vedere farsi d’argento la terra per la luna così bianca e lucente che riverginizza ogni sera il mondo, e pare impossibile che sotto la sua onda di candida pace possa agire il Delitto.
E tutto questo lo dovevo perdere. Non più vedere, non più udire, non più muovermi, non più esser sano, non più esser rispettato. Divenire l’aborto marcioso che si scansa col piede torcendo il capo con disgusto, l’aborto espulso dalla società che mi condannava per esser libera di darsi ai suoi sozzi amori.
Gli amici!… Uno mi aveva tradito. E mentre Io attendevo la morte, egli si affrettava a portarmela. Credeva di darsi gioia con la mia morte… Gli altri dormivano. [Mt 26, 40.43] Eppure li amavo. Avrei potuto destarli, fuggire con loro, altrove, lontano, e salvare vita e amicizia. E invece dovevo tacere e restare. Restare voleva dire perdere amici e vita. Esser un reietto, voleva dire.
La Mamma! O amore della Mamma! Invocato amore curvo sul mio dolore! Respinto amore per non farti morire del mio dolore! Amore della mia Mamma!
Sì, lo so. Ogni mio singhiozzo ti giungeva, o Santa. Ogni mio chiamarti valicava lo spazio e penetrava come spirito nella chiusa stanza dove tu, come sempre, passavi la tua notte orando, e in quella notte orando non con estasi ma con tortura d’anima. Lo so. E mi interdivo di chiamarti per non farti giungere il lamento del tuo Figlio, o Madre martire che iniziavi la tua Passione, solitaria come Io solitario, nella notte del Giovedì pasquale!
Il figlio che muore fra le braccia di sua madre non muore: si addormenta cullato da una ninna nanna di baci, che continuano gli angeli sino al momento che la visione di Dio smemora il figlio del desiderio di sua madre. Ma Io dovevo morire fra le braccia dei carnefici e di un patibolo, e chiudere vista e udito su schiamazzi di maledizione e gesti di minaccia.
Come ti ho amata, Madre, in quell’ora del Getsemani!
Tutto l’amore che ti avevo dato e che mi avevi dato in trentatré anni di vita erano davanti a Me e peroravano la loro causa e mi imploravano di aver pietà di essi, ricordando ogni bacio tuo, ogni tua cura, le stille di latte che mi avevi dato, il cavo tiepido delle tue mani per i miei piedini freddi d’infante povero, le canzoni della tua bocca, la leggerezza delle tue dita sui miei riccioli fitti, e il tuo sorriso e il tuo sguardo e le tue parole e i tuoi silenzi e il tuo passo di colomba che posa i piedi rosei al suolo ma tiene le ali già socchiuse al volo, e non piega stelo tanto il suo andare è leggero, poiché tu eri sulla Terra per mia gioia, o Madre, ma tu avevi l’ali sempre trepide di Cielo, o santa, santa, santa e innamorata!
Tutte le lacrime che già ti ero costato, e tutte quelle che ora cadevano dal tuo ciglio e quelle che sarebbero cadute nei tre giorni avvenire, ecco che le udivo cadere come pioggia di lamento. O lacrime di mia Mamma!
Ma chi può vedere piangere, udire piangere sua mamma e non avere poi, finché vita gli dura, lo strazio presente di quel pianto? Io ho dovuto sperdere, strozzare l’amore umano per te, Mamma, e calpestare il tuo e il mio amore per camminare sulla via della Volontà di Dio.
Ed ero solo. Solo! Solo! Terra e Cielo non avevano più abitanti per Me.
Ero l’Uomo carico dei peccati del mondo. Odiato perciò da Dio. Dovevo pagare per redimermi ed essere di nuovo amato.
Ero l’Uomo carico della Bontà del Cielo. Odiato perciò dagli uomini a cui la Bontà è ripugnante. Dovevo essere ucciso per punizione d’esser buono.
E anche voi, oneste gioie del lavoro compiuto per dare il pane quotidiano a Me stesso prima, per dare il pane spirituale poi agli uomini, mi siete venute avanti a dirmi: “Perché ci lasci?”.
Nostalgia della quieta casa fatta santa da tante orazioni di giusti, fatta Tempio per aver accolto gli sponsali di Dio, fatta Cielo per aver ospitato fra le sue mura la Trinità chiusa nell’anima del Cristo di Dio!
Nostalgia delle folle umili e schiette alle quali davo luce e grazie, e dalle quali mi veniva amore! Voci di bambini che mi chiamavano con un sorriso, voci di madri che mi chiamavano con un singhiozzo, voci di malati che mi chiamavano con un gemito, voci di peccatori che mi chiamavano con un tremito! Tutte le udivo e mi dicevano:
“Perché ci abbandoni? Non ci vuoi più accarezzare? Chi ci darà carezze, sui ricci biondi o bruni, simili alle tue?”.
“Non vuoi più renderci le creature estinte, guarirci le morenti? Chi avrà pietà delle madri come Tu, Figlio santo?”.
“Non vuoi più sanarci? Chi ci guarirà se Tu scompari?”.
“Non vuoi più redimerci? Non ci sei che Tu che sei Redenzione. Ogni tua parola è forza che schianta una corda di peccato nel nostro buio cuore. Noi siamo più malati dei lebbrosi, perché per loro la malattia cessa con la morte, per noi si accresce. E Tu te ne vai? Chi ci capirà? Chi sarà giusto e pietoso? Chi ci rialzerà? Resta, Signore!”.
“Resta! Resta! Rimani!”, urlava la folla buona.
“Figlio!”, urlava mia Madre.
“Salvati!”, urlava la vita.
Ho dovuto spezzare queste gole che urlavano, strozzarle per non farle più urlare, per aver forza di spezzarmi il cuore, strappando uno per uno i suoi nervi per compiere la Volontà di Dio.
Ed ero solo. Cioè: ero con Satana.
La prima parte dell’orazione era stata penosa, ma ancora potevo sentire lo sguardo di Dio e sperare nell’amore degli amici.
La seconda fu più penosa perché Dio si ritirava e gli amici dormivano. Riconfermavano il sibilo di Satana e la voce della vita: “Ti sacrifichi per nulla. Gli uomini non ti ameranno per il tuo sacrificio. Gli uomini non comprendono”.
La terza… la terza fu la demenza, fu la disperazione, fu l’agonia, fu la morte. La morte dell’anima mia. Non è risorto soltanto il corpo mio. Anche la mia anima ha dovuto risorgere. Poiché conobbe la Morte.
Non vi paia eresia. Cosa è la morte dello spirito? La separazione eterna da Dio. Ebbene: Io ero separato da Dio. Il mio spirito era morto. È la vera ora di eternità che Io concedo ai miei prediletti. Quella che tu, piccola sposa, ti sei chiesta che fosse da quando ti hanno detto che tu hai sorte simile a Veronica Giuliani, che al termine della esistenza conobbe questo strazio superiore a tutti gli strazi sovrumani.
Noi conosciamo la morte dello spirito, senza averla meritata, per comprendere l’orrore della dannazione che è tormento dei peccatori impenitenti. La conosciamo per ottenere di salvarli. Lo so. Il cuore si spezza. Lo so. La ragione vacilla. So tutto, anima diletta. L’ho provato prima di te. È l’orrore infernale. Siamo in balìa del Demonio poiché siamo separati da Dio.
Credi tu che Marta, che vinse il dragone, abbia tremato più di noi? No. La sofferenza è più grande in noi. La belva vinta da Marta era una spaventosa belva, ma sempre una belva della Terra. Noi vinciamo la Belva-Lucifero. Oh! non c’è confronto! E la Belva-Lucifero viene sempre più vicino quanto più tutto, in Cielo e in Terra, da noi si allontana.
Ero già stato tentato nel deserto. [Mt 4, 1-11] Una fola di tentazione, poiché allora avevo soltanto la debolezza del cibo materiale. Ora ero affamato di cibo spirituale e affamato di cibo morale, e non c’era pane per il mio spirito e pane per il mio cuore. Non più Dio per lo spirito mio. Non più affetti per il cuore mio.
Ecco, allora, esile come lama di vento, penetrante come pungiglione d’ape, irritante come veleno di colubro, la voce di Lucifero. Un flauto che suona in sordina, così piano, così piano che non desta la nostra vigile attenzione. Penetra con la seduzione della sua magica armonia, ci fa sonnecchiare, sembra un conforto, ha aspetto di conforto soprannaturale.
Oh! Ingannatore eterno, come sei sottile! L’io non chiede che di essere aiutato. E pare che quel suono aiuti. Parole di compassione e di comprensione, dolci come carezze su una fronte febbrile, calmanti come unguento su una bruciatura, stordenti come vino generoso versato a chi è digiuno. L’anima stanca si addormenta.
Se non fosse più che vigile col suo subcosciente, il quale è vigile soltanto in coloro che nutrono sé stessi di costante unione all’Amore, finirebbe col cadere in un letargo che la darebbe in balìa totale di Satana, in un ipnotico sonno durante il quale Lucifero le farebbe compiere qualsiasi azione. Ma l’anima che ha nutrito sé stessa costantemente di Amore non perde l’integrità del suo subcosciente, neppure nelle ore che uomini e Dio pare si uniscano per fare di lei una demente. E il subcosciente sveglia l’anima. Le grida: “Agisci. Sorgi. Satana ti è alle spalle”.
La lotta tremenda ha inizio. Il veleno è già in noi. Occorre perciò lottare coi suoi effetti e contro le ondate accelerate, sempre più veementi e accelerate, del nuovo veleno della parola satanica che si versa su noi.
Il frastuono cresce. Non è più suono di flauto in sordina, non è più carezza e unguento. È clangore di strumenti pieni, è percossa, è ferita di gladio, è fiamma che soffoca e arde. E nella fiamma ecco la vita che passa davanti allo sguardo spirituale. Già c’era passata col suo rassegnato aspetto di cosa sacrificata. Ora torna con veste di prepotente regina e dice: “Adorami! Io son che regno! Questi sono i miei doni. I doni che ti ho dato e più belli ti darò se tu mi sarai fedele”.
E nel suono degli strumenti tornano le voci delle cose e delle persone. Non pregano più. Comandano, imprecano, insultano, maledicono, perché le abbandoniamo. Tutto torna per tormentarci. Tutto. E l’anima sbalordita lotta sempre più debolmente.
Quando vacilla come guerriero svenato e cerca un appoggio in Cielo o in Terra per non procombere, ecco che Lucifero le dà la sua spalla. Non c’è che lui… Si chiama al soccorso… Non risponde che lui… Si cerca uno sguardo di pietà… Non si trova che il suo…
Guai a illudersi sulla sua sincerità! Col resto di energia che sopravvive bisogna scostarsi da quell’appoggio, rientrare nella solitudine, chiudere gli occhi e contemplare l’orrore del nostro destino piuttosto che il suo subdolo aspetto, alzare le mani che tremano e stringerle sulle orecchie per fare ostacolo alla voce che inganna.
Cade ogni arma nel fare così. Non si è più che una povera cosa morente e sola. Non si riesce neppur più a pregare con la parola, perché l’acre del fiato di Satana ci strozza le fauci. Solo il subcosciente prega. Prega. Prega. Come batter convulso di farfalla trafitta esso agita le sue ali nell’agonia, ed ogni colpo d’ala dice: “Credo, spero, amo. Credo ugualmente, spero ugualmente, ti amo ugualmente”.
Non dice: “Dio”. Non osa più pronunciare il suo Nome. Si sente troppo insozzato dalla vicinanza di Satana. Ma quel Nome lo tracciano le lacrime di sangue del cuore sulle ali angeliche dello spirito, che voi chiamate subcosciente mentre in realtà è il super cosciente, e ad ogni colpo d’ala quel Nome sfavilla come rubino percosso dal sole, e Dio lo vede, e le lacrime di pietà di Dio circondano di perle il rubino del vostro sangue che goccia in pianto eroico…
Oh! anime che salite a Dio con quel Nome scritto così in rubini e perle!… Fiori del mio Paradiso!
Satana mi diceva, poiché la voce entrava nonostante ogni mio riparo:
“Tu vedi. Ancora non sei morto e già sei abbandonato. Tu vedi. Hai beneficato e sei odiato. Tu vedi. Lo stesso Dio non ti soccorre. Se non ti ama Dio, di cui sei Figlio, puoi mai sperare ti siano grati gli uomini del tuo sacrificio?
Sai cosa occorre per loro? La Vendetta, non l’Amore come Tu credi. Véndicati, o Cristo, di tutti questi stolti, di tutti questi crudeli. Véndicati. Colpiscili con un miracolo che li fulmini. Appari quale sei: Dio. Il Dio terribile del Sinai. Il Dio terribile che mi ha fulminato e che ha cacciato Adamo dal Paradiso.
Fino ad ora hai detto parole di bontà. I tuoi rari rimproveri erano sempre troppo dolci per queste belve dalla pelle spessa più del cuoio dell’ippopotamo. Il tuo sguardo medicava le tue parole. Non sai che amare. Odia. E regnerai. L’odio tiene curve le schiene sotto la sua sferza e passa trionfante su queste schiene servili. Le schiaccia. E sono felici d’esserlo. Non sono che dei sadici, e la tortura è l’unica carezza che apprezzano e che ricordano.
È tardi? No, che non è tardi. Già gli armati vengono a questa volta? Non importa. Lo so che Tu ti appresti ad esser mite. Sei in errore. Una volta ti avevo insegnato a trionfare nella vita. Non hai voluto ascoltarmi e Tu vedi che sei un vinto. Ora ascoltami. Ora che ti insegno a trionfare dalla Morte.
Sii Re e Dio. Non hai armi? Non milizie? Non ricchezze? Te l’ho detto già una volta che un resto di amore, quel poco che può essermi rimasto dal tesoro d’amore che era la mia vita angelica, è in me per Te che sei buono. Ti amo, mio Signore, e ti voglio servire.
Sei il Redentore degli uomini. Perché non vuoi esserlo del tuo angelo decaduto? Ero il tuo prediletto perché ero il più luminoso e Tu sei la Luce. Ora sono la Tenebra. Ma le lacrime del mio tormento hanno empito l’Inferno di liquido fuoco tanto sono numerose. Lascia che io mi redima. Un poco soltanto. Che da demone divenga uomo. L’uomo è sempre tanto inferiore agli angeli. Ma quanto è superiore a me, demonio!
Fa’ che io divenga uomo. Dammi una vita d’uomo tribolata, torturata, angosciosa quanto ti pare. Sarà sempre un paradiso rispetto al mio tormento demonico. E potrò viverla in modo da meritare di espiare per dei millenni e giungere infine di nuovo alla Luce: a Te.
Lascia che io ti serva in cambio di questo che ti chiedo. Nessun’arma vince le mie. Nessun esercito è più numeroso del mio. Le ricchezze di cui dispongo non hanno misura, perché ti farò re del mondo se Tu accetti il mio aiuto, e tutti i ricchi saranno gli schiavi tuoi. Guarda: i tuoi angeli, gli angeli del Padre tuo sono assenti. Ma i miei sono pronti a vestirsi di angelici aspetti per farti corona e stupire la plebe ignorante e malvagia.
Non sai dire parole di imperio? Io te le suggerirò. Sono qui per questo. Tuona e minaccia. Ascoltami. Di’ parole di menzogna. Ma trionfa. Di’ parole di maledizione. Di’ che te le suggerisce il Padre.
Vuoi che simuli la voce dell’Eterno? Lo farò. Tutto posso fare. Sono il Re del mondo e dell’Inferno. Tu non sei che il Re del Cielo. Io sono più grande perciò di Te. Ma metto tutto ai tuoi piedi se Tu lo vuoi.
La Volontà del Padre tuo? Ma come puoi pensare che Egli voglia la morte del suo Figlio? Pensi che possa illudersi sull’utilità della stessa? Tu fai torto all’Intelligenza di Dio.
Già hai redento coloro che sono suscettibili di redenzione con la tua santa Parola. Non occorre di più. Credi che chi non muta per la Parola non muta per il tuo Sacrificio. Credi che il Padre ti ha voluto provare. Ma gli basta la tua ubbidienza. Non vuole di più.
Quanto lo servirai di più vivendo! Puoi percorrere il mondo. Evangelizzare. Guarire. Elevare. O sorte felice! La Terra abitata da Dio! Ecco la vera redenzione. Rifare della Terra il Paradiso terrestre dove l’uomo torna a vivere in santa amicizia con Dio e ne ode la voce e ne vede l’aspetto. Più ancora felice della sorte dei due Primi. Poiché vedrebbero Te: vero Dio, vero Uomo.
La Morte! La tua Morte! Lo strazio di tua Madre! Lo scherno del mondo! Perché? Vuoi essere fedele a Dio? Perché? Ti è fedele Lui? No. Dove sono i suoi angeli? Dove è il suo sorriso? Cosa hai per anima, adesso? Un cencio lacero, afflosciato, abbandonato.
Deciditi. Dimmi: ‘Sì’.
Senti? Escono dal Tempio i sicari. Deciditi. Lìberati. Sii degno della tua Natura.
Tu sei un sacrilego, perché permetti che mani sozze di sangue e libidine tocchino Te: Santo dei santi. Sei il primo sacrilego del mondo. Dai la Parola di Dio in mano ai porci, in bocca ai porci.
Deciditi. Sai che morte ti attende. Io ti offro la vita, la gioia.
La Madre ti riporto. Povera Madre! Non ha che Te! Guardala come agonizza… e Tu ti appresti a farla agonizzare più ancora.
Che figlio sei? Che rispetto porti alla Legge? Non rispetti Dio-Te. Non rispetti la Genitrice.
Tua Madre… Tua Madre… Tua Madre…”.
Ho risposto… Maria, ho risposto radunando le forze, bevendo pianto e sangue che colavano dagli occhi e dai pori, ho risposto:
“Non ho più madre. Non ho più vita. Non ho più divinità. Non ho più missione. Nulla ho più. Fuorché fare la Volontà del Signore mio Dio. Va’ indietro, Satana! L’ho detto la prima e la seconda volta. Lo ridico per la terza: ‘Padre, se è possibile passi da Me questo calice. Ma però non la mia: la tua Volontà sia fatta’. Va’ indietro, Satana. Io son di Dio!”.
Maria, ho risposto così… E il Cuore si è franto nello sforzo. Il sudore è divenuto non più stille, ma rivoli di sangue. Non importa. Ho vinto.
Io ho vinto la Morte. Io. Non Satana. La Morte si vince accettando la morte.
Ti avevo promesso un grande regalo. Come a pochi l’ho concesso. Te l’ho dato.
Hai conosciuto l’estrema tentazione del tuo Gesù. Te l’avevo già svelata. Ma eri ancora immatura per conoscerla in pieno. Ora lo puoi fare.
Vedi che ho ragione di dire che non sarebbe compresa e ammessa da quei piccoli cristiani che sono larve di cristiani e non cristiani formati?
Va’ in pace, ché Io sono con te».

♦ Estratto dai QUADERNETTI del 1944 /6 Luglio ♦ Copyright © Fondazione Erede di Maria Valtorta • ETS


      

Gesù ci insegna a morire.

Dice Gesù:
«Ho dettato un’Ora Santa[279] per coloro che lo desideravano. Ho svelato la mia Ora di Agonia del Getsemani per darti un gran premio, perché non vi è atto di fiducia più grande fra amici che quello di svelare all’amico il proprio dolore. Non è il riso e il bacio prova suprema d’amore, ma il pianto e il dolore reso noto all’amico. Tu, amica mia, lo hai conosciuto. Per quando eri nel Getsemani. Ora sei sulla Croce. E senti pene di morte. Appoggiati al tuo Signore mentre ti dà un’Ora di preparazione alla morte.
I.
“Padre mio[280], se è possibile passi da me questo calice”.
Non è una delle sette Parole della Croce. Ma è già parola di passione. È il primo atto della Passione che inizia. È la necessaria preparazione per le altre fasi dell’olocausto. È invocazione al Dator della vita, rassegnazione, umiltà, è orazione in cui si intrecciano, nobilitandosi la carne e perfezionandosi l’anima, la volontà dello spirito e la fralezza della creatura che ripugna alla morte.
“Padre!…”. Oh! è l’ora in cui il mondo si allontana dai sensi e dal pensiero mentre si avvicina, come meteora che scende, il pensiero dell’altra vita, dell’ignoto, del giudizio. E l’uomo, sempre un pargo­lo anche se centenario, come un bambino spaurito, rimasto solo, cerca il seno di Dio.
Marito, moglie, fratelli, figli, genitori, amici… Erano tutto finché la vita era lontana dalla morte, finché la morte era un pensiero nascosto sotto nebbie lontane. Ma adesso che la morte esce da sotto al velo e avanza, ecco che per un capovolgimento di situazione, sono i genitori, i figli, gli amici, i fratelli, il marito, la moglie che perdono i loro tratti decisi, il loro valore affettivo, e si offuscano davanti all’imminente avanzarsi della morte. Come voci che si affievoliscono per la distanza, ogni cosa della Terra perde vigore mentre ne acquista ciò che è al di là, ciò che fino a ieri pareva così lontano… E un moto di paura colpisce la creatura.
Se non fosse penosa e paurosa, la morte non sarebbe l’estremo castigo e l’estremo mezzo per espiare concesso all’uomo. Sinché non vi fu la Colpa, la morte non fu morte ma dormizione. E dove non fu colpa non fu morte come per Maria Ss. Io morii perché su Me era tutto il Peccato, e ho conosciuto il ribrezzo del morire.
“Padre!”. Oh! questo Dio tante volte non amato, o amato ultimo, dopo che il cuore ha amato parenti e amici, od ha avuto più indegni amori per creature di vizio, o ha amato le cose come dèi, questo Dio tanto sovente dimenticato, e che ha permesso di dimenticarlo, che ha lasciato liberi di dimenticarlo, che ha lasciato fare, che è stato irriso talora, tal’altra maledetto, tal’altra negato, ecco che risorge nel pensiero dell’uomo e riprende i suoi diritti. Tuona: “Io sono!” e per non far morire di spavento con la rivelazione della sua potenza, medica quel potente “Io sono” con una parola soave: “Padre”. “Io sono Padre tuo”. Non è più terrore. È abbandono il sentimento che dà questa parola. Io, Io che dovevo morire, che comprendevo cosa è il morire, dopo avere insegnato agli uomini a vivere chiamando “Padre” l’Altissimo Jeovè, ecco che vi ho insegnato a morire senza terrore, chiamando “Padre” il Dio che fra gli spasimi dell’agonia risorge o si fa più presente allo spirito del moribondo.
“Padre!”. Non temete! Non temetelo, voi che morite, questo Dio che è Padre! Non viene avanti, giustiziere armato di registri e di scure, non viene avanti cinico strappandovi alla vita e agli affetti. Ma viene aprendovi le braccia, dicendo: “Torna alla tua dimora. Vieni al riposo. Io ti compenserò, ad usura di ciò che qui lasci. E, Io te lo giuro, in seno a Me sarai più attivo per coloro che lasci che rimanendo quaggiù in lotta affannosa e non sempre rimunerata”.
Ma la morte è sempre dolore. Dolore per la sofferenza fisica, dolore per la sofferenza morale, dolore per la sofferenza spirituale. Deve essere dolore per essere mezzo di ultima espiazione nel tempo, lo ripeto. E in un ondeggiare di nebbie, che offuscano e scoprono in alterna vicenda ciò che nella vita si è amato, ciò che ci rende paurosi dell’al di là, l’anima, la mente, il cuore, come nave presa da gran tempesta, passano – da zone calme già nella pace dell’imminente porto ormai vicino, visibile, così sereno che già dà una quiete beata e un senso di riposo simile a quello di chi, terminata quasi una fatica, pregusta la gioia del prossimo riposo – passano a zone in cui la tempesta li scrolla, li colpisce, li fa soffrire, spaurire, gemere. È di nuovo il mondo, l’affannoso mondo con tutti i suoi tentacoli: la famiglia, gli affari; è l’angoscia dell’agonia, è lo spavento dell’ultimo passo… E poi? E poi?… La tenebra investe, soffoca la luce, sibila i suoi terrori… Dove è più il Cielo? Perché morire? Perché dover morire? E l’urlo gorgoglia già in gola: “Non voglio morire!”.
No, fratelli miei che morite perché giusto è il morire, santo è il morire essendo voluto da Dio. No. Non gridate così! Quell’urlo non viene dalla vostra anima. È l’Avversario che suggestiona la vostra debolezza per farvelo dire. Mutate l’urlo ribelle e vile in un grido d’amore e di fiducia: “Padre, se è possibile passi da me questo calice”. Come l’arcobaleno dopo il temporale, ecco che quel grido riporta la luce, la quiete. Rivedete il Cielo, le sante ragioni del morire, il premio del morire, ossia il ritornare al Padre, e allora comprendete che anche lo spirito, anzi, che lo spirito ha dei diritti più grandi della carne perché esso è eterno e di natura soprannaturale, e ha perciò la precedenza sulla carne, e allora dite la parola che è assoluzione a tutti i vostri peccati di ribellione : “Però non la mia, ma la tua volontà sia fatta”.
Ecco la pace, ecco la vittoria. L’angelo di Dio si stringe a voi e vi conforta[281] perché avete vinto la battaglia, preparatoria a far della morte un trionfo.
II.
“Padre, perdona loro[282]”.
È il momento di spogliarsi di tutto quanto è peso per volare più sicuri a Dio. Non potete portare con voi né affetti né ricchezze che non siano spirituali e buone. E non c’è uomo che muoia senza avere da perdonare qualcosa ad uno od a molti suoi simili e in molte cose, per molti motivi. Quale l’uomo che giunga a morire senza aver patito l’acre di un tradimento, di un disamore, di una menzogna, un’usura, un danno qualsiasi, da parenti, consorti, o amici? Ebbene: è l’ora di perdonare per essere perdonati. Perdonare completamente, lasciando andare non solo il rancore, non solo il ricordo, ma anche la persuasione che il nostro motivo di sdegno era giusto. È l’ora della morte. Il tempo, il mondo, gli affari, gli affetti hanno fine, divengono “nulla”. Un solo vero esiste ormai: Dio. A che dunque portare oltre le soglie ciò che è del di qua delle soglie?
Perdonare. E poiché giungere alla perfezione d’amore e di perdo­no, che è il neppur più dire: “Eppure io avevo ragione”, è molto, troppo difficile per l’uomo, ecco passare al Padre l’incarico di per­donare per noi. Dargli il nostro perdono, a Lui che non è uomo, che è perfetto, che è buono, che è Padre, perché Egli lo depuri nel suo Fuoco e lo dia, divenuto perfetto, a chi merita il perdono.
Perdonare, ai vivi e ai morti. Sì. Anche ai morti che sono stati cagione di dolore. La loro morte ha levato molte punte al corruccio degli offesi, talora le ha levate tutte. Ma il ricordo dura ancora. Hanno fatto soffrire, e si ricorda che hanno fatto soffrire. Questo ricordo mette sempre un limite al nostro perdono. No. Ora non più. Ora la morte sta per levare ogni limite allo spirito. Si entra nell’infinito. Levare perciò anche questo ricordo che limita il perdono. Perdonare, perdonare perché l’anima non abbia peso e tormento di ricordi e possa essere in pace con tutti i fratelli viventi o penanti, prima di incontrarsi col Pacifico.
“Padre, perdona loro”. Santa umiltà, dolce amore del perdono dato, che sottintende perdono chiesto a Dio per i debiti verso Dio e verso il prossimo che ha colui che chiede perdono per i fratelli. Atto d’amore. Morire in un atto d’amore è avere l’indulgenza dell’amore. Beati quelli che sanno perdonare in espiazione di tutte le loro durezze di cuore e delle colpe dell’ira.
III.
“Ecco tuo figlio”[283].
Ecco tuo figlio! Cedere ciò che è caro, con previdente e santo pensiero. Cedere gli affetti, e cedersi a Dio senza resistenza. Non invidiare chi possiede ciò che lasciamo. Nella frase potete affidare a Dio tutto quanto vi sta a cuore e che abbandonate, e tutto quanto vi angustia, anche il vostro stesso spirito.
Ricordare al Padre che è Padre. Mettergli nelle mani lo spirito che torna alla Sorgente. Dire: “Ecco. Sono qui. Prendimi con Te perché mi dono. Non cedo per forza di cose. Mi dono perché ti amo come figlio che torna a suo Padre”. E dire: “Ecco. Questi sono i miei cari. Te li dono. Questi sono i miei affari, quegli affari che qualche volta mi hanno fatto essere ingiusto, invidioso del prossimo, e che mi hanno fatto dimenticare Te perché mi parevano – lo erano, ma io lo credevo più che non fossero – mi parevano di una importanza capitale per il benessere dei miei, per il mio onore, per la stima che mi attiravano. Ho creduto anche che solo io fossi capace di tutelarli. Mi sono creduto necessario per compirli. Ora vedo… Non ero che un congegno infinitesimale nel perfetto organismo della tua Provvidenza, e molte volte un congegno imperfetto che guastava il lavoro dell’organismo perfetto. Ora che le luci e le voci del mondo cessano e tutto si allontana, vedo… sento… Come le mie opere erano insufficienti, logore, incomplete! Come erano dissonanti dal Bene! Ho presunto di essere io un grande ‘che’. Tu eri – previdente, provvidente, santo – che correggevi i miei lavori e li rendevi utili ancora. Ho presunto. Talora ho anche detto che non mi amavi perché non mi riusciva, come agli altri che invidiavo, ciò che io volevo. Ora vedo. Miserere di me!”.
Umile abbandono, riconoscente pensiero alla Provvidenza in riparazione delle vostre presunzioni, avidità, invidie e sostituzioni di Dio con povere cose umane, con le golosità delle ricchezze diverse.
IV.
“Ricòrdati di me”[284].
Avete accettato il calice di morte, avete perdonato, avete ceduto ciò che era vostro, persino voi stessi. Avete molto mortificato l’io dell’uomo, molto liberato l’anima da ciò che spiace a Dio: dallo spirito di ribellione, dallo spirito di rancore, dallo spirito di avidità. Avete ceduto la vita, la giustizia, la proprietà, la povera vita, la più povera giustizia, le tre volte povere proprietà umane, al Signore. Novelli Giobbe, siete languenti e spogli davanti a Dio. Potete allora dire: “Ricòrdati di me”.
Non siete più niente. Non salute, non fierezza, non ricchezza. Non possedete più neppure voi stessi. Siete bruco che può divenire farfalla o marcire nella carcere del corpo per un’ultima estrema ferita allo spirito. Siete fango che torna fango o fango che si muta in stella a seconda che preferite scendere nella cloaca dell’Avversario o ascendere nel vortice di Dio. L’ultima ora decide della vita eterna. Ricordatevelo. E gridate: “Ricòrdati di me!”.
Dio attende quel grido del povero Giobbe per colmarlo di beni nel suo Regno. È dolce ad un Padre perdonare, intervenire, consolare. Non attende che questo grido per dirvi: “Sono con te, figlio. Non temere”. Ditela questa parola per riparare a tutte le volte che vi dimenticaste del Padre o foste superbi.
V.
“Dio mio,[285] perché mi hai abbandonato?”.
Talora sembra che il Padre abbandoni. Non si è che nascosto per aumentare l’espiazione e dare maggior perdono. Può l’uomo lamentarsi con ira di ciò, egli che infinite volte ha abbandonato Iddio? E deve disperare perché Dio lo prova?
Quante cose avete messo nel vostro cuore che non erano Dio! Quante volte foste inerti con Lui! Con quante cose lo avete respinto e scacciato. Avete empìto il cuore di tutto. Lo avete poi ferrato e ben chiavistellato perché vi temevate che Dio entrando potesse disturbare il vostro quietismo accidioso, purificare il suo tempio cacciandone gli usurpatori. Finché foste felici, che vi importava di avere Dio? Dicevate: “Ho già tutto perché me lo sono meritato”. E quando felici non foste, non lo fuggiste mai Dio, facendolo causa di ogni vostro male?
Oh! figli ingiusti che bevete il veleno, che entrate nei labirinti, che precipitate nei burroni e nei covi di serpi e altre fiere, e poi dite: “È Dio il colpevole”, se Dio non fosse Padre e Padre santo, che dovrebbe rispondere al vostro lamento delle ore dolorose quando nelle felici lo dimenticaste? Oh! figli ingiusti che pieni di colpe pretendereste di essere trattati come il Figlio di Dio non fu trattato nell’ora dell’olocausto, dite: chi fu il più abbandonato? Non è il Cristo, l’Innocente, Colui che per salvare accettò l’abbandono assoluto di Dio dopo averlo amato attivamente sempre? E non avete voi nome di “cristiani”? E non avete il dovere di salvare almeno voi stessi?
Nell’accidia torbida che di sé si compiace e teme disturbo dell’accogliere l’Attivo, non c’è salvezza. Imitate allora Cristo, gettando questo grido nel momento di angoscia più forte. Ma fate che la nota del grido sia nota di mansuetudine e di umiltà, non tono di bestemmia e rimprovero. “Perché mi hai Tu abbandonato, Tu che sai che senza di Te nulla io posso? Vieni, o Padre, vieni a salvarmi, a darmi forza di salvare me stesso perché orrende sono le strette di morte e l’Avversario me ne aumenta ad arte la potenza, mi fischia che Tu non mi ami più. Fàtti sentire, o Padre, non per i miei meriti ma proprio perché sono un nulla senza meriti che non sa vincere se è solo e che comprende, ora, che la vita era lavoro per il Cielo”.
Guai ai soli, è detto[286]. Guai a chi è solo nell’ora della morte, solo con se stesso contro Satana e la carne! Ma non temete. Se chiamerete il Padre, Egli verrà. E questo umile invocarlo espierà i vostri colpevoli torpori verso Dio, le false pietà, gli amori sregolati dell’io, che fanno accidiosi.
VI.
“Ho sete”[287].
Sì, veramente, quando si è capito il vero valore della vita eterna rispetto al metallo falso della vita terrena, quando la purificazione del dolore e della morte è accettata come santa ubbidienza, quando si è cresciuti in sapienza e in grazia presso Dio in poche ore, in pochi minuti talora, più che non si sia cresciuti in molti anni di vita, viene una sete profonda di acque celesti, di celesti cose. Le lussurie di tutte le seti umane sono vinte. Ma viene la soprannaturale sete di possedere Iddio. La sete dell’amore. L’anima aspira di bere l’amore e di esserne bevuta. Come un’acqua che è piovuta al suolo e non vuole divenire fango ma tornare nuvola, l’anima ora ha sete di salire al luogo dal quale discese. Quasi rotte le muraglie carnali, la prigioniera sente le aure del Luogo d’origine e vi anela con tutta se stessa.
Quale quel pellegrino esausto che vedendo, dopo anni, ormai prossimo il luogo natìo, non raduna le forze e prosegue, svelto, tenace, incurante di tutto che non sia arrivare là da dove partì un giorno e tutto il vero suo bene vi lasciò, ed è certo ora di trovarlo e di gustarlo più ancora, perché fatto esperto del povero bene, che non sazia, trovato nel luogo di esilio?
“Ho sete”. Sete di Te, mio Dio. Sete di averti. Sete di possederti. Sete di darti. Perché sulle soglie fra la Terra e il Cielo già si sa capire l’amore di prossimo come va capito, e viene un desiderio di agire per dare Dio al prossimo che lasciamo. La santa operosità dei santi che, granelli morti che divengono spiga, si effondono in amore per dare amore e per fare amare Dio da chi ancora è nelle lotte della Terra. “Ho sete”. Non c’è più che un’acqua che sazi, giunta l’anima alle soglie della Vita: l’Acqua viva, Dio stesso.
L’Amore vero: Dio stesso. Amore contrapposto ad egoismo. L’egoismo è morto prima della carne nei giusti, e regna l’amore. E l’amore grida: “Ho sete di Te e di anime. Salvare. Amare. Morire per essere libero di amare e di salvare. Morire per nascere. Lasciare per possedere. Rifiutare ogni dolcezza, ogni conforto perché tutto è vanità quaggiù, e l’anima vuole solo tuffarsi nel fiume, nell’oceano della Divinità, bere di Essa, essere in Essa, senza più sete, perché la Fonte d’Acqua della Vita l’avrà accolta”.
Avere questa sete per riparare al disamore e alla lussuria.
VII.
“Tutto è compiuto”[288].
Tutte le rinunce, tutte le sofferenze, tutte le prove, le lotte, le vittorie, le offerte: tutto. Ormai non c’è più che da presentarsi a Dio. Il tempo concesso alla creatura per divenire un dio, a Satana per tentarla, è compiuto. Cessa il dolore, cessa la prova, cessa la lotta. Restano soltanto il giudizio, l’amorosa purificazione, o viene, beatissima, la dimora immediata del Cielo. Ma quanto è Terra, quanto è volontà umana, ha fine.
Tutto è compiuto! La parola della completa rassegnazione o del gioioso riconoscimento di aver finito la prova e consumato l’olocausto. Non contemplo coloro che muoiono in peccato mortale, i quali non dicono, essi, “tutto è compiuto”, ma con un urlo di vittoria e un pianto di dolore lo dicono, per loro, l’angelo delle tenebre, vittorioso, e l’angelo custode, vinto. Io parlo ai peccatori pentiti, ai buoni cristiani o agli eroi della virtù. Questi, sempre più vivi nello spirito man mano che la morte prende la carne, mormorano, o gridano, rassegnati o gioiosi: “Tutto è consumato. Il sacrificio ha termine. Prendilo per mia espiazione! Prendilo per mia offerta d’amore!”. Così dicono gli spiriti, con la penultima parola, a seconda che subiscano la morte per legge comune o, anime vittime, la offrano per volontario sacrificio. Ma tanto le une che le altre, giunte ormai alla liberazione dalla materia, reclinano lo spirito sul seno di Dio dicendo[289]: “Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio”.
Maria, sai cosa è spirare con questa elevazione fatta viva nel cuore? È spirare nel bacio di Dio. Vi sono molte preparazioni alla morte. Ma credi che questa, sulle mie parole, è nella sua semplicità la più santa.»
Gesù ha dato questo dettato alle 12, quando, finita già la visione avuta[290] alle prime ore del mattino, credevo aver finito di scrivere e mi ero messa a cucire, faticosamente, ma necessariamente, per preparare biancherie necessarie alla casa. Ho gettato via ditale e ago e ho riafferrato la penna. E, gravissima come sono, ho ricevuto come un vero dono preziosissimo questa preparazione alla morte.

[Seguono, con date dal 21 luglio al 18 agosto 1946, i capitoli da 23 a 27 del LIBRO DI AZARIA. Con date dal 15 luglio al 19 agosto 1946 sono i capitoli da 457 a 476 – esclusi i capitoli 468 e 473, scritti nel 1944 – dell’opera L’EVANGELO]
[279] Ora Santa, riportata in data 14 giugno 1944. Ora di Agonia, scritta il 6 luglio 1944 ma non sui quaderni e rimasta a lungo inedita: rinvenuta infine tra i manoscritti, è pubblicata nel volumetto delle “Preghiere”. Sopra il presente titolo Gesù ci insegna a morire la scrittrice ha inserito in piccolo e con inchiostro diverso: Sarei gratissima al R.P. Migliorini se mi mandasse una copia di questa Ora di preparazione alla morte. Se no ne resto priva.
[280]Padre mio…”, in Matteo 26, 39.42.44; Marco 14, 36.39; Luca 22, 41-42.
[281] vi conforta, come in Luca 22, 43.
[282] “Padre, perdona loro”, in Luca 23, 34.
[283] “Ecco tuo figlio”, in Giovanni 19, 26.
[284]Ricòrdati di me”, in Luca 23, 42. Il successivo e generico riferimento a Giobbe può avere un riscontro in Giobbe 1, 20-22.
[285]Dio mio…”, in Matteo 27, 46; Marco 15, 34.
[286] è detto in Qoèlet 4, 10.
[287]Ho sete”, in Giovanni 19, 28.
[288] “Tutto è compiuto”, in Giovanni 19, 30.
[289] dicendo, come Gesù in Luca 23, 46.
[290] la visione avuta… Non ci risulta che abbia scritto una “visione” avuta in quello stesso giorno. Dobbiamo però precisare che il presente scritto sulla preparazione alla morte è senza data nel quaderno autografo, e che la data da noi messa, del 14 luglio 1946, è quella dello scritto che immediatamente lo precede sullo stesso quaderno.

♦ Estratto dai QUADERNI del 1946 /14 Luglio ♦ Copyright © Fondazione Erede di Maria Valtorta • ETS

Eventuali violazioni ai DIRITTI d'AUTORE, se DEBITAMENTE SEGNALATE a ezio1944@gmail.com - VERRANNO IMMEDIATAMENTE RIMOSSE
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