Nel nuovo "Credo" la chiesa del dialogo

Mancano otto anni (sembra tanto, ma è il tempo dedicato all'attesa del grande giubileo) al centenario del concilio di Nicea del 325. Il primo detto "ecumenico". Quello che con la sua "esposizione della fede" ("il Credo" diciamo noi) ha segnato la storia

cristiana facendo della sinodalità una esperienza che certo non appartiene alla "essenza" della Chiesa, ma è lo strumento con cui essa cerca di restare fedele al Vangelo nel tempo.

Quel concilio doveva garantire a Costantino l'unità dottrinale dell'impero e sedare un conflitto teologico lacerante sul modo di pensare Dio e dunque sul modo di pensare la natura del potere. La teologia di Ario, infatti, affermava una ineguaglianza fra il Padre e il Figlio: non era una quisquilia per teologi, ma la tesi che avrebbe permesso ad ogni potere di sacralizzare il proprio sistema discendente di dominazione come specchio dell'ordine divino. Il concilio, invece, fece la scelta più difficile: e disse che al cuore del mistero di Dio vi è la relazione e fece della dottrina trinitaria il cuore della fede cristiana.

La «esposizione della fede dei 316 padri» approvata a Nicea fu ampliata nel successivo concilio di Costantinopoli ed è diventata parte della vita liturgica di tutte le chiese cristiane fino ad oggi.

Essa ha assorbito una questione che ha pesato come un macigno nei rapporti fra Oriente e Occidente. Il simbolo niceno- costantinopolitano, infatti, non ammetteva ritocchi. La sua immobilità segnalava un paradosso: per dire ciò che è essenzialissimo alla fede di e in Gesù servono parole e organi (il credo e il concilio) a lui ignote.

Ciò nonostante l'Occidente introdusse nella versione latina del Credo, le parole "e dal Figlio" — il Filioque — là dove i padri costantinopolitani aveva detto che lo Spirito si avventura (l'ekporesis è il cammino di chi lascia una città) procedendo "dal Padre". Una addizione d'origine iberica che l'Occidente difese spiegando che significava "attraverso il Figlio", lasciando dunque intatta la fede nicena. E che invece molti Orientali considerarono o considerano intollerabile: fino a giudicare i patriarchi che hanno abbracciato il papa come troppo indulgenti verso "l'eretico di Roma".

Fatto sta che il Filioque è stato oggetto di conflitto, ora attutito ora riacutizzato: ma è anche un'occasione per chiedersi come l'Occidente tradurrebbe oggi nelle lingue vive il testo greco del simbolo. Non certo per illudersi di aggirare l'ostacolo della divisione con una furbizia filologica, ma per chiedersi quale sia il nesso che esiste fra il male del mondo, condannato dalle chiese con giusta energia, e la loro divisione, troppo spesso derubricata a questione tecnico-teologica. Così diciotto secoli dopo, il

Credo domanda alle chiese se hanno memoria o meno dell'unità di fede — premessa che decide della celebrazione comune dell'eucarestia — che quel testo enunciava.

L'Occidente infatti s'è legato a una traduzione latina, che ha il Filioque e che soprattutto organizza in strofe a cui il canto aggiunge un po' di trionfalismo tonale. Ma non ha mai perso il testo greco, con una metrica interna tutta diversa e del quale la Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto, da ultimo con un atto del 1995 della Santa Sede, la intangibilità.

L'Occidente dunque ha conservato il diritto di recitare il

Credo in greco (lo hanno fatto anche i papi) e anche quello di tradurlo: specie ora, in una liturgia fatta di lingue vive, che nascono da traduzioni sulle quali il papa ha ridato da pochi giorni alle conferenze episcopali e ai vescovi i poteri che loro competono.

Da questa constatazione deriva l'ipotesi o l'esperimento di una traduzione — che come insegna Tullio Gregory è il ponte da cultura a cultura — del Credo: una traduzione nuova, "dal basso", e come si vedrà, desiderosa di conservare in una sola parola ciò che il greco dice in una parola, anche a costo di alterare la memorizzazione oggi più diffusa. È stata confezionata in occasione della visita che il Patriarca Ecumenico Bartholomeos farà oggi a Bologna, e alla fondazione dove Giuseppe Alberigo e Giuseppe Dossetti hanno seminato l'amore per lo studio e per i concili: non è una proposta, è un dono.

Ruminata per molto tempo fra alcuni dotti, discussa con una filologa del calibro di Silvia Ronchey, nota a pochissime ma autorevoli figure delle chiese d'Oriente e d'Occidente, questa traduzione lascia il Credo latino alla sua storia: e cerca di far rivivere le rime nascoste della fede comune e il battere di quell'"uno" che sembra un ritornello: il Dio uno, il Figlio uno, la chiesa una, il battesimo uno.

A otto anni dal centenario di Nicea si contenta di dire che scoprire l'unità della fede vissuta dalle chiese e la sinodalità che ha permesso loro di conservare la fedeltà al vangelo sono ancora lì, come un eredità, come un traguardo, come un seme di pace di cui il mondo battuto dalla violenza attende i germogli.

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Alberto Melloni