LA GRAN GIORNATA (nel seggio Dio ti vede, Stalin no) Qualche ora fa un conoscente mi ha girato per e-mail un edificante raccontino elettorale di Guareschi sui dubbi (e doveri) che si ponevano a chi …Altro
LA GRAN GIORNATA (nel seggio Dio ti vede, Stalin no)

Qualche ora fa un conoscente mi ha girato per e-mail un edificante raccontino elettorale di Guareschi sui dubbi (e doveri) che si ponevano a chi andava a votare in quell'Italia di settanta anni fa che le ultime violenze della guerra civile italiana (1943-1948).
Settanta anni fa la Chiesa italiana, che anche allora non era perfetta, fu chiara, evangelica nelle sue istruzioni al popolo cattolico e grazie sopratutto alle tante donne che ben votarono, comprese le suore di clausura, le vecchiette analfabete ma "sgranarosari, le malate gravi come la benemerita Maria Valtorta che sfidò il rischio di morire nel viaggio al seggio pur di fare il suo dovere cristiano, il peggio fu evitato.

Ripropongo qui sotto il racconto che forse rileggeranno con piacere anche gli amici che lo conoscevano già.

LA GRAN GIORNATA
di Giovannino Guareschi (1908-1968)

da "Candido" N.16, 18 Aprile 1948

Il Federale, quando arrivò in paese per l'ultimo comizio elettorale, rimase a bocca aperta per la meraviglia. Disse che di sezioni in gamba come quella di Peppone non ce n'era una in tutta la provincia.
Quando salì sulla tribuna, dalla massa che stipava la piazza si levò un tal temporale di urla e di battimani da far tremare i vetri delle finestre.
Peppone presentò l'oratore, e l'oratore, cessati gli applausi, si avvicinò al microfono e disse:
"Cittadini...".
Poi dovette interrompersi perché dalla folla si era levato un mormorio e tutti guardavano in aria. Si sentì avvicinarsi il ronzio e di lì a poco apparve un piccolo aereo rosso che, arrivato sopra la piazza, sganciò mezza tonnellata di manifestini rossi.
Qui successe un putiferio e tutti pensarono soltanto ad arraffare al volo i manifestini. Ne arraffò uno anche Peppone e strinse le mascelle.
L'oratore spiegò che davvero i nemici del popolo avevano poca fantasia, se non riuscivano che ad aggrapparsi alle solite vecchie favole, e controbatté validamente. La piazza si rimise calma, ma, in quel momento, lo stramaledetto aereo rosso riapparve e sganciò dei manifestini verdi.
"Fermi tutti!" urlò Peppone. "I galantuomini democratici non debbono raccogliere le provocazioni degli avversari venduti allo straniero!"
La piazza accolse con calma l'arrivo dei manifestini verdi che parlavano del regime di vita dell'operaio russo, e l'oratore riuscì a parlare per cinque buoni minuti. Ma poi l'aereo ritornò a farsi vivo e tutti i nasi si levarono in aria.
Non lanciò niente.
"Brucia!" urlò la gente vedendo un pennacchio di fumo nero uscire dalla coda dell'apparecchio e ci fu un pauroso ondeggiamento nella folla. Ma si trattava di un'altra faccenda perché l'apparecchio faceva strani giri nel cielo e il fumo nero rimaneva sospeso in aria e, poco dopo, la gente si accorse che l'aereo aveva scritto a lettere enormi: "W la DC".
Un urlo di furore si levò dalle schiere degli attivisti e, soltanto quando la scritta si dissolse, tornò la calma in piazza e l'oratore poté riprendere il suo discorso.
Dopo cinque minuti riecco il mascalzone volante. Non buttò niente sulla piazza, ma, arrivato al limite del paese, sganciò una quantità enorme di strani arnesi che presero a scendere ondeggiando leziosamente nell'aria. Si vide che erano piccoli paracadute con un sacchettino legato sotto, e la folla non poté resistere e ci fu uno squagliamento generale e attorno alla tribuna rimasero soltanto le squadre di attivisti.
Quando la gente ritornò sghignazzando, qualcuno portò uno dei paracadute a Peppone: nel sacchetto c'era stampato "Grano inviato dalla Russia", e dentro il sacchetto c'era un pizzico di coriandoli.
La folla, sotto gli urli di Peppone, smise di sghignazzare e l'oratore ricominciò a parlare. Ma si udì ancora avvicinarsi il delinquente dell'aria.
Allora Peppone sentì che le budella gli si annodavano per la rabbia e, saltato giù dal palco, chiamò la squadraccia e si allontanò di corsa.
Arrivati alla cascina del Lungo si fermarono davanti al pagliaio.
"Via, spicciarsi!" urlò Peppone.
Gli uomini cavarono fuori di sotto la paglia un grosso arnese coperto di sacchi e, tolti i sacchi, apparve luccicante di grasso una mitragliera da venti millimetri.
La piazzarono e il Brusco tentò di obiettare qualcosa ma Peppone non lo lasciò finire:
"Siamo in guerra! Se loro hanno il diritto di servirsi dell'aviazione noi abbiamo il diritto di servirci della contraerea!".
Per fortuna l'aereo aveva finito il suo lavoro e se ne andò e la contraerea non entrò in azione. Ma oramai il comizio era andato a catafascio perché nell'ultimo lancio l'aereo aveva sganciato mezzo quintale di copie de "La Campana" edizione speciale, con un potente articolo di don Camillo. E tutti, meno gli attivisti che si erano cacciati il giornale in saccoccia, si erano messi a leggere.
Il Federale era nero. E non rispose neppure alle scuse di Peppone.
"Compagno" disse Peppone costernato "se lo avessi immaginato avrei piazzato la mitragliera prima e, dopo il primo lancio, lo avremmo liquidato. Quando l'ho piazzata era troppo tardi."
Il Federale si fece spiegare la storia della mitragliera e impallidì e la fronte gli si coperse di sudore.
"In complesso è andata anche bene" balbettò mentre risaliva sulla macchina.
Intanto don Camillo, che aveva seguito la faccenda dall'alto della torre, sbirciando attraverso una finestrina, stava pregando a mani giunte:
"Gesù, dammi la forza di resistere alla tentazione di mettermi a suonare le campane a festa".
E Gesù gli diede la forza di resistere alla tentazione. E fu un gran bene perché Peppone aveva un gatto vivo nello stomaco, e se avesse sentito suonare le campane non ci avrebbe pensato su un secondo: sarebbe ritornato di corsa al pagliaio e, cacciata fuori la mitragliera, avrebbe aperto íl fuoco contro il campanile.
Così venne la famosa domenica.
Peppone si mise in ghingheri, gonfiò il petto e uscì di casa per andare a votare. Davanti alla sezione si collocò in coda e tutti gli dissero: "Si accomodi signor sindaco", ma egli rispose che in regime democratico tutti sono uguali.
Ma, in realtà, trovava ingiusto che íl suo voto valesse quanto quello di Pinòla, lo stagnino che era ubriaco sette giorni alla settimana e non sapeva neanche da che parte si alzava il sole.
Peppone si sentiva forte come una mandria di tori. Prima di uscire aveva preso un lapis e aveva segnato una decina di crocette su un foglio.
"Dev'essere il voto più deciso di tutto il Comune" spiegò alla moglie. "Così: zac, zac e Garibaldi vince alla faccia dei venduti e degli sfruttatori."
Peppone si sentiva forte e sicuro di sé come non mai e, ricevuta la scheda, si avviò verso la cabina con feroce baldanza: "Ne posso dare uno solo di voti" pensò "ma lo darò con tanta rabbia che deve valere per due!".
Si trovò nella penombra della cabina, con la scheda spalancata davanti e il lapis stretto fra le dita.
"Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede e Stalin no": pensò alla frase letta su uno dei manifestini che il maledetto apparecchio aveva lanciato sul comizio e, istintivamente, si volse perché gli pareva di sentire che qualcuno, dietro, lo stava guardando.
"I preti sono la peggiore genìa dell'universo" concluse. "Riempiono il cervello della povera gente con un sacco di favole. Avanti: croce su Garibaldi!".
Ma il lapis rimase lì e non si mosse. E così, Peppone, non sapendo cosa fare, dovette pensare alla maestra. "Sei sempre stato un mascalzone" gli sussurrò all'orecchio la voce della maestra morta, e Peppone scosse il testone: "Non è vero!" ansimò.
Una grande bandiera rossa gli passò davanti agli occhi e Peppone puntò il lapis sulla stella con Garibaldi. Ma ecco apparirgli sul foglio bianco il volto pallido del figlio di Stràziami. "L'America, se vince il Fronte, non ci darà più niente" gli sussurrò all'orecchio la voce di don Camillo.
"Vigliacchi!" rispose Peppone stringendo i denti.
"Centomila italiani prigionieri in Russia non sono tornati!" gli sussurrò ancora all'orecchio la voce perfida dí don Camillo.
"Non dovevano andarci!" rispose con rabbia Peppone. Ma gli apparve la vecchia Bacchini che non voleva più votare per nessuno perché nessun partito poteva farle ritornare il figlio dalla Russia, e Peppone si morse le labbra.
"Compagno" gli sussurrò allora all'orecchio la voce dura del commissario federale "il comunismo è disciplina".
Peppone puntò deciso il lapis verso la stella con Garibaldi ma riecco la voce perfida di don Camillo:
"Chi ha riempito le fosse di Catin?".
"Sono infami invenzioni!" rispose Peppone. "Sei un porco venduto allo straniero!"
Ma proprio allora gli venne fatto di pensare alla medaglia d'argento di don Camillo e alla sua medaglia d'argento. Le sentì tintinnare come se cozzassero l'una contro l'altra ed era lo stesso suono.
"E il Pizzi, chi lo ha ammazzato?" sussurrò ancora la voce di don Camillo.
"Non sono stato io" balbettò Peppone. "Voi lo sapete chi è stato!".
"Lo so" rispose perfida la voce di don Camillo "è stato quello lì, quello lì che è nascosto sotto la stella con Garibaldi. L'avete già ucciso una volta, il Pizzi, perché lo volete ammazzare ancora?"
Peppone avvicinò la punta del lapis al quadratino con la stella e Garibaldi.
"Voto per tutti quelli che ci hanno ammazzato gli altri" disse. Improvvisamente sentì la voce del suo ex capo partigiano, il saragatiano che era stato tirato giù dal palco e picchiato: "Beati quelli che sono rimasti lassù, in montagna, compagno Peppone".
"Carne maledetta!" sussurrò la voce di don Camillo. "Se non fossero morti lassù, avreste picchiato anche loro."
Pensò al commissario che portava via la roba da mangiare al figlio di Stràziamí. Pensò al figlio.
Peppone vide che la punta del lapis tremava, ma una grande bandiera rossa sventolò davanti ai suoi occhi e lo rinfrancò.
"Contro tutti gli sfruttatori del popolo che si arricchiscono col nostro sudore!" disse con rabbia appressando la punta della matita al quadratino con la stella e Garibaldi.
"Non è la tua bandiera" sussurrò la voce perfida di don Camillo e un drappo tricolore sventolò davanti agli occhi di Peppone.
"No, io non …
Acchiappaladri
"OBBEDIENZA CIECA, PRONTA E ASSOLUTA" a un uomo e alla sua ideologia chissà come mai mi fa venire in mente anche certi fatti di cronaca degli ultimi cinque anni ;-) :-D
Mi viene da sorridere pensando alle vignette con i trinariciuti che disegnerebbe oggi Guareschi se fosse un arzillo ultracentenario ;-)
Acchiappaladri
LA FINE DEL RACCONTO DI GUARESCHI
Mi accorgo ora che per qualche limite tecnico non è stata pubblicata la parte finale del racconto. La riporto di seguito.
"...
"Non è la tua bandiera" sussurrò la voce perfida di don Camillo e un drappo tricolore sventolò davanti agli occhi di Peppone.
"No, io non tradisco! È inutile, maledetti!" disse Peppone ansimando e chinandosi sulla scheda.
Uscì poco dopo …Altro
LA FINE DEL RACCONTO DI GUARESCHI
Mi accorgo ora che per qualche limite tecnico non è stata pubblicata la parte finale del racconto. La riporto di seguito.

"...
"Non è la tua bandiera" sussurrò la voce perfida di don Camillo e un drappo tricolore sventolò davanti agli occhi di Peppone.
"No, io non tradisco! È inutile, maledetti!" disse Peppone ansimando e chinandosi sulla scheda.
Uscì poco dopo, e quando consegnò la scheda, aveva paura che gli domandassero cosa aveva fatto in tutto quel tempo. Ma si accorse che erano passati quattro minuti soltanto, e si sentì rinfrancato.
Don Camillo stava cenando solo, ed era già buio quando entrò Peppone.
"Non usa più neppure chiedere permesso quando si entra in casa d'altri?" si informò don Camillo.
"Infami!" gridò Peppone stravolto. "Siete la rovina della povera gente!"
"Interessante" osservò don Camillo. "Vieni a tenere un comizio?"
"Voi riempite la testa della povera gente con le vostre menzogne!"
Don Camillo approvò con un cenno del capo.
"Va bene: ma perché me lo vieni a dire proprio ora?" Peppone si buttò a sedere e si prese la testa fra le mani. "Mi avete rovinato" disse poi con angoscia.
Don Camillo lo guardò.
"Sei pazzo?"
"No" disse Peppone. "Adesso non lo sono più, ma lo sono stato stamattina e ho commesso un delitto!"
"Un delitto?"
"Sì, io Peppone, io, il capo dei lavoratori, io il sindaco, ho consegnato scheda bianca!"
Peppone si nascose ancora la testa tra le mani e don Camillo gli riempì un bicchiere di vino e glielo mise davanti.
"Ma se perdiamo vi faccio la pelle, perché la colpa è vostra!" gridò Peppone rialzando la testa di scatto.
"D'accordo" rispose don Camillo. "Se il Fronte perde per un voto mi farai la pelle. Se perde per due o tre milioni di voti, la faccenda del tuo voto passa in second'ordine.
Peppone parve toccato.
"Vi faccio la pelle lo stesso per via dell'aeroplano" ribatté. "D'accordo, intanto bevici sopra."
Peppone levò il bicchiere e anche don Camillo levò il suo. E ci bevvero sopra tutt'e due.
Quando Peppone uscì si fermò un momentino sulla porta. "Queste cose le dobbiamo sapere soltanto noi due" disse minaccioso.
"D'accordo" rispose don Camillo.
Invece andò subito a raccontarlo al Cristo dell'altar maggiore.
E poi gli accese davanti due grossi ceri:
"Questo" spiegò don Camillo "perché gli avete risparmiato il rimorso di aver votato per Garibaldi e questo perché gli avete evitato il rimorso di aver votato per un partito che non è il suo." "
Sam Gamgee
Fantastica ,forse leggermente ose' per i tempi ,ma la battaglia fu durissima ,fino all'ultima scheda . Senza l' Azione Cattolica dei tempi ,Gedda ,le suore di clausura e su tutti Pio XII ,non so se la D.C. ce l'avrebbe fatta . Ma Dio chiese alla Cecoslovacchia di fare la vittima sacrificale ,e ci salvammo.