Ritorno all'Ordine

Quel genio irriverente che aveva messo a soqquadro l’Italietta in odore di cattocomunismo e poteri finanziari fin da prima della guerra con giornali come “L’Italiano” e “Omnibus” e in seguito con “Il Borghese”, aveva messo un prudente punto interrogativo in testa al suo libro: “Ci salveranno le vecchie zie?”. Un po’ cinico e un po’ realista, temeva fortemente che neppure loro ce l’avrebbero fatta. Tanto da chiudere il suo pamphlet con il quasi rassegnato: “Sapranno le vecchie zie salvarci dall’invasione cosacca? FINE”.
Ma chi altri potrebbe farlo ora che l’alleanza tra il cattocomunismo e i poteri finanziari ha prodotto un fetore penetrato fin dentro la Chiesa e a cui un insospettabile Paolo VI diede il nome di “fumo di Satana”? Ora che pare non esista più nulla in cui valga la pena di credere perché non si è più capaci di pensare a qualcosa di eterno e di contemplarlo?
I cattolici hanno persino buttato a mare l’idea dell’Inferno con la quale venivano accusati di ricattare e tenere in pugno le anime. Anime e inferno, oggi, non interessano più nessuno. Quindi neppure il Paradiso e tanto meno il Purgatorio, derubricato nelle lezioni di catechismo e nelle omelie a povera invenzione medievale. Tolto di mezzo l’aldilà da chi dovrebbe predicarlo per convinzione o almeno, secondo la perfidia laica, per camparci, sono crollati anche i presupposti del vivere civile. Perché bisogna spiegare in nome di che cosa, se non del desiderio del Paradiso e del terrore dell’Inferno, si chiede a un giovanotto di rinunciare al nuovo eden fatto di sesso, denaro, consumo e potere. Non si può certo farlo in nome del pauperismo predicato dai nuovi chierici, i quali pensano bene di raccomandare la povertà, ma solo quella altrui.
“Le idee, i miti, la fede che animano la morale non interessano più;” scriveva Longanesi nel suo libro sulle vecchie zie “sono vizi di un tempo meno felice, vizi che occorre perdere. Ora c’è una nuova tecnica della felicità; c’è un nuovo modo di vivere: ripudiare quel che non lascia tranquilli; ora c’è un meccanismo della felicità che ripudia ogni morale; c’è una pratica, una povera filosofia della pratica che distrugge ogni passione, ogni sentimento, ogni mito. Ed è il meccanismo del benessere, il frutto del socialismo e del capitalismo associati, demagogia del braccio e dei quattrini”.
Non sono certo i preti malati di sociologismo che ci salveranno da questo disastro, che del resto hanno benedetto con gli aspersori buttati subito dopo alle ortiche insieme alle vesti talari e alle Messe in latino. Questi chierici, al massimo, sono capaci di scandalizzarsi per quei mafiosi che vanno a Messa e credono in Dio invece che per quei fior di galantuomini che a Messa non ci vanno proprio e quanto a Dio neanche a parlarne. Da una fede fondata su Dio hanno preso a praticarne e insegnarle una fondata sull’uomo perdendo di vista l’uno l’altro.
Se i nuovi preti ci hanno portato nel baratro, ci salveranno dunque le vecchie zie. “Tutti” scriveva Longanesi nel 1953 “abbiamo almeno una zia che non va al cinematografo e che conosce dieci modi di cucinare il lesso rimasto a colazione; una zia che, passata fra due guerre, conserva intatta la sua fede nell’avarizia; la quale avarizia, ormai, è soltanto un segno di decoro, un atto di fede, un principio morale, una norma pedagogica. Essa sa che i santi in cui ancora crede non fanno più miracoli; tuttavia non ha fiducia nei nuovi. Sospettosa, essa osserva la prosperità dei borghesi con occhio diffidente, in attesa del peggio. E il peggio verrà, è alle porte, è questione di tempo: i vecchi santi torneranno a fare miracoli. (…)
Erano, sono e ancora saranno, queste nostre zie, le custodi dell’ordine classico, nutrito da un’ironia un po’ laica, che non tollera il patetico cristiano e il patetico socialista; di un ordine classico, sorretto dalla scarsa fiducia nel progresso e nella bontà degli uomini e che non invita a colazione Rousseau.
Erano, sono e saranno ancora, queste nostre zie, tutte maestre, o tutte col diploma magistrale, decise insegnanti della derisa morale piccolo-borghese: tutte fedeli gendarmi dello stato a cui affidavano e affidano la difesa dei libretti di risparmio”.
Bisogna ricominciare da qui e ricostruire il vivere civile che, prima di essere tale, deve essere un sincero vivere religioso. Bisogna ricominciare a guardare con ammirazione e reverenza, e soprattutto con timore del loro giudizio, alle vecchie zie. Così come ai vecchi maestri che Peguy canta nel suo libro sul Denaro. Oppure come ai vecchi preti e ai vecchi sindaci che Guareschi ha deposto nel suo Mondo piccolo. O al vecchio uomo comune che Chesterton difende dall’aggressione del progresso e dell’emancipazione moderna. O ai vecchi hobbit in cui Tolkien racchiude saggezza e ardimento a sufficienza per riconoscere il male e combatterlo.
Bisogna tornare a far vivere la Tradizione invece che parlarne soltanto. Bisogna ricominciare a vivere di Tradizione, anche se non è facile in un mondo che ha tentato, quasi riuscendoci, di disintegrarla. Si tratta di un’opera che richiede pazienza, amore, tenacia e sacrificio: richiede fede. Richiede un realismo tale da riconoscere la propria inadeguatezza personale e, allo stesso tempo, da capire questo non giustifica l’indugio.
In poche parole, bisogna agire convinti che i vecchi santi torneranno a fare i miracoli. Il primo, o l’ultimo, dei quali sarà la caduta del punto di domanda dal titolo di Longanesi.
“Ci salveranno le vecchie zie”.