Alla scoperta delle prime raffigurazioni della Natività

22 DICEMBRE 2016 ADOLFO PARENTE
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A questo punto ci si potrebbe porre una domanda: ma i primi cristiani, come rappresentavano il Natale, quale connotazione figurativa assumeva l’evento mistico della Natività di Nostro Signore?

Per rispondere a questa domanda occorre fare una sorta di viaggio nel tempo per giungere nella Roma imperiale, la capitale di un vasto impero che accoglieva gente da tutto il mondo, e addentrarsi in uno di quei luoghi tipici della cristianità delle origini: le catacombe.

Qui, tra le molteplici immagini che decoravano le pareti dei vari ipogei e che in un certo senso guidavano i cristiani nel loro cammino terreno, non troveremo la classica rappresentazione “presepiale” a cui siamo abituati.

È bene ricordare che l’arte paleocristiana si caratterizzava soprattutto per rappresentazioni sintetiche e dirette e fortemente legate alle Sacre Scritture; figurazioni che oggi possono apparire come immagini complesse e dal significato arcano, ma erano facilmente comprensibili ai primi “seguaci della nuova religione”, come venivano indicati i cristiani dagli antichi romani.

Una di queste immagini, molto particolare, la ritroviamo nelle catacombe della Via Latina dove, su una parete della sala B, viene raffigurata la scena di un personaggio in groppa ad un asino che viene come ostacolato nel suo viaggio da un individuo dalle proporzioni enormi, ma che stranamente indossa una lunga toga e impugna un spada (III secolo d.C.)

Effettivamente la scena è abbastanza complessa e sembra non avere nessun apparente legame con il cristianesimo e, soprattutto, con il Natale. La spiegazione è invece contenuta nelle Scritture, nel Libro dei Numeri (22,22 – 24,15): che narra di Balaam, il profeta biblico incaricato da Balak, re di Moab, di maledire gli israeliti, l’altra figura enorme che impugna la spada, è identificabile con l’angelo del Signore che, non solo impedisce l’azione, ma fa parlare addirittura l’asina che ammonisce l’oracolo peccatore davanti a Dio.

Il profeta piegandosi alla volontà di Dio si recò quindi dal re di Moab dove enunciò il suo diniego e pronunciò la profezia messianica: “Oracolo di Balaam, figlio di Beor, oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante, oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell’Altissimo […] Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele, spezza le tempie di Moab e il cranio dei figli di Set”.

I padri della Chiesa in queste parole hanno letto la profezia della nascita del Cristo e la comparsa della stella cometa. Questa rappresentazione ci permette quindi di poter leggere in maniera più completa un’altra importante raffigurazione dell’arte paleocristiana, sempre del III secolo, che si trova su una parete delle catacombe di Priscilla sulla via Salaria.

Qui un frammento di una decorazione a stucco presenta la scena di una madre che allatta, mentre poco distante è ritratto un individuo in piedi nell’atto di indicare una stella posta sulla testa della donna. È proprio questa la rappresentazione più antica della Natività di Gesù e forse, senza nulla togliere al poverello di Assisi, è il più antico “presepe” rappresentato.


In realtà i critici hanno individuato due letture iconografiche molto vicine tra loro e legate alle Sacre Scritture: asserito che la figura femminile sia la Madonna che allatta Gesù Bambino, è possibile identificare il personaggio maschile proprio nel profeta Balaam che indica la stella come realizzazione della sua profezia.

L’altra versione invece indica in tale figura il profeta Isaia che annuncia: “Il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la Vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”. Quale che sia la lettura iconografica giusta, resta il senso profondo dell’arte sacra dei primi cristiani, ovvero la relazione continua tra Antico e Nuovo Testamento, tra annuncio profetico e compimento della Salvezza.

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Via Latina (di F.R.Valente)
Ipogeo di Via Latina

da www.simmetria.org/…/723-ipogeo-di-v…

Lo scorso 3 Marzo abbiamo visitato uno dei più affascinanti e meno conosciuti tesori della Roma sotterranea: l’ipogeo anonimo della Via Latina. Situato in corrispondenza dell’incrocio tra la Via Latina e Via Cesare Baronio, questo interessante nucleo cimiteriale è rimasto nascosto fino alla metà del Novecento.

La sua scoperta si deve all’ingegner Mario Santa Maria, responsabile di un cantiere per la costruzione di un palazzo proprio sopra la catacomba: gettando le fondazioni del palazzo in costruzione, l’ingegnere si accorse che sotto i suoi piedi si doveva trovare una vastissima cavità. Si calò quindi di persona nel foro aperto dal battipalo e si ritrovò ad ammirare alla luce della torcia, lo spettacolo incredibile di pitture intatte dai colori brillanti, lo sguardo del tempo attraverso i volti dei grandi personaggi affrescati nella sala dove nessuno era più penetrato da almeno seicento anno.

Data la notizia dell’incredibile ritrovamento alla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, iniziarono finalmente gli scavi archeologici, tra le mille proteste degli abitanti del palazzo, che nel frattempo era ormai stato terminato. Oggi questo gioiello dell’arte funeraria è normalmente chiuso al pubblico, per garantire la conservazione dei delicatissimi affreschi: noi abbiamo avuto il privilegio di visitarlo e di provare un’eco viva dell’emozione che dovette provare il suo scopritore più di 50 anni fa. Un’emozione che del resto cambiò la vita dell’ingegnere che lasciò il suo lavoro per dedicarsi all’archeologia, diventando poi Direttore dell’Ufficio tecnico della Commissione di Archeologia Sacra.

Il fossore Emiliano, erede di quegli operai che nella Roma cristiana si occupavano della creazione e della manutenzione delle catacombe, oltre che della vendita degli spazi funerari, ci ha aperto quello che dall’esterno appare come un semplice tombino, e che invece cela l’accesso alla catacomba.

Scendendo i ventotto gradini della scala, a circa 14 metri sotto il livello della strada attuale, abbiamo scoperto iniziato il nostro percorso. Appena entrati nella prima stanza funeraria, subito si capisce perché questa catacomba sia stata definita “una pinacoteca sotterranea”. Troviamo infatti dei veri e propri “quadri”, che raffigurano varie scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, scene più diffuse, quali il ciclo relativo al profeta Giona, o Daniele tra i leoni, ma anche scene più rare e complesse, attestate qui per la prima ed unica volta.

Una caratteristica importante di questo luogo straordinario è la compresenza di scene cristiane e scene pagane, mitologiche o riferibili a culti orientali: dall’analisi di queste pitture emerge il ritratto di una società complessa e variegata, una società dove le grandi famiglie contavano tra i propri membri adepti dei culti più disparati, ma che ciononostante sceglievano di riposare insieme nello stesso ambiente.

In questa prima stanza abbiamo potuto osservare sulla volta un piccolo ciclo mariano, articolato in tre scene che ruotano intorno al quadro centrale che ritrae un Buon Pastore, che fa da perno cristologico all’intera decorazione: la scena dell’Annunciazione alla Vergine, la rara scena della prova delle acque amare cui furono sottoposti Giuseppe e Maria, la più diffusa scena dell’adorazione dei Magi. Sulle pareti troviamo invece la raffigurazione della cena d’Isacco, del discorso di Mosé agli Israeliti, della condanna dei giovani ebrei nella fornace, o scene più importanti, come il consessus apostolorum, o l’enigmatica scena che decora la lunetta dell’arcosolio della parete di fondo, dove vediamo un curioso trio, composto da una donna velata e due uomini: forse Susanna tra i due vecchioni che la insidiano?

Certamente un ruolo importante è svolto dal Libro di Daniele, in questo ipogeo come in tutti i settori dell’arte paleocristiana (cfr. il mio intervento “Il Libro di Daniele come fonte di ispirazione iconografica” che si terrà nell’ambito del Convegno “Incisioni figurate della tarda Antichità” presso Palazzo Massimo a Roma, il 22 Marzo 2012 e la successiva pubblicazione degli Atti), ma qui viene da chiedersi se non si tratti del ritratto della defunta introdotta in cielo da due anonimi santi: significativa appare infatti la collocazione della donna, in
asse col Cristo del collegio apostolico e col Buon Pastore della volta. Usciamo dal primo cubicolo e scendiamo ancora qualche gradino, fino ad entrare in un ambiente la cui architettura e i cui colori vivaci a dispetto dei secoli di oblio, ci lasciano senza fiato. Colonne, timpani, capitelli, finti marmi, mensole: sembra di essere in un ricco mausoleo di superficie, ma qui l’architettura è ricavata da un sapiente lavoro di intaglio del tufo che imita le lussuose strutture di superficie.

In questa camera troviamo un’intera sezione decorativa dedicata al dialogo tra Dio e l’uomo, un dialogo fatto di sogni, come nell’episodio del sogno di Giacobbe a Bethel, o ancora nel caso dei sogni di Giuseppe, di visioni, come la visione di Abramo a Mambre, o di profezie, come nel caso di Elia.

Un’altra sezione è dedicata invece alle storie dell’Esodo, che raggiungono il loro apice figurativo nella sezione finale del cubicolo: qui troviamo due sorprendenti ed uniche megalografie che rappresentano il recupero delle ossa di Giuseppe ed il passaggio del Mar Rosso.

Quest’ultima scena, sorprendentemente dinamica, si snoda su più pareti, accentuando il movimento concitato della cavalleria egiziana che trova la morte nel Mar Rosso, e la fuga del popolo di Yahwé, che fugge verso la salvezza, mentre l’imponente figura di Mosé fa richiudere le acque. Una posizione di rilievo, nella nicchia centrale della parete di fondo, è stata destinata alla figura di un cloratissimo pavone, simbolo di resurrezione per i Padri della Chiesa: attorno all’animale, vediamo la caduta di Adamo ed Eva, il ciclo di Giona ed un’orante femminile. Questa figura è tratta dal repertorio dell’arte pagana, dove essa era simbolo della pietas romana, ma viene risemantizzata dall’arte paleocristiana che ne fa una personificazione dell’anima del defunto, posta in correlazione col Buon Pastore, erede di Hermes psicopompo, a significare l’abbandono mistico dell’anima in Dio, u
n abbandono che l’arte rappresenta attraverso il muto colloquio di sguardi tra queste due emblematiche figure.

Varcando la soglia di un altro ambiente, protetto dall’immagine di un antico fossore, quasi un nume tutelare, lasciamo per un attimo la civiltà cristiana e ci immergiamo nel mondo della religione pagana: è Hermes in persona, rappresentato come un giovane nudo con un ramoscello in mano, che ci accompagna in questo viaggio nella mitologia. Nel cubicolo E, ci accoglie un corteo di danzatrici e divinità dell’aria, una gorgone imponente e una figura femminile enigmatica, che è stata inizialmente identificata con Cleopatra, poi con la Tellus, divinità legata alla terra e alla fertilità, ma forse potrebbe richiamare anche Proserpina.

Nell’ambiente di fronte è invece il cristianesimo che torna a farla da padrone: troviamo infatti Balaam fermato dall’angelo, Gesù in colloquio con la samaritana e una scena sorprendente per la sua crudezza, del tutto insolita per la non violenta l’arte cristiana: Sansone è colto nell’attimo in cui fa strage di Filistei con una mascella d’asino. Sulle pareti ancora una scena enigmatica: dei personaggi si affacciano attraverso porte socchiuse
, simbolo connesso da sempre all’oltremondo.

Sono forse i defunti che cercano un contatto con i vivi? Proseguendo il nostro itinerario, ci troviamo in un ambiente “misto”; scene di filosofia enigmatiche, come la famosa “lezione di medicina” convivono nello stesso ambiente con scene cristiane, come Giobbe piagato con la moglie Sitis, Mosé che si scioglie i calzari, e soprattutto con una scena che si impone per la potenza del suo significato: la Maiestas Domini.

Si tratta forse della scena più rappresentativa per la Chiesa di Roma: Cristo assiso in trono fra Pietro e Paolo. In questa catacomba abbiamo potuto osservare l’importanza iconografica che rivestono gli episodi teofanici nel Vecchio e nel Nuovo Testamento: questa scena rappresenta forse l’apice di questo percorso, che parte dalla visione di Abramo e si conclude con le visioni del Figlio dell’Uomo in trono ispirate dall’Apocalisse giovannea, tra cui si inserisce anche questa scena simbolica oltremondana (cfr. il mio lavoro di prossima pubblicazione a proposito dell’Apocalisse giovannea e dei suoi antefatti giudaici e pagani, e delle apocalissi gnostiche ritenute apocrife, tra le quali il cosiddetto Vangelo di Giuda).

Siamo quasi alla fine del nostro percorso, quando troviamo una scena unica nella pittura catacombale cristiana: la scena che ritrae i soldati romani che si giocano le vesti di Gesù, attraverso un interessante congegno meccanico per l’estrazione dei dadi.

L’ultimo ambiente ci riserva ancora una sorpresa: un ciclo megalografico dedicato alle fatiche di Ercole ed alla commovente storia di Alcesti, eroina greca che si sacrifica per amore del marito Admeto e viene in seguito ri
portata in vita dall’eroe. Più oltre ci attendono quasi per salutarci, figure di donne che recano attributi stagionali: fieno, uva, anfore colme di olio. Qui troviamo un’interessante riproduzione della decorazione del secondo cubicolo che abbiamo visitato: nella stessa posizione troviamo ancora una volta il passaggio del Mar Rosso e il recupero delle ossa di Giuseppe, ma se lo schema è identico, è interessante notare la differenza della mano.

Mentre usciamo, forse a malincuore, a “riveder le stelle”, rimane un quesito insoluto: chi erano questi incredibili mecenati che hanno voluto un monumento simile? L’analisi delle iscrizioni ritrovate in situ non ha consentito di identificare il nome della famiglia che commissionò un tale gioiello per la propria dimora eterna: possiamo però immaginare che si trattasse di una famiglia abbiente ma anche molto istruita, ed essere grati a questi nostri anonimi antenati che ci hanno consegnato un tesoro di così grande valore.






Francesca Romana Valente

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Catacombe di Priscilla sulla Via salaria