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Gian Carlo Scotuzzi Mosca detto Scot
15 aprile 2024
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I SUCCESSI DELL'OCCIDENTE NEL FOMENTARE LA GLOBALIZZAZIONE DELLA PULIZIA ETNICA

Le relazioni pericolose tra il razzismo ucraino e quello indiano

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Correlato, da Le Monde datato 14-15 aprile 2024:

 

INTERVISTA A PRATAP BHANU MEHTA

«Con Modi si rischia una forma d’impunità del potere»

Il primo ministro indiano non è un dittatore di passaggio, sostiene il politologo. In caso di rielezione punta a portare a compimento il progetto di un nuovo induismo, di una nazione costruita dagli hindu per gli hindu.

di Carole Dieterich e Sophie Landrin, corrispondenti da New Delhi

traduzione di Rachele Marmetti

Ex vicerettore dell’università privata di Ahoka ed ex presidente del Centre for Policy Research, think tank basato a Delhi, dal 2022 Pratap Bhanu Mehta insegna all’università americana Princeton. Questo esperto della vita politica indiana analizza i risvolti della longevità politica del primo ministro Narendra Modi, che spera di conquistare un terzo mandato consecutivo con le elezioni che cominceranno il 19 aprile e termineranno il 1° giugno.

Il 21 marzo il governo indiano ha fatto arrestare il capo del governo regionale di Delhi, è una nuova tappa nel processo d’imbavagliamento dell’opposizione?

L’arresto di Arvind Kejriwal è di cattivo auspicio.
Gran parte delle misure prese da questo governo negli ultimi anni sono state concepite per consolidare una cultura della paura onnipresente: l’uso discriminatorio delle agenzie governative d’inchiesta per proteggere i propri membri e colpire l’opposizione, la repressione della società civile, il divieto di manifestazioni, la censura e l’uso strumentale del diritto fiscale e amministrativo. Ma l’arresto in pieno periodo elettorale di Kejriwal è senza precedenti. Rischia d’impedire all’opposizione di mobilitarsi e nuoce all’equità della votazione.

Come definire la natura dell’attuale regime politico dell’India? Si può ancora parlare di democrazia?

È una domanda difficile. Siamo in una democrazia elettorale, con un pluralismo politico; questo è importante per il regime, che vuole dare di sé l’immagine di un governo popolare. Il problema è che esso interpreta il risultato elettorale come un mandato per consolidare il proprio progetto ideologico nazionalista hindu, e lo usa come giustificazione della limitazione delle libertà civili e della repressione di gruppi di riflessione, di universitari, nonché di giornalisti, che potrebbero opporsi al suo progetto. La grande maggioranza degli indiani non percepisce questa repressione, perché mirata, ma anche perché i partiti di opposizione non riescono a trovare l’unità necessaria a mobilitare l’opinione pubblica su questo tema.

Perché l’opposizione non è capace di proporre un’alternativa credibile?

A volte bisogna riconoscere che l’opposizione può essere incompetente o completamente sorpassata. Narendra Modi è stato molto bravo nel convincere l’opinione pubblica che il Partito del Congresso [principale partito di opposizione] rappresenta il vecchio regime, una sorta di élite cui stanno a cuore solo i propri interessi, non in sintonia con la popolazione. Per esempio, il Partito del Congresso non è ancora riuscito a trovare due o tre esponenti in grado di pronunciare un discorso in buon hindi e di catturare l’attenzione della folla per un’ora. Un fossato culturale li separa dal popolo. [Il suo leader] Rahul Gandhi ha speso energie, ha percorso il Paese, camminato per mille chilometri per incontrare la popolazione, ma in fin dei conti non riesce a prendere decisioni politiche difficili. È indeciso. A 53 anni non ha ancora un’esperienza governativa. Tutto ciò di cui può avvalersi è la buona volontà. Quanto agli altri partiti, sono tutti impegnati a difendere i propri piccoli feudi. In alcuni casi paura e intimidazione sono reali. Tutti sono vulnerabili alle accuse di corruzione. Non bisogna chiudere gli occhi: non si è mai vista un’opposizione tanto avvilente.

Narendra Modi dà l’impressione che nessun fallimento lo scalfisca: né la gestione catastrofica dell’epidemia di Covid-19, né la deplorevole demonetitizzazione, né la disoccupazione. Come si spiega la sua longevità?

Innanzitutto è riuscito ad accreditare l’India come potenza rispettabile e a proporre una nuova identità nazionale. Parla di grandi ambizioni per l’India. L’opposizione si rivolge invece a segmenti di popolazione, crea coalizioni di caste, di gruppi etnici, e pensa che le logiche elettorali funzionino automaticamente.
Inoltre, Narendra Modi ha certamente commesso errori, ma questo non ha intaccato la percezione che l’opinione pubblica ha della sua competenza. L’economia indiana non è così in buona salute come vorrebbe far credere Modi, ma nemmeno va così male come sostiene l’opposizione. Anche se c’è polemica sui dati statistici, è molto difficile affermare che l’India sta attraversando una grave crisi economica. Il Paese continua a essere molto inegualitario, i ricchi si sono ancor più arricchiti, ma i poveri hanno beneficiato di quattro programmi faro: costruzione di bagni, di alloggi, accesso all’acqua potabile e al gas per cucinare, che hanno contribuito a migliorare la vita delle donne indiane. Modi ha inoltre potenziato le infrastrutture e la logistica digitale.
Modi non può essere ritenuto responsabile nemmeno dell’alto livello di disoccupazione, che da vent’anni è una caratteristica strutturale dell’economia del Paese. L’India non ha sviluppato mestieri qualificati: la transizione da attività agricole a bassa produttività a quelle a produttività elevata è molto lenta. Per riassumere, l’attuale governo forse non ha ottenuto risultati spettacolari, ma non ha fatto peggio dei governi precedenti. Per questa ragione l’opposizione non riesce a suscitare un generale risentimento contro Modi.
Infine, il Bharatiya Janata [Partito del popolo indiano (BJP) di Narendra Modi], possiede una straordinaria capacità di mobilitazione. Con le elezioni intermedie di novembre 2023, nel Madhya Pradesh, uno Stato in cui il BJP era in difficoltà, il partito ha mobilitato un milione di militanti provenienti dall’intero Paese e, grazie anche alla mobilitazione del primo ministro, ha vinto.

Se Modi vince le elezioni c’è il rischio che modifichi la Costituzione per trasformare l’India in una nazione hindu?

La verità è che non ha bisogno di cambiare la Costituzione per consolidare la posizione della maggioranza hindu. Ha dimostrato di poterlo fare nel quadro costituzionale esistente. Dalla costruzione del tempio di Ayodhya [inaugurato il 22 gennaio] alle misure per la protezione delle vacche [sacre per l’induismo], Modi ha realizzato il programma ideologico dell’hindutva [che mira all’istaurazione di una nazione hindu] senza che la Corte suprema vi si sia opposta. Il vero problema è sapere se, in caso di vittoria [del BJP], il consenso, già oggi maggioritario, si allargherà ancora, ossia se s’infiltrerà così profondamente nello Stato e nella società civile da rendere difficile tornare indietro, anche nel caso che nella prossima tornata elettorale, tra cinque anni, il BJP perdesse il potere. Questo comporterà un aumento esponenziale della violenza contro le minoranze? Finora ci sono state delle fasi di linciaggio occasionali, delle rivolte a Delhi, ma non si cono state violenze generalizzate.
Ci sono però segnali inquietanti. Molti pensavano che, dopo la consacrazione del tempio di Ayodhya, gli animi si sarebbero un po’ calmati. Ma da allora gruppi hindu reclamano la restituzione di 4.000 monumenti [che ritengono costruiti dai mussulmani su antichi templi hindu] istigando mobilitazioni locali. L’accentuazione della violenza contro le minoranze è quindi un rischio elevato. L’altro pericolo è una forma di impunità del potere, un crescente autoritarismo che moltiplicherebbe le misure di repressione contro la società civile.

In occasione dell’inaugurazione del tempio di Rama ad Ayodhya, costruito sulle rovine di una moschea, Modi ha dichiarato che l’avvenimento segnava l’inizio di una nuova era. Cosa voleva dire?

Tre cose. Innanzitutto, che l’inaugurazione di questo tempio è nella storia dell’India altrettanto importante del 14 agosto [1947], data dell’indipendenza dell’India dai britannici. Per i nazionalisti hindu, Ayodhya segna la vittoria sul colonialismo mussulmano, colpevole di aver assoggettato l’India per oltre otto secoli e ritenuto peggiore del colonialismo britannico che lo ha sostituito. Secondo Modi, la società hindu si è liberata da un assoggettamento millenario e i mussulmani non fanno parte di questa nuova svolta, fanno parte della storia dell’India solo in quanto oppressori e colonizzatori. La nuova era è quindi l’avvento di una nazione fatta dagli hindu per gli hindu, dove le minoranze non sono più al potere, e che si è liberata da tutte le forze politiche favorevoli a un’identità liberale e laica.
La seconda cosa è che Modi con «nuova era» intende il regno di Lord Rama, Ram Raja. Anche Gandhi [1869-1948] soleva chiamarlo in questo modo. È una specie di aspirazione utopica a un paradiso dove tutti sono virtuosi e dove vince la giustizia… Quel che vuole dire Modi è che, ora che gli hindu hanno conquistato il potere, l’India è in grado di costruire nei due prossimi decenni il Ram Raja: una nuova era di prosperità e di giustizia.
La terza cosa è l’avvento di un nuovo induismo, concepito come identità politica del tutto singolare. Prima dell’inaugurazione del tempio di Rama a Ayodhya, Modi si è recato in tutti i templi di Rama dell’India del sud e ha voluto che tutti i culti e tutte le caste vi fossero rappresentate. È stato un modo per dire: «Ho una concezione dell’induismo molto più ampia rispetto ai piccoli interessi cultuali e particolari.» Siamo in un processo di etnicizzazione dell’induismo. Ciò che fa di un individuo un hindu è l’adesione a questo progetto.

Se si volesse paragonare l’evoluzione dell’India a quella di un altro Paese, la Turchia sarebbe l’esempio più pertinente?

Sono un po’ diffidente verso questi confronti. Modi non è come gli altri populisti. Non è come [l’ex presidente brasiliano] Bolsonaro: è più competente e dispone di una vera e propria organizzazione; dietro di lui c’è un grande movimento sociale, prodotto di una lunga storia del nazionalismo hindu, vecchia di oltre un secolo. Non è paragonabile nemmeno a [il presidente turco Recep Tayyip] Erdogan, perché ha una filosofia economica molto differente. La Turchia ha attraversato incredibili spinte inflazionistiche. Modi è un gestore macroeconomico molto prudente. Inoltre sul piano internazionale non ha commesso alcun errore. Ha perfettamente interpretato le contraddizioni della situazione internazionale e i dirigenti del mondo intero vogliono abbracciarlo.
Cosa vuole Modi? Ambisce a modificare il modello di Stato-nazione immaginato da Gandhi e [dal primo ministro dell’India dal 1947 alla morte, nel 1964, Jaraharlal] Nehru, che avevano auspicato ­– nonostante la divisione dell’India con il Pakistan in base a criteri religiosi [nel 1947] – di liberarsi dall’idea europea di Stato-nazione, concepito come unica identità linguistica ed etnica; volevano evitare le violenze che la realizzazione di un simile concetto avrebbe comportato in un Paese multiconfessionale come l’India. Il nazionalismo hindu di Modi non è un progetto conservatore reazionario convenzionale. Malgrado i continui riferimenti al passato e alla riappropriazione della storia, al tempo stesso è, con questa sua idea che uno Stato-nazione potente si debba fondare su un’identità spiccata, un progetto ultra-modernista, nel senso del XIX secolo. Le concezioni europee del nazionalismo di fine XIX e inizio del XX secolo sono quindi all’origine del suo progetto.
Modi non è una sorta di dittatore di passaggio, al potere per tre o quattro anni.

 

Correlato da Le Monde del 26 dicembre 2020:

 

INDIA

Uttar Pradesh, laboratorio dell’estremismo indù

A capo dello Stato più popoloso del Paese, Yogi Adityanath, monaco fanatico insediato dal primo ministro Narendra Modi, mette in atto l’Hindutva, un’ideologia apertamente islamofoba.

di Sophie Landrin
corrispondente da New Delhi

traduzione di Rachele Marmetti

È vestito in tinta zafferano, il colore degli indù, dalla toga alle infradito. La testa rasata, un segno rosso sulla fronte, Yogi Aditynath alimenta l’immagine di asceta devoto all’induismo. Al lobo un orecchino, segno distintivo dei membri del movimento religioso dei Nath Yogi, dotati, secondo la leggenda, di poteri magici sovrumani, acquisiti con rituali, pratica alchemica e disciplina yoga.
Il suo vero nome è Ajay Singh Bisht: 48 anni, celibe, monaco indù, responsabile del monastero di Gorakhpur – il più importante della comunità indù dei Nath Yogi – e dal 2017 capo del governo dell’Uttar Pradesh, lo Stato più popoloso dell’India, circa 200 milioni di abitanti, nonché uno dei più poveri. Dopo tre anni di esercizio del potere, l’uomo, di corporatura piuttosto esile che si esprime soltanto in hindi, incarna l’immagine dell’induismo estremo.  Si prevede per lui un futuro a livello nazionale, quale possibile successore di Narendra Modi, l’attuale primo ministro. Yogi Adityanath, onnipresente sui media, terrorizza e al tempo stesso affascina.
I difensori dei diritti umani ne sono raccapricciati: sotto la sua guida, l’Uttar Pradesh è diventato il laboratorio dell’Hindutva, l’ideologia suprematista nata nel 1920, che vuole instaurare un’India indù a spese delle altre religioni, in particolare dell’islam. La più recente decisione di Yogi Adityanath, la criminalizzazione dei matrimoni interreligiosi, il love jihad, è solo l’ultima incarnazione di una politica di stigmatizzazione sistematica dei mussulmani. Yogi Adityanath è a capo di una crociata. Non cerca di nasconderlo. A chi gli chiede se è islamofobo, risponde: «Sono contro chiunque sia contro l’induismo».
Il suo percorso è un intreccio estremo di religione e politica, in un Paese in cui la laicità è peraltro inscritta nella Costituzione.
Ajay Singh Bisht ha 21 anni quando, dopo aver studiato matematica, rinuncia a una famiglia propria ed entra nel monastero di Gorakhpur – nella valle del Karnali, uno dei principali affluenti del Gange – grazie allo zio, il Mahant, il sommo sacerdote, la funzione suprema. All’arrivo viene ribattezzato Yogi Adityanath e si dedica ad attività amministrative e politiche. «Sin dagli esordi si rivela un politico», spiega Véronique Bouillier, antropologa specialista dei Nath Yogi, che ha da poco pubblicato uno studio sul capo dell’Uttar Pradesh sulla rivista on-line Samaj.

Deputato a 26 anni

Il suo maestro spirituale, il Mahant Avaidyanath, nel 1998 gli cede il seggio di deputato. A 26 anni Yogi Adityanath entra alla Lok Sabha, la Camera Bassa del parlamento indiano. Ne è il membro più giovane. Sarà riconfermato per quattro mandati consecutivi. Carriera politica e ascesa religiosa vanno di pari passo. A settembre 2014 succede al defunto maestro alla testa del monastero di Gorakhpur. Tutta la combriccola del partito nazionalista, il Bharatiya Janata Party (BJP), si accalca per assistere all’intronizzazione. «Questa cerimonia – racconta Véronique Bouillier – svoltasi davanti a un’immensa folla di yogi, di cittadini di Gorakhpur e di politici importanti, gli ha conferito sia un riconoscimento politico sia una legittimazione di fronte alla comunità».
La sua reputazione è sulfurea ­– il deputato è perseguito dalla giustizia per complicità in tentativo di omicidio e per partecipazione a rivolte – ma la sua popolarità è sufficientemente solida per consentire al primo ministro Narendra Modi, desideroso d’inviare un segnale alla frangia più estremista del proprio elettorato, di sceglierlo nel 2017 come capo l’Uttar Pradesh e conficcare così un’altra spina nella laicità indiana. Modi, anch’egli ardente difensore dell’Hindutva, e Amit Shah, capo del BJP nonché futuro ministro dell’Interno, il 19 marzo assistono personalmente alla cerimonia di giuramento a Lucknow, la capitale dell’Uttar Pradesh.
Spauracchio dell’opposizione, Yogi Adityanath è invece per la destra e l’estrema destra un’esca elettorale. I suoi veementi discorsi carichi d’odio contro i mussulmani, che chiama «gli anti-nazionali», suscitano l’entusiasmo dei fanatici.
«All’interno del BJP c’è sempre stata una divisione dei compiti fra moderati e radicali», sottolinea Gilles Verniers, professore di scienze politiche all’università Ashoka nell’Haryana, vicino a New Delhi. «Modi parla di governance, di difesa dell’India, di valori, mentre lascia la mobilitazione etnica e religiosa, divisiva e aggressiva, a Yogi Adityanath, che da sempre spinge per una linea dura e un’azione offensiva contro i mussulmani», aggiunge il professore.
L’investitura ricevuta da Modi non impedisce al governatore dell’Uttar Pradesh di preservare – fatto raro – l’autonomia nei confronti del partito al potere nonché dell’organizzazione faro dei nazionalisti, il Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), l’associazione dei volontari nazionali.
Yogi Adityanath avrebbe potuto, come fa la maggioranza dei nazionalisti eletti, appoggiarsi a questa grande nebulosa, che irriga l’India con le sue 50 mila branche e i suoi 4 milioni di aderenti; ha preferito invece dotarsi di una milizia propria, la Hindu Yuva Vahani (HYV), la Brigata della Gioventù Indù. Fondata nel 2002 a Gorakhpur è il braccio armato di Yogi Adityanath; formata da giovani fanatici, che come segno distintivo indossano una fascia color zafferano, si è diffusa nell’intera regione e ha seminato terrore nella comunità mussulmana.
Come il 27 gennaio 2007, quando una processione mussulmana per la festa di Muharram incrocia a Gorakhpur i partecipanti a un matrimonio indù. Provocazioni, insulti… Scoppiano scontri fra le due comunità. Un indù viene ferito mortalmente. La polizia decreta il coprifuoco per evitare una fiammata di violenza. Ma il giorno successivo, sfidando il divieto, il deputato Yogi Adityanath pronuncia un discorso incendiario, esortando gli indù a vendicare il loro fratello.  «Se qualcuno ha dato fuoco alle case e ai negozi degli indù, credo che non vi si possa impedire di fare altrettanto», grida alla folla, prima di promettere di distruggere le tazia, repliche del martirio di Hussein portate in processione durante il Muharram. Il deputato viene arrestato per turbativa dell’ordine pubblico e messo in prigione. La sua incarcerazione scatena rivolte: treni, bus, moschee incendiati, negozi e case di mussulmani saccheggiati. Dieci persone perdono la vita.
Il giornalista Dhirendra K. Jha, autore di un libro su Yogi Adityanath e l’HYN, ha contato 22 importanti rivolte che, fra il 2002 e il 2007, a Gorakhpur e nei vicini distretti hanno coinvolto la milizia. «L’HYV ha fatto sin dal primo giorno della sua istituzione una propaganda aggressiva e velenosa, trasformando minimi incidenti in guerre fra comunità e stigmatizzando le minoranze quali nemiche degli indù», scrive il giornalista.
Il deputato Yogi Adityanath è liberato dopo 11 giorni di prigione. Per rappresaglia, il governo dell’Uttar Pradesh di Mulayam Singh lo priva delle sue guardie di sicurezza. Durante una memorabile seduta del parlamento nazionale, Yogi Adityanath singhiozzando sostiene di essere vittima di una «cospirazione politica» e implora la protezione del presidente della Camera Bassa.
Ancora perseguito per la vicenda di Gorakhpur, immediatamente dopo l’ascesa alla testa dell’Uttar Pradesh si autoassolve facendo votare una legge che cancella tutte le procedure intentategli dai predecessori.
«È indifferente a ogni norma democratica, concentra nelle proprie mani tutti i poteri, marginalizza il parlamento e le istituzioni», afferma Gilles Vernier. I suoi metodi sono brutali, autoritari, accentratori e personalistici. Oltre alla funzione di capo del governo, ha avocato a sé una ventina di ministeri, dall’urbanistica all’alimentazione, passando per lo sfruttamento minerario.
L’essenziale della sua politica dei primi mesi è indirizzata contro i mussulmani e focalizzata sulla questione della protezione della vacca, animale sacro per gli indù. «Non c’è che un modo per proteggere la cultura indiana: proteggere le gau (le vacche), il Gange e la [dea] Gayatri. Soltanto la comunità che saprà proteggere questo patrimonio sopravvivrà. Altrimenti ci sarà una grandissima crisi identitaria, e questa crisi identitaria metterà in pericolo la nostra esistenza», profetizza Yogi Adityanath in occasione della prima convention indiana dei protettori delle vacche, a novembre 2017.

Una debole resistenza

Un piano di costruzione e manutenzione delle gaushala (stalle) è dispiegato nei 75 distretti della regione, al suono di milioni di rupie. Yogi Adityanath ordina la chiusura di decine di macelli, dichiarandoli «illegali» e privando i proprietari dei mezzi di sussistenza. L’Uttar Pradesh non è tuttavia un caso isolato. Ovunque nel Paese vengono istituiti comitati di vigilanza che perseguitano non soltanto i mussulmani, ma anche i Dalit (in passato chiamati “Intoccabili” perché svolgono attività considerate impure) che fanno gli squartatori, accusati di uccidere e mangiare le vacche. Dal 2015 si è diffusa nel Paese un’ondata di linciaggi contro allevatori e macellai.
Parallelamente, Yogi Adityanath si dedica a «ripristinare», dice, la storia dell’India, cancellando le tracce degli imperatori mussulmani di dinastia mongola. Fa togliere dai dépliant turistici il Taj Mahal, ribattezza città, strade e musei che, secondo gli induisti, hanno assonanze mussulmane.
Contro Yogi Adityanath la resistenza è quasi inesistente. L’opposizione politica è stata eliminata, quella diretta dei cittadini, quando osa manifestarsi, è sistematicamente punita. È quanto accaduto durante le grandi manifestazioni contro la riforma della nazionalità, votata dal parlamento a dicembre 2019. Per mesi, nell’intero Paese gli indiani si sono mobilitati contro questa legge islamofoba, che esclude gli immigrati mussulmani dalla procedura di regolarizzazione, concessa invece a tutte le altre religioni.
Sostenitore della riforma, il capo dell’Uttar Pradesh ha ordinato ai poliziotti di reprimere i manifestanti. Gli agenti hanno sparato pallottole vere sulla folla, il bilancio è stato pesante: a fine febbraio si sono contati 23 morti, per lo più mussulmani; centinaia di protestatari messi in prigione in nome della legge sulla sicurezza nazionale (National Security Act), che consente la reclusione, fino a 12 mesi e senza processo, di ogni persona ritenuta pericolosa per la pubblica sicurezza. A marzo 2020 Yogi Adityanath ha fatto affiggere sui muri di Lucknow manifesti con foto, nomi e indirizzi di 75 manifestanti, accusati di vandalismo e puniti con pesanti ammende. Una messa alla gogna condannata dall’Alta Corte di Allahabad – a ottobre 2018 ribattezzata Prayagraj – che ne ha ordinato la rimozione.

Detenzioni abusive

Tra i manifestanti colpiti dalla polizia c’è un medico mussulmano, Kafeel Khan, il cui nome è finito in prima pagina tre anni fa, ad agosto 2017. Dopo la morte di 70 bambini all’ospedale pubblico di Gorakhpur, causata da un’interruzione della fornitura di ossigeno per mancato pagamento dei fornitori, il pediatra ha denunciato l’incuria dell’amministrazione del nosocomio. Fermato a settembre 2017 è stato perseguito per «omicidio e negligenza» e tenuto in carcere sette mesi.
Liberato ad aprile 2018 su cauzione, indi di nuovo imprigionato, la sua vicenda è un esempio di vero e proprio accanimento. «Il sistema sanitario in Uttar Pradesh è in panne; sanno che parlo di sanità con cognizione di causa, perciò vogliono mettermi a tacere – ha dichiarato al momento della scarcerazione – Penso volessero tenermi in prigione fino al 2022», data delle prossime elezioni regionali.
A settembre 2019 la giustizia l’ha assolto da ogni accusa. Tre mesi dopo, a dicembre 2019, è stato di nuovo messo sottochiave per un discorso giudicato «provocatorio», pronunciato davanti a 600 studenti dell’università di Aligarh, in occasione delle manifestazioni contro la legge sulla cittadinanza. Il 10 febbraio 2020 il tribunale della città l’ha dichiarato innocente: la sua allocuzione non conteneva né odio né violenza né costituiva minaccia all’ordine pubblico. Eppure il governo dell’Uttar Pradesh l’ha tenuto in prigione per altri otto mesi, fino a quando a settembre l’Alta Corte di Allahabad ne ha imposto la liberazione. Giovedì 17 dicembre la Corte Suprema ha respinto il ricorso del governo dell’Uttar Pradesh.
Nelle ultime settimane un’altra vicenda ha messo in luce un aspetto della politica di Yogi Adityanath meno vistoso della caccia ai mussulmani, ma altrettanto deleterio: il dominio dei Thakur (o Rajput), che nella gerarchia delle quattro caste sono collocati nella seconda, dopo i Brahmani. Yogi Adityanath è un Thakur, come la maggior parte dei membri della sua milizia, reclutati tra giovani senza lavoro, ma istruiti.
I fatti sono accaduti il 14 settembre, nel distretto di Hathras. Una ragazza di 19 anni è stata selvaggiamente stuprata da quattro uomini, tutti Thakur. Trascinata per il collo, le si è frantumata la colonna vertebrale. È morta il 29 settembre in ospedale. La vittima era una Dalit, al di fuori del sistema delle caste ossia d’infima condizione sociale. La polizia dell’Uttar Pradesh ha inizialmente negato la violenza sessuale, poi, nottetempo, ha cremato in un campo il corpo della giovane donna. Inascoltato lo straziante appello dei genitori, cui è stato impedito di dare l’ultimo saluto alla figlia.
Yogi Adityanath non ha condannato gli autori, se l’è invece presa con l’opposizione, affermando che l’indignazione suscitata dalla drammatica vicenda era parte di una «cospirazione» per destabilizzare lo Stato e intralciare «lo sviluppo» dell’Uttar Pradesh.  Il Central Bureau of Investigation (CBI), equivalente indiano dell’FBI americano, incaricato d’investigare sulla vicenda, ha contraddetto la polizia dell’Uttar Pradesh depositando al tribunale di Hathras un atto di accusa per stupro collettivo e omicidio contro i quattro uomini.
Secondo gli ultimi dati del National Crime Records Bureau, pubblicati lo scorso gennaio, dal 2014 al 2018 nell’Uttar Pradesh i crimini contro i Dalit sono aumentati del 47%. Nel 2019 il 25% dei crimini contro donne e ragazze, compresi gli stupri collettivi, è stato commesso in questo Stato, ove si registra anche il più alto numero di omicidi di giornalisti.
«L’ordine pubblico nell’Uttar Pradesh è in declino da decenni. Ma oggi, per l’azione di una poplizia che fa di tutto tranne che mantenere l’ordine, lo Stato sta precipitando nel caos. Gli stupri, gli omicidi e le atrocità della casta insanguinano quotidianamente il paesaggio. L’Uttar Pradesh è al primo posto in molte categorie di crimini», ha commentato la giornalista politica Arati R. Jerath sul The Indian Express, dopo la pubblicazione dei dati statistici sulla criminalità. «Non c’è da stupirsene, ha aggiunto: il responsabile di questo territorio è egli stesso persona abietta, che non crede al rispetto della legge e della dignità umana».

Un tempio al posto di una moschea

Sarà per sfuggire alle quotidiane polemiche che, almeno una volta la settimana, il monaco-deputato si reca al monastero di Gorakhpur, in 4X4 e con la protezione di uomini armati di kalashnikov? Il luogo è immenso e comprende, oltre al grande tempio bianco, una sequela di altre costruzioni, santuari, la residenza e gli uffici del Mahant, una gaushala, cioè un rifugio per le vacche. Al mattino Yogi Adityanath vi tiene udienze per un’ora. Alcuni devoti vengono a baciargli i piedi, molto spesso però le persone gli chiedono aiuti concreti, di carattere educativo o sanitario. Il monastero gestisce una dozzina d’istituzioni, un ospedale, una scuola di sanscrito, una biblioteca, un centro di yoga e una scuola.
Dagli anni Quaranta il monastero di Gorakhpur, situato a 130 chilometri dalla città di Ayodhya, ha svolto un ruolo centrale nella lotta degli indù contro i mussulmani per imporre la costruzione di un tempio al posto di quanto rimane della moschea di Babri, costruita nel XVI secolo e distrutta nel 1992. Gli indù lo ritengono il luogo dove è nato il dio Rama, settima incarnazione di Visnu. Nel 2019, dopo anni di conflitti e migliaia di morti, la giustizia ha dato il via libera alla costruzione del tempio, di cui il 5 agosto Narendra Modi e Yogi Adityanath hanno posato la prima pietra, nel corso di una cerimonia trasmessa in diretta da tutte le televisioni del Paese.
I lavori dovrebbero terminare nel 2024, prima delle prossime elezioni nazionali. Il primo ministro e il capo dell’Uttar Pradesh sanno che il tempio di Rama influirà sul loro futuro politico più di ogni altro bilancio.


 

 

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