Una singolare sentenza della Congregazione per la Dottrina della Fede conclude il “caso Guam”, oggetto da anni di polemiche e tensioni fuori e dentro l’isola del Pacifico, condannando definitivamente monsignor Anthony Sablan Apuron. L’arcivescovo è «colpevole di delitti contro il Sesto Comandamento con minori» (non commettere atti impuri, ndr). Al presule, appartenente all’Ordine dei frati minori cappuccini, sono state imposte le pene di privazione dell’ufficio; divieto perpetuo di dimorare anche temporaneamente nell’arcidiocesi di Agaña; divieto perpetuo di usare le insegne proprie dell’ufficio di vescovo

In sostanza Apuron - che già si era autosospeso dal suo incarico nel 2016 chiedendo alla Santa Sede di nominare un amministratore apostolico per potersi difendere dalle accuse sul suo conto - è rimosso dall’ufficio di vescovo e viene allontanato da Guam, dove già non risiedeva da anni a causa del clima di feroci polemiche, e non potrà poi più utilizzare simboli episcopali quali mitrie, pastorali, anelli, croci pettorali. Tuttavia «sacramentalmente e giuridicamente rimane vescovo», come ha spiegato il portavoce vaticano ad interim Alessandro Gisotti.

Già in passato si erano verificati casi simili. Più inusuale il fatto che, in presenza di una condanna di seconda istanza dell’ex Sant’Uffizio, non si sia proceduto alla dimissione dallo stato clericale, il cosiddetto “spretamento”, massima pena per un chierico macchiatosi di abusi. Ma anche questo non è una novità, secondo Gisotti: «Non ogni caso di abuso comporta la dimissione dallo stato clericale», ha detto, ricordando come valga il principio della «proporzionalità» della pena al reato commesso.

Sono due le accuse - apprende Vatican Insider - che hanno determinato la condanna canonica di monsignor Apuron e riguardano abusi avvenuti più di quarant’anni fa nella parrocchia di “Our Lady of Mount Carmel” a danno di un chierichetto e di un altro ragazzo, entrambi adolescenti. Inizialmente erano sei quelle mosse contro il presule (non solo riguardanti casi di abusi) e rigettate dal Tribunale apostolico presieduto dal cardinale Raymond Leo Burke per insufficienza di prove. 

Il processo penale giudiziale a carico del vescovo si era concluso in prima istanza il 16 marzo 2018. La sentenza di allora dichiarava Apuron colpevole di alcune delle accuse e gli imponeva le pene di cessazione dall’ufficio e il divieto di residenza nell’Arcidiocesi di Guam.

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Il verdetto era soggetto ad eventuale appello, rendeva noto allora la Santa Sede. E infatti il ricorso è stato presentato dai legali di Apuron appena ricevuta la comunicazione (qualche giorno prima della pubblicazione) e presentava nuove prove che, a detta degli avvocati, dimostravano alcune contraddizioni delle accuse e scagionavano l’arcivescovo. Nella documentazione erano presenti, inoltre, le deposizioni di testimoni che affermavano che alcuni dei denuncianti avessero percepito ingenti somme di denaro per accusare Apuron e che tutta l’accusa fosse frutto di un «complotto».

Tuttavia in data 7 febbraio 2019 il tribunale di seconda istanza ha confermato la sentenza di marzo scorso, dichiarando l’imputato colpevole di delitti contro il Sesto Comandamento con minori. «La decisione rappresenta la conclusione definitiva del caso. Non è possibile ulteriore appello», si legge nel comunicato della Sala Stampa vaticana. 

Da parte sua il 73enne Apuron, le cui condizioni di salute sono peggiorate negli ultimi anni, continuandosi a dichiarare innocente, si dice addolorato per la sentenza equiparandola ad una «condanna a morte». «Sono profondamente rattristato dalla decisione del Santo Padre che ha confermato la decisione del tribunale di primo grado», dice in una dichiarazione a noi pervenuta. «Ho presentato un ricorso contro tale decisione l’anno scorso perché sono innocente e la sentenza del Tribunale di primo grado mi ha rivendicato dichiarando non credibili la maggior parte delle accuse mosse contro di me: credo che i fatti e le prove presentate abbiano dimostrato la mia totale innocenza». 

«Il segreto pontificio mi impedisce di difendere il mio buon nome in pubblico, ma desidero cogliere l’occasione per offrire il mio più profondo ringraziamento alle molte persone che si sono fatte avanti privatamente e pubblicamente a mia difesa, nonostante le minacce e il clima presenti nella mia amata casa di Guam», scrive il presule in riferimento a fatti di cui Vatican Insider si era occupato in una lunga inchiesta del 20 settembre 2017.

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«Questo clima - evidente sui giornali locali, - che ha ostacolato il lavoro del Tribunale di primo grado, testimonia la presenza di un gruppo di pressione che ha progettato di distruggere me, e che si è fatto chiaramente conoscere anche alle autorità di Roma. Diverse persone mi hanno detto - con grande dolore e paura e chiedendomi di non rivelare i loro nomi – di essere state invitate ad avanzare accuse contro di me, persino dietro offerta di denaro», sottolinea il presule. E aggiunge: «L’abuso sessuale su minori è un crimine aberrante che grida vendetta al cospetto di Dio. Il bisogno disperato di giustizia e compassione per i sopravvissuti è fondamentale. È altresì urgente il bisogno di combattere questo male sempre e ovunque attraverso una ricerca trasparente e coraggiosa della verità». 

«Mi sottometto totalmente al giudizio del Santo Padre perché lo ringrazio per avermi permesso di continuare a servire come sacerdote e arcivescovo senza insegne», aggiunge. «Questa sentenza mi esilia dalla mia amata Guam: considero questa una pena analoga ad una condanna a morte. Perdo la mia patria, la mia famiglia, la mia chiesa, la mia gente, persino la mia lingua, e resto solo in completa umiliazione, vecchio e in precarie condizioni di salute». 

La Chiesa di Guam sarà guidata ora dal vescovo coadiutore Michael Jude Byrnes, ex ausiliare di Detroit inviato tre anni fa ad Agaña dopo il richiamo a Roma di monsignor Savio Hon Tai-Fai, in quegli anni segretario di Propaganda Fide e attuale nunzio in Grecia, nominato precedentemente amministratore apostolico “sede plena” nell’isola. Come prassi vuole, Byrnes diviene automaticamente titolare della diocesi e dunque pastore a pieno titolo. Si troverà ora ad affrontare una situazione complessa nell’isola del Pacifico causata anzitutto dalle divisioni interne del clero e dei fedeli e poi dalle numerose richieste di risarcimenti per abusi del clero: circa 180 quelle presentate, alcune relative a fatti avvenuti circa cinquant’anni fa o riguardanti sacerdoti scomparsi. Tanto che la Chiesa guamegna aveva presentato istanza di bancarotta nel novembre 2018, in modo da interrompere le azioni legali e dare una scadenza per la presentazione dei reclami.

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