SPIRITUALITÀ
Speciale Don Dolindo Ruotolo / Un “nulla” nelle mani di Dio
dal Numero 44 del 15 novembre 2020
di Aurora De Victoria

Ai napoletani che andavano a trovarlo, Padre Pio diceva: «Perché venite da me? A Napoli avete Don Dolindo!». Ma chi è questo Sacerdote napoletano tenuto in così grande considerazione da Padre Pio? Egli si autodefiniva “il nulla di Dio”, ma come Padre Pio era un gigante della fede e della carità.

«Si è detto che io mi credevo quasi Gesù stesso, e come tale mi facevo riguardare. È una stoltezza. Io mi sono creduto e sono tanto nulla, che Gesù non poteva non riempirmi di Se?, non poteva non operare Lui, per non deludere la mia speranza in Lui. Ed Egli ha operato soavemente e fortemente, nelle più piccole cose nelle quali ho riposto in Lui la mia fiducia. È per Lui che io sono stato eloquente, attivo, forte, incrollabile, senza rispetto umano, annientato in me stesso, esuberante di attività; per Lui solo. Nessuno è più vuoto di me, nessuno è più ripieno di me quando mi riempie Gesù con la sua misericordia. Ed io confido in Lui; ancora oggi, che sono distrutto, confido». È lui stesso a parlare così di sé: Don Dolindo Ruotolo. Il suo nome si diffonde sempre più a vasto raggio, da Napoli riecheggia in tutta Italia e varca i confini della nostra Penisola fino a raggiungere la Polonia, la Slovacchia, l’Inghilterra, persino l’America.
Chi è questo sacerdote napoletano, quel «tanto nulla», del quale non c’è uno «più vuoto» che tuttavia conquista tanti cuori?

La sua vocazione: il dolore

Dolindo nacque il 6 ottobre 1882, di venerdì. «Era il giorno della festa di santa Maria Francesca delle cinque piaghe e il centenario di san Francesco d’Assisi e mi furono imposti i nomi di Dolindo, Francesco, Giuseppe [...]. Il mio nome, Dolindo, significa “dolore”». Fu il padre a coniare questo nome, sembra fosse sua consuetudine, e per Dolindo lo fece non senza un’ispirazione che ebbe qualcosa di profetico, dal momento che il piccolo iniziò la sua “carriera dolorosa” alla tenera età di 11 mesi soltanto. Si trattava per lo più di malesseri fisici, operazioni dolorose subite. Finché non si aggiunsero sofferenze anche morali, causate dai maltrattamenti del padre, prima, e da tante altre circostanze, poi.

Quella della sofferenza sembrava essere per lui una vera e propria vocazione. Alla quale – bisogna ammetterlo con ammirazione – Dolindo ha corrisposto sempre con grande generosità.

Benché nella sua autobiografia egli parli con rammarico e profondo dolore della mancanza di formazione spirituale nella sua infanzia, non si può negare nella sua vita una speciale e precoce presenza di Dio. Nella sua vita e nel suo cuore. Aveva solo 3 o 4 anni quando, stando in piedi o poggiato sulle ginocchia della mamma, le diceva: «Io sarò sacerdote...».

Non era un bambino qualsiasi, le sue passioni valicavano l’ordinario. «Rimanevo attratto dalla Passione di Gesù e cercavo di cantare fin d’allora a Gesù appassionato». Ma c’è di più. Quando non aveva che 11 mesi, gli uscirono su entrambe le mani due macchie rosse, nel centro, sul dorso. Lo sottoposero per questo ad un’operazione dolorosa: gli perforarono completamente la mano destra e se ne estrasse un osso cariato; gli incisero invece la sinistra in tre punti. Dopo questa operazione ne subì un’altra alla guancia destra. Dolori inimmaginabili. Ma – cosa interessante e curiosa – così ne scrisse Don Dolindo: «Ho ringraziato sempre il Signore di avere ricevuto fin dai primi mesi della mia vita, quasi per caso, i segni della sua Passione sulle mani, e il segno della guanciata sanguinosa che Egli ricevette dal servo del Sommo Sacerdote. Benché derivanti da malanno, ho avute sempre care queste cicatrici, che ancora mi restano e mi rimarranno fino alla morte».

Anche il padre gli causò molte pene con il suo carattere «nervoso», come lo definisce Don Dolindo. Più che nervoso, questi era un uomo manesco e talvolta sembra anche senza giudizio. Esigeva troppo dal figlio e per dei nonnulla lo castigava in maniera violenta. Non voleva, ad esempio, che studiasse sul tavolino, per timore che lo sporcasse; voleva studiasse a terra, in posizione oltremodo scomoda, e il piccolo Dolindo gelava d’inverno poggiato sul freddo gradino di marmo, ma non vi erano sconti per lui. Per correggere i figli, spesso il papà li percuoteva col finocchietto sui palmi delle mani. Anche in seguito all’operazione subita di fresco, Dolindo era costretto a porgere le sue manine piagate, con l’obbligo per lui di non piangere ai colpi ricevuti.

«Così iniziò la mia vita di dolore – scrisse in seguito senza rancori –, che poi doveva crescere sempre, e diventare tanto partecipe alla Passione adorata di Gesù Cristo».

Il termometro dell’amore

La situazione nella famiglia Ruotolo era divenuta invivibile. Continue grida e discussioni tra i genitori costrinsero la mamma di Dolindo a procedere alla dolorosa separazione dal marito. Dolindo aveva 14 anni. Così di nascosto, un po’ alla volta, provvide al trasloco e si allontanò da quell’uomo che, nonostante quei “nervosismi” insopportabili, in realtà conservava un fondo buono e il buon Dolindo non lo negò mai. Portò con sé tutti i figli, ma le nuove condizioni di povertà e miseria che la famiglia abbracciò, spinsero la mamma ad iscrivere Dolindo e il fratello Elio nella Scuola Apostolica dei Preti della Missione, ai “Vergini”. Pensava si trattasse di un qualunque collegio che li avrebbe formati, se ritenuti idonei, al sacerdozio secolare, invece si trattava di formazione religiosa che preparava a divenire membri di quell’Istituto. E così fu. Dolindo vi entrò nel 1896, iniziò il Noviziato nel 1898, emise i primi voti il 1° giugno 1901 e divenne sacerdote di Cristo il 24 giugno 1905.

Negli studi era un disastro. Egli stesso si definisce in quel periodo uno «scimunito» e probabilmente ne furono causa anche le numerose percosse ricevute nella fanciullezza. Ma uno “scimunito” difficilmente avrebbe potuto affrontare gli studi necessari a perseguire il Sacerdozio, Dolindo lo sapeva bene. Ricorse allora a Chi avrebbe potuto provvedervi e accadde un fatto prodigioso. Era il 15 giugno 1896, aveva già vestito l’abito clericale: «Recitavo con i condiscepoli il Santo Rosario, ed avevo davanti  a me questa immagine, appoggiata ad un libro. Dissi alla Madonna: O mia dolce Mamma, se mi vuoi sacerdote dammi l’intelligenza, perché lo vedi che sono un cretino». (Viva la semplicità!). «D’un tratto, genuflesso com’ero, mi assopii, l’immagine si mosse, per il vento o per grazia speciale, non so dirlo, mi toccò la fronte, e mi risvegliai dall’assopimento con la mia povera mente pronta e lucida. Discorrevo di tutto, verseggiavo, ero un altro, ma solo, allora come ora, per ciò che glorificava Dio. Per il resto ero e sono un autentico cretino. Ricorro a Te Mamma mia, e Tu mi illumini... Quanto sei bella!».

Un’intelligenza davvero straordinaria quella che ricevette – ma solo per le cose che glorificano Dio, appunto, e qui sta la conferma dell’origine soprannaturale della grazia ricevuta –; le numerose e portentose opere da lui scritte, che costituiscono i gioielli spirituali dell’Apostolato Stampa il cui operato è oggi portato avanti da Casa Mariana Editrice, ne sono un’eloquentissima conferma.

In questo periodo di formazione religiosa emerse in Dolindo un profondo spirito soprannaturale e una maturità spirituale non comune. Durante il Noviziato chiese una grazia speciale: «Domandai a Gesù il dono del dolore; ogni mattina gli domandavo: amore, dolore, umiltà, fede, mansuetudine, longanimità, pazienza, ecc. E il dolore non tardò a venire, per non lasciarmi mai più, in un crescendo continuo, che è la più bella misericordia che il Signore mi abbia fatto». Riguardare al dolore come a un dono: solo chi vive alla scuola di Gesù appassionato e “folle d’amore” fino alla morte di Croce, può giungere a tanta sapienza davvero divina.

Cresceva in lui una forte attrazione verso Gesù Sacramentato e verso la Madonna e «quelle continue pene [che soffriva, poiché Gesù esaudì il suo desiderio di dolore] erano l’alimento di quella attrazione». In quel tempo gli venne un tale desiderio del Paradiso che desiderava morire per raggiungerlo. Presto si ammalò e credette che Gesù stesse per esaudire anche quell’attesa, «ma era vana l’aspettativa; io ero appena al principio della mia carriera dolorosa e del mio pellegrinaggio terreno».

Egli considerava il dolore e le croci il termometro del suo amore a Gesù e l’assicurazione dell’amore di Gesù verso di lui. Tanto che, quando in seguito ad una piccola mancanza commessa in Noviziato trascorse i restanti 6 mesi di noviziato con minor fervore interiore e senza croci, egli considerò questa assenza di pene un vero castigo da parte di Gesù. Ne spiega egli stesso la ragione: «Io vivo solo per la croce. Fuori della croce la mia vita è improduttiva, perché so fare solo peccati e miserie». Arriverà la croce, caro Dolindo, anzi, la tua sarà una vita tappezzata di croci sempre più grandi, ma sempre più dolci al tuo cuore amante...

Il Sacerdote della speranza

Tante caratteristiche colpiscono di Don Dolindo. A noi personalmente, nel rimirare la sua figura di sacerdote anziano, colpisce una cosa in particolare: la serenità, la calma, la pace che emana da quel volto tanto dolce e vispo. La pace, di solito, è segno della presenza e dell’azione divina. Don Dolindo era un sacerdote pieno di Dio e a questo lo condusse proprio la sua vita crocifissa che, purificandolo in pienezza e profondità, lo ha reso un nulla nelle Sue mani. Un nulla nel Cuore di Dio.

O meglio: non la sua vita crocifissa lo rese tale, ma la sua corrispondenza e accettazione di una vita crocifissa. Il suo approcciarsi alla sofferenza con abbandono, con estrema fiducia in Dio, persino con amore. Egli in tutto era profondamente abbandonato all’azione di Dio e al suo amore, poiché considerava ogni cosa frutto dell’amore di Dio per lui. Questa docilità quasi senza limiti lo ha reso grande apostolo della gloria di Dio, nonostante le rimostranze della sua natura.

«Sono naturalmente pigro e niente più mi spaventa quanto l’attività. Nell’attività grande degli anni passati nel ministero sacerdotale, io operavo sempre con sacrificio: avrei preferito celarmi. Quindi mi costava una agonia interiore il predicare, l’andare negli ospedali, il formare le anime che dirigevo, ecc. Se avessi seguito la mia inclinazione sarei rimasto inattivo, magari assorto in una meditazione continua. [...] Fino all’età di ventisei anni circa, ero così impacciato che non sapevo neppure imbucare una lettera. Ho però desideri molto vasti e ardenti; li ho avuti sempre, ed ho sentito il bisogno di una vita più vasta, più piena di Dio. Mi hanno creduto audace e presuntuoso, perché ho voluto fare sempre più di quello che potevo; ma in realtà io ho avuto molta fiducia in Dio, e crederei fargli ingiuria se sperassi da Lui poco soltanto. È in Lui che spero, ed è per la fede che ho in Lui che io ho desiderato e desidero una rinnovazione di tutta l’umanità in Lui solo. Chi mi vede così come sono io, mi prende per scimunito, come mi è successo tante volte. Ma per la fiducia che ho in Dio, oso tutto, e mi trasfiguro anche nel volto quando mi elevo a Lui e vivo abbandonato in Lui. Per la sua gloria ho desiderato fare molte cose, e, pure essendo così stolto, ho confidato di riuscirvi. Ho perciò una grande speranza, quella di vedere realizzato il Regno di Dio e il trionfo della Chiesa. Se questa opera, ossia quello che si è svolto, è stata tutta illusione, io confido in Dio, e sono sicuro che Egli realizzerà tutto per altra via. Ne sono sicuro, ma non pretendo che Egli debba realizzare il suo regno servendosi dell’opera mia personale. Sono invece convinto che Egli opererà per la Chiesa. Questa mia speranza è stata messa alle più aspre prove. Più volte io ho visto come sfumare tutto quello che credevo opera di Dio, più volte hanno cercato di scoraggiarmi; ma io quando ho visto tutto demolito, ho confidato ancora in Dio, e la mia speranza non è morta mai».

Crediamo vivamente che questa fiducia debba essergli costata sangue. La speranza che «Egli opererà per la Chiesa» dev’essere virtù eroica se si considera che dalla Chiesa egli fu duramente provato, un po’ come accadde a padre Pio. Tutto fu frutto di malintesi, ma anche questa fu una permissione di Dio, senza la quale non sarebbe stato forse possibile sondare la profondità dell’anima di Don Dolindo, la straordinarietà della sua fede, della sua speranza, della sua carità.

La grande croce

Attraverso il suo superiore, padre Volpe, Don Dolindo conobbe una donna di Catania, Serafina Gentile, che era ritenuta una veggente. Il padre Volpe stimava questa persona. Don Dolindo, amantissimo della verità, era di natura più scettico e guardava con scetticismo a tutte le manifestazioni un po’ straordinarie. Questa donna credeva di avere manifestazioni dello Spirito Santo sotto forma di bambino, tanto che iniziarono a circolare voci che ella parlasse persino di “incarnazione” dello Spirito Santo. Le voci aggiunsero che padre Volpe e Don Dolindo credessero a queste “rivelazioni” piuttosto bizzarre e furono convocati dai superiori dell’Ordine per chiarire la faccenda. Padre Volpe volle difendere la buona fede di Serafina Gentile. E Don Dolindo credette suo dovere difendere la buona fede del suo superiore. Voleva far capire che forse non c’era nulla di male che egli credesse a qualche manifestazione dello Spirito Santo a quella donna – non essendosi la Chiesa ancora interessata ai fatti –, ma che sicuramente non intendeva supporre una incarnazione della terza Persona della Trinità... Non furono compresi e ciò servì solo ad acuire negli uditori la convinzione che anche Don Dolindo fosse immischiato nella faccenda.

Si voleva costringere Don Dolindo a firmare una dichiarazione in cui doveva affermare che la donna di Catania fosse una «briffalda», cioè un’ingannatrice, che agiva con malizia. Don Dolindo rifiutò. Non poteva in coscienza affermare una cosa simile, non conoscendo le intenzioni di quella donna.

La sera in cui giunse a Roma, chiamato al Sant’Uffizio, Don Dolindo spasimava dalla pena. Il demonio voleva adescare una preda per lui preziosa. «A un tratto sentii Satana ai piedi del mio letto; non vidi nulla, ma lo sentii, e un gelo di morte mi agghiacciò tutto per lo spavento. Satana mi disse: “Stolto, vedi che cosa ti procura questa supposta Opera di Dio! Rinnega tutto e riconquista la stima degli altri”». L’umiltà e la fiducia di Don Dolindo non gliela diedero vinta.

Fu sospeso dal celebrare la Messa, gli furono proibiti i Sacramenti. Così scrive: «Discesi dal Sant’Uffizio contento di aver fatto il mio dovere, o quello che io allora credevo mio dovere. Capii perché i martiri dovevano esultare nei loro tormenti, e andai in San Pietro a ringraziare Gesù di quello che era successo e della forza che mi aveva data».

Fu espulso dall’Ordine e dovette far ritorno a casa, dove fu accolto malamente, ritenuto pazzo e indemoniato, sottoposto ad un esorcismo. Durante quell’esorcismo Don Dolindo provava una pace e un raccoglimento profondi. Disse al sacerdote: «Monsignore, è tanta la pace che sento nell’anima che due sono i fatti: o io non ho il diavolo in corpo o Voi... non lo sapete cacciare!». Commosso, il sacerdote, mons. Andrulli, rispose: «Coraggio, figlio mio, Dio è con lei: Egli le darà la forza a tanto patire!».

Questi fatti si svolsero in vari momenti, durante gli anni 1907-1908 in cui fu espulso dall’Ordine religioso. Si susseguirono diversi episodi dolorosi, che egli sostenne ripieno di grazia, di amore, di fiducia in Dio, guardando a tutte queste contrarietà con occhi trasfigurati dalla fede.

Come se tutto ciò non bastasse, il 9 giugno 1910 si offrì vittima a Gesù, con il permesso del confessore. Finalmente l’8 agosto 1910, dopo una sospensione durata due anni, sei mesi e undici giorni, poté nuovamente celebrare la Santa Messa. Ma presto, nel 1911, arrivò una nuova condanna che lo rendeva inabile alle confessioni, predicazioni e direzioni spirituali. Fu ancora sospeso dalla celebrazione della Messa. Nel 1912 ricevette la riabilitazione alla predicazione dal cardinal Rampolla. Don Dolindo riprese così il suo apostolato. Nel 1914 diede vita e sviluppo a quella che egli avrebbe sempre chiamato l’Opera di Dio e sorse nel 1915 l’Apostolato Stampa. Nel 1918 ricevette il permesso di celebrare due Messe giornaliere. Nonostante le accuse contro di lui non accennassero a diminuire. Nel 1920 divenne terziario francescano e fu nel gennaio 1921 che, prima di partire per Roma dove sarebbe stato sottoposto ad ulteriori interrogatori dal Sant’Uffizio, emise il voto di abbandono alla volontà di Dio. Di nuovo sospensione dalla Messa.

In questi anni di dolore, Don Dolindo scrisse numerose opere ricche di sapienza divina, che hanno fatto e fanno molto del bene alle anime assetate di verità (1). Questa era l’Opera di Dio. Fu riabilitato alla Messa solo nel 1937, il 17 luglio; ma non smise di soffrire, restando ancora bersaglio di accuse e incontrando molti ostacoli alla realizzazione delle sue opere.

La sua vita trascorse tutta all’insegna della fede e dell’adesione alla Volontà di Dio; egli non vide il mondo che nella luce del soprannaturale. Non esisteva rapporto umano che non fosse nella carità di Cristo. Nel giugno 1965, arrivò al bel traguardo di 60° di Sacerdozio.

Rese la bell’anima a Dio il 19 novembre 1970, dopo tre giorni di broncopolmonite. Spirò serenamente colui che aveva fatto della sua vita un atto di abbandono fiducioso a Dio. I suoi resti mortali riposano nella chiesa dell’Immacolata di Lourdes e di San Giuseppe dei Vecchi, a Napoli.

Il Paradiso nell’anima

Nell’autunno 1958 Don Dolindo si recò da padre Pio a San Giovanni Rotondo, portando nell’intimo angosciosi interrogativi riguardo allo stato della sua anima, oppressa da tante prove. Così Don Dolindo ricorda quell’evento: «Mi abbracciò, e benedicendomi disse: “Tutto il Paradiso è nell’anima tua. C’è stato sempre, c’è, e ci sarà per tutta l’eternità”».

Quale sollievo dovette provare, dopo tante croci e incomprensioni, a tale rassicurazione di un santo come padre Pio!

Alla luce di questo breve profilo biografico (2) – che poco rende della realtà delle prove sofferte dal pio Sacerdote e dei suoi esempi splendidi di vita cristiana, sacerdotale e di sottomissione amorosa a Dio – si comprende forse meglio quell’incredibile pace che aleggia sul suo volto di crocifisso. È la pace di chi ama e riceve tutto dalla mano dell’Amato.

Don Dolindo c’insegna che la santità è per tutti, anche per le creature meno dotate, più impacciate. Il segreto sta nell’amare, nel soffrire con pazienza e rassegnazione, soprattutto nel diffidare delle proprie forze o qualità per affidarsi completamente all’onnipotenza di Dio. Egli ha ancora molto da insegnarci. Anzi, attraverso i suoi scritti è Gesù stesso a parlare alle anime. Ha potuto farlo, perché ha trovato nel suo servo uno strumento docile e atto alla Sua grande opera.

«Non sono un santo, non sono un’anima gentile, virtuosa, piena di buone inclinazioni, di virtù elette; sono invece la sintesi di ogni miseria umana, sono un monumento vivo della misericordia di Dio. Il Signore ha operato molto in me proprio per allargare il cuore degli altri nella fiducia illimitata nella sua misericordia. [...]. Sono un povero strumento nelle sue mani, una voce che grida nel deserto del mondo, non perché io possa gridare, ma perché Egli grida attraverso la mia nullità».  


Note

1) Attualmente Casa Mariana Editrice, come proprietaria dell’attività dell’Apostolato Stampa, cura la pubblicazione e la ristampa di tutte le opere edite e inedite di Don Dolindo Ruotolo, dall’autobiografia agli epistolari, fino ai vari Commentari alla Sacra Scrittura.

2) A chi desidera approfondire si consiglia la lettura della sua splendida autobiografia: Fui chiamato Dolindo che significa dolore. Pagine di autobiografia, Casa Mariana Editrice, Frigento 2017.

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