Francesco I
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Come e perché sul banco degli imputati finisce la libertà – Ricognizioni

È stato presentato al Senato anche a firma Zan il ddl che qualche anno fa portò il nome del solo Scalfarotto. Ma il pacco, nel senso gergale di imbroglio di bassa lega, rimane sempre lo stesso. Vi rimane impressa tutta la strategia attenta quanto sagace della potente lobby omosessualista, protesa alla conquista e al controllo dei gangli vitali della società, che da tempo ha stabilito il proprio quartier generale nella anticamera della presidenza del Consiglio, ma è intenta ad applicare direttive di respiro internazionale.

Il progetto ambizioso si concentra sulla elevazione della omosessualità e dei suoi derivati da fatto privatissimo a valore riconosciuto come proprio dalla società civile. Programma ambizioso, dal momento che per dritto o per rovescio è in gioco il sovvertimento degli schemi tracciati dalla natura o, più banalmente, dalla fisiologia. Schemi rimasti insuperabili fino a quando il delirio di onnipotenza ha indotto l’uomo moderno a prendere di mira proprio le leggi della natura.

Ed ecco la tenacia morbosa con cui l’omosessualismo cerca di rovesciare i canoni dell’etica sociale e famigliare e di ricavarsi un posto d’onore nella rosa dei valori morali consolidati attraverso l’accaparramento improprio di diritti e di una protezione particolare da parte della legge penale.
Impresa grandiosa resa possibile grazie al lavorio dei mezzi di comunicazione sullo spettatore medio e soprattutto sulle menti permeabili dei più giovani, sempre sensibili alle suggestioni del possibile e dunque facili ad inserire la pratica omosessuale tra le risorse della libertà.
Determinante ovviamente il sostegno della intellighentjia progressista che, secondo la religione giacobina, in nome della propria libertà nega come blasfema ogni possibile dissidenza, perché dal corto circuito sempre innescato della libertà senza orientamento al bene comune, non è dato uscire.

Tuttavia, una volta preparato per via mediatica il terreno della tolleranza morale ed estetica, che è un aspetto essenziale dell’etica, bisogna eliminare ogni resistenza. Bisogna impedire al bambino di gridare che il re è nudo, che l’omosessualità deve rimanere un affare privato, perché una volta uscita dalle pieghe delle pulsioni individuali, ed elevata a valore comunitario contro ogni evidenza di ragione, si distrugge la struttura etica della comunità, insieme all’equilibrio fisico e mentale di un paio di generazioni, in attesa che l’istinto di sopravvivenza non torni ad avere la meglio.
E a questo scopo occorreva trovare una legittimazione giuridica capace di assicurarle lunga vita.

A questo scopo la ben oleata macchina dell’omosessualismo progressista ha trovato bell’e fatta, fra le tante confezionate dal cattoprogressismo di maniera, la sciagurata legge Mancino sulle discriminazioni per motivi razziali. Una legge palesemente incostituzionale, e in evidente contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento penale, ma perfetta per essere sfruttata a dovere con la sua carica repressiva ad ampio spettro contro ogni tipo di opposizione e di resistenza.

L’antefatto si colloca negli anni della lotta sanguinosa tra comunità bianca e nera in Sudafrica, legata alla famosa apartheid.
Nel 1965 a New York viene sottoscritta anche dall’Italia una Convenzione con cui gli stati firmatari si impegnano a condannare la discriminazione razziale, con esplicito riferimento dunque ad una precisa situazione peraltro del tutto estranea alla realtà italiana. Infatti l’accordo internazionale prende le mosse dalla lotta sanguinosa tra comunità bianca e nera in Sudafrica negli anni della famosa apartheid.

L’Italia non aveva bisogno di adeguare la propria legislazione al principio di non discriminazione dal momento che è la stessa Costituzione ad impedire che il legislatore ordinario emani norme discriminatorie, secondo il ben noto articolo 3. Tuttavia la legge di ratifica non si limitò a ribadire il generico impegno programmatico sottoscritto a New York, ma formulò una norma penale del tutto insensata che tra l’altro punisce gli “atti di discriminazione” per motivi razziali e altro, e che ha aperto la strada ad un micidiale fraintendimento linguistico e giuridico.

Infatti un conto è affermare, come fa l’articolo 3, che non devono essere emanate norme discriminatorie tali da introdurre disparità di trattamenti nei limiti segnati, altra cosa è stabilire che il singolo individuo non deve comportarsi in modo discriminatorio altrimenti sarà punito. Per la ragione evidente che nell’agire quotidiano di ciascuno è normale discriminare, che vuol dire scegliere, e fino a prova contraria, tutti noi, vivendo, facciamo scelte continue in base a valutazioni che rimangono nella nostra coscienza e che in ogni caso a nessuno è dato sindacare perché sono e devono rimanere insondabili.

Insomma, se la Costituzione vieta al legislatore di emanare leggi discriminatorie nel senso dell’articolo 3, il singolo è libero di adottare qualunque comportamento discriminatorio, che sta semplicemente per libertà di scelta. Discriminazione non è affatto in sé una brutta parola, significa solo che come individuo posso scegliere il barbiere magari in ragione delle sue preferenze calcistiche, posso evitare un venditore perché troppo assillante o un locale perché rumoroso, un mediatore che ritengo inaffidabile.

Questo in generale dal punto di vista logico. Ma se ci spostiamo sul piano giuridico la faccenda acquista un peso ben più significativo. Sappiamo come la legge penale possa diventare e sia diventata di fatto una potentissima arma impropria nelle mani del potere costituito. Sicché le società più evolute, come si pregia di essere la nostra, si sono dotate di principi capaci di assicurare che la legge penale metta il cittadino al riparo dall’arbitrio del legislatore e del giudice. Anzitutto il principio di legalità, che offre al singolo la mappa dei comportamenti tipici vietati, e dunque sottratti alla improvvisazione del tiranno. Ma anche il principio di oggettività per cui può essere punito solo il fatto che avendo una struttura concreta sia anche oggettivamente verificabile, e sia ridotta al minimo anche la discrezionalità del giudice. Gli aspetti per così dire psicologici che determinano le azioni umane non possono e non devono essere oggetto di persecuzione autonoma per evidenti esigenze di garanzia.

Non per nulla tutti i regimi totalitari hanno potuto eliminare i possibili oppositori attraverso la condanna delle idee e delle intenzioni. La punizione del pensiero assicurava al regime sovietico e a quello nazista l’eliminazione fisica del dissidente, l’internamento, il carcere, il manicomio.
I motivi che hanno guidato il comportamento possono entrare in gioco solo per graduare la gravità del fatto, non per costituire essi stessi un fatto punibile. Il diritto penale che viene meno a questa esigenza di oggettività diventa strumento di oppressione nelle mani del potere costituito. Il codice Rocco, per avventura emanato in tempi ritenuti tanto sospetti, che piaccia o no, e dovrebbe piacere a chiunque tiene a non finire in galera solo per quello che gli passa per la testa, prevede che siano puniti i fatti e non le opinioni, la libera manifestazione delle quali, tra l’altro, pare sia ancora garantita dalla stessa Costituzione.

Nonostante ciò, lo zelante cattoprogressista Mancino, secondo il vezzo per cui ogni politico nostrano a corto di argomenti e di programmi si autolegittima con la immarcescibile professione di antifascismo, sentì il bisogno di farsi promotore, a distanza di qualche lustro da quella impropria legge di ratifica, di un’altra legge, la 205 del 1993, modellata sulla prima e altrettanto anacronistica e incostituzionale, che porta ancora il suo nome. Essa prevede tre ipotesi di reato:

1. La diffusione in qualunque modo di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico.
2. L’incitamento a commettere o la commissione di atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
3. L’incitamento a commettere o la commissione di violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Una legge, dunque, che nella sua ottusità ideologica stravolge i principi fondamentali di un sistema penale come il nostro dove sono puniti i fatti e non le idee o le intenzioni.

In particolare, vi torna il riferimento a quegli atti di discriminazione difficilmente intelligibili se riferiti al privato cittadino che, bisogna ripeterlo ha il diritto di compiere qualunque azione lecita in base a motivi insindacabili da parte di qualunque pubblica autorità.

Non meno anomalo è il caso della violenza, che viene qualificata in ragione dei motivi razziali, etnici, religiosi e via discorrendo, in cui questi diventano perciò stesso elemento costitutivo del reato. Eppure, già da molti anni era stato abrogato l’unico reato del quale il motivo a delinquere era elemento costitutivo, cioè il delitto commesso per causa d’onore. La legge Mancino è sfuggita al controllo di legittimità costituzionale che, come è noto, nel nostro ordinamento può essere sollevato soltanto in sede processuale, e questo dimostra quanto lontana dalla realtà e dalla applicabilità essa sia stata. Ma è sfuggita anche, per la prima parte del primo comma, all’intervento abrogativo del 2006 che ha abolito numerosi “reati di opinione”.

Intanto si è andato formando il curioso fenomeno linguistico, per cui la parola “discriminazione”, grazie agli slittamenti normativi che abbiamo visto e alla contiguità con pregresse questioni razziali, ha assunto il significato eccentrico onnicomprensivo di comportamento pregiudizialmente ostile e vessatorio verso le componenti ritenute più deboli della società, e quindi oggettivamente esecrabile.
Così, di equivoco in equivoco, è approdata alla evocazione di fenomeni che ogni coscienza mediaticamente istruita non al senso ma al suono delle parole si sente in dovere di combattere anche se non sa che cosa sta combattendo. Così, in assenza di un sistema normativo discriminatorio, o di effettive consuetudini sociali vessatorie verso chicchessia, ha cominciato ad aleggiare il fantasma di una diffusa quanto inafferrabile discriminazione minacciosa e incombente, quella che ha ad oggetto la minoranza oppressa degli omosessuali, gaiamente dilaganti in oceaniche sagre estive, a reti unificate sugli schermi televisivi, immancabili in qualunque produzione cinematografica, in qualunque programma educativo promosso dall’Oms per l’infanzia e dalla buona scuola per tutti.

All’atteggiamento ostile che alimenta la discriminazione e tradisce una imperdonabile avversione verso il diversamente sessuato, è stato trovato un nome adeguatamente minaccioso capace di giustificarne la repressione: è nata l’omofobia. E se l’omofobia è un male da estirpare bisogna che essa offenda un valore riconosciuto, un bene, o meglio ancora un diritto. Occorreva dare all’omosessualità un valore civile, dato che il problema etico era stato ormai messo da parte dalla stessa Chiesa costretta dai suoi vertici alla ritirata precipitosa dal fronte dei principi non negoziabili.
A Scalfarotto è bastato aggiungere ai motivi razziali che per la legge Mancino giustificano la persecuzione penale, quelli cosiddetti omofobici per confezionare lo strumento ideale capace di elevare il fenomeno omosessuale e dintorni a valore penalmente protetto e per intimidire chiunque potesse mettere in discussione tale valore.

Il disegno di legge Salfarotto ha esasperato oltre misura l’illegittimità della legge Mancino in spregio ad ogni esigenza di determinatezza del fatto punibile, che mira anche a contenere l’arbitrio o la fantasia del giudice. Il risultato pratico, oltre al controllo delle coscienze, dovrebbe essere il restringimento delle possibili scelte individuali. Significherà non poter licenziare la baby sitter lesbica, o il maestro di pianoforte in sospetto di pederastia. Mentre anche l’eccesso di legittima difesa avrebbe una valutazione molto più severa qualora ci fosse di mezzo una personale pregiudiziale “omofobica” verso l’aggressore.

Però a questo punto il piano strategico della lobby omosessualista si è fatto più articolato e sapiente. Prendere di petto la materia penale poteva comunque essere ancora prematuro. Era prematuro elevare l’omosessualità a bene giuridico penalmente protetto. Anche se la Chiesa si limitava a non giudicare, anche se il Sinodo aveva insinuato l’idea delle belle cose che si possono ricavare dalle relazioni omosessuali. Meglio passare per la via dei diritti civili ormai aperta a qualunque conquista attraverso le famose coppie di fatto tutte alle prese con assistenze ospedaliere, problemi pensionistici e deleghe condominiali. Ora che un diritto non si nega a nessuno.

Le coppie di fatto erano state il cavallo di battaglia e di Troia della cattolicissima Bindi che, portandosi dietro l’esercito dialogante dei fedeli postconciliari, aveva spianato la strada a una signora tanto devota da giurare sui propri cani, capace di dare alla democrazia e alla storia d’Italia nientemeno che il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Conquista perfetta sul piano sostanziale nonostante l’impedimento ancora formalmente presente nel codice civile.

Dunque, se l’omosessualità e i suoi derivati è titolo giuridico capace di elevare a diritto ogni pretesa di categoria, significa che essa è stata ormai assunta nella costellazione dei valori riconosciuti. Dopo questa conquista si trattava di tornare a lavorare sul fronte del diritto penale per la eliminazione definitiva di ogni resistenza, e mettere a frutto i risultati ottenuti.

Intanto, sul finire della legislatura a primavera del 2018 viene aggiunto all’articolo 604 del codice penale, già manipolato dal governo Renzi con interventi dalle conseguenze devastanti, un 604 bis e ter che puniscono la propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica o religiosa e all’articolo 604 ter prevede, come aggravante del reato commesso, la finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso.

Rispetto alla legge Mancino, il presupposto di fatto che ispira la riforma è nuovo e individuabile. Là la questione razziale era solo formale in mancanza di un problema effettivamente presente alla sensibilità collettiva. Ora i problemi connessi con la immigrazione indotta a forza nel nostro paese, ha potuto innescare reali tensioni sociali ancora latenti ma reali e che una politica fortemente ideologizzata in senso immigrazionista vuole reprimere ancora una volta ricorrendo alla minaccia penale.
Nulla di meglio per l’omosessualismo che inserirsi a rimorchio nel pertugio repressivo aperto da una politica con cui si trova in perfetta sintonia ideologica, impegnata per professione nell’antirazzismo attualizzato, ma sempre nella lotta imperitura contro l’eterno ritorno del leviatano fascista.

Ecco dunque giungere al Senato il disegno di legge già approvato in dicembre alla Camera che propone la estensione della normativa ai motivi fondati sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, equiparati ancora una volta a quelli razziali e religiosi. In altre parole, torna l’accostamento tra discriminazione razziale e quella di tipo “omofobico” che ora prende il nome di motivo fondato sul genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere.
Il presupposto “filosofico” è l’unicità del genere umano che non prevede distinzioni di sorta, sicché all’indifferentismo razziale, nazionale e religioso, corrisponde l’indifferentismo sessuale, e questo è un valore culturale da imporre a suon di anni di galera se necessario.

La macchina omosessualista ha cambiato registro. L’omosessuale è già da tempo un diversamente orientato e l’omofobia ha lasciato il campo ai motivi fondati sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Questo significa che le pretese di tutela siano ridimensionate? No, significa che il gioco si è fatto più sottile. Basti pensare che è sempre in vigore la legge Mancino con le sue aporie e che il disegno di legge Zan la include e la riutilizza secondo lo schema Scalfarotto, e non per nulla viene presentato come ddl Zan-Scalfarotto. Infatti all’articolo 3 prevede che il titolo della Mancino sia modificato con il riferimento al genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere.

In conclusione, la lobby omosessualista, dopo essersi insediata saldamente nei più importanti centri della politica nazionale e internazionale, grazie anche ad terreno culturale ideologicamente propizio e a una classe intellettuale del tutto accondiscendente, ha puntato al rovesciamento della intera base culturale della società ancorata ai principi millenari dettati dal senso comune.
Il momento, con l’eclissi del sacro in occidente e il dileguarsi del magistero della Chiesa cattolica del post concilio, era favorevole per tentare l’impresa ardita di imporre ed estendere definitivamente un dominio culturale acquistato già in via mediatica.

Si trattava di ottenere la consacrazione giuridica. Questa è avvenuta attraverso la parodia dei “diritti civili” culminanti nella parodia tragicomica della unione di tipo matrimoniale tra persone dello stesso sesso che include la tragedia vera della adozione e della fabbricazione umana in vitro.
Ma poiché l’appetito vien mangiando, l’obiettivo ultimo è l’imposizione forzata del proprio modello esistenziale ed etico alla intera collettività. Con la forza della legge penale che reprime ogni dissidenza attraverso la minaccia della sanzione. E non si tratta semplicemente, come po’ appare a prima vista, dell’attacco portato al diritto di libera manifestazione del pensiero. Questo non è garantito in via assoluta, perché conosce il limite dell’interesse superiore che il suo esercizio può andare ad offendere. Basti pensare come esso debba cedere di fronte al bene dell’onore e della reputazione personale per cui è vietata la diffamazione di chicchessia e con qualunque mezzo.

In realtà, come vorrebbe la nuova proposta di legge Zan-Scalfarotto, deve essere punito un determinato atteggiamento mentale, e persino sentimentale, come quello che viene definito il “motivo di odio”. L’odio come l’amore appartiene alla vita individuale più profonda e ai recessi insondabili della psiche umana, e deve rimanere al riparo dalle incursioni del giudizio umano. Ma se si arriva a punire, come vorrebbero questi avanguardisti della democrazia, il pensiero o il sentimento, in ragione del suo oggetto, significa che a tale oggetto deve essere attribuito un valore superiore a quello della libertà di opinione. Insomma, proprio come avviene nel caso dell’offesa all’onore e alla reputazione, o per i reati di vilipendio.

L’omosessualità e affini devono entrare, e forse entreranno senza pudore alcuno, nella costellazione dei valori superiori repubblicani, imposti manu militari dal parlamento. L’approvazione del ddl Zan-Scalfarotto segnerà la tappa decisiva per il ritorno trionfale al perfetto totalitarismo di stato è anche in virtù di un articolato sistema, di certo non meno inquietante della pena, di misure preventive e correttive da applicare al cittadino di dura cervice.
Il sistema anch’esso tipico di ogni regime con forte vocazione redentrice. La normativa in via di approvazione prevede per il trasgressore tutto un programma di rieducazione morale volta al ravvedimento operoso e al risanamento dell’offesa recata alla buona causa attraverso opere riparatorie sulle quali non è il caso ora di soffermarci. Per il momento pare escluso soltanto l’atto di dolore.

Per il popolo rieducando non si baderà a spese: potrà godere persino della “Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione”.
E non è una trovata goliardica, perché, come è noto, la Goliardia è stata seppellita tanto tempo fa dal 68. E si vede.
Patrizia Fermani

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