Troppo cruda per essere vera

30 Agosto 2011 di FABRIZIO BISCONTI
Molte pagine del "Bullettino di Archeologia Cristiana" del 1896 furono spese dal grande archeologo romano Giovanni Battista de Rossi per convincere i lettori dell'antichità di un piccolo tondo bronzeo, conservato ai Musei Vaticani e noto come medaglia di Sucessa. Il singolare pezzo, di cui rimane una copia, doveva essere annoverato, secondo de Rossi, tra "quei vetusti cristiani utensili di devozione personale e domestica" che egli raggruppò associando curiosamente monete, fibule, castoni, sigilli, medaglioni ed eulogie. Ma andò oltre: riuscì a risalire fino alla scoperta della medaglia avvenuta "nel suolo romano nel 1636" e a ipotizzare la provenienza dal santuario tiberino di San Lorenzo.
Sulla faccia che più ci interessa, infatti, sotto alla scritta Sucessa vivas, è rappresentata un'articolata scena di martirio, con tanto di supplizio sulla graticola, carnefici, magistrato, improbabile "anima orante" tra cristogrammi, lettere apocalittiche e mano divina che sostiene una corona. Il tutto - confrontato con il mosaico del mausoleo ravennate di Galla Placidia - accompagnava de Rossi verso il martirio di san Lorenzo. L'altra faccia della medaglia, come è noto, riporta il ciborio con colonne tortili, a più riprese considerato fedele immagine della sistemazione costantiniana del sepolcro di Lorenzo e, più spesso, del monumento voluto ancora da Costantino per la tomba di Pietro in Vaticano. Specialmente quest'ultima identificazione ha rinnovato l'interesse per la medaglia, facendo dimenticare i molti dubbi che, in ogni epoca, si erano addensati intorno all'autenticità del manufatto, tanto che padre Marchi aveva messo in guardia il suo giovane allievo con "un grave sospetto di moderna impostura". Ma de Rossi sembrava trovare conforto in altre medaglie conservate ai Musei Vaticani e voleva giustapporre questi presunti oggetti devozionali con le ampolle e le eulogie dei santuari d'Oriente.
Tornando alla medaglia di Sucessa, getta altra ombra sulla sua autenticità l'esagerata concentrazione di situazioni figurative desunte dal più sofisticato repertorio paleocristiano, con l'introduzione di ben due rarità iconografiche, quella del monumento costantiniano e quella della scena di martirio. Quest'ultimo particolare è quello che più ci insospettisce. L'arte cristiana della tarda antichità, infatti, così come si affaccia all'orizzonte della civiltà figurativa del Mediterraneo e dei territori d'Oriente, propone un linguaggio semplice e positivo, ispirato ai grandi temi della salvezza, estrapolati dalle Scritture, con preferenza per le grandi storie del Vecchio Testamento che vedono come protagonisti Giona, Mosè, Noè e tutte le figure legate a episodi con risvolti e soluzioni finali di tipo soterico. È così che, dal dramma relativo al diluvio universale (Genesi, 5, 28-31) viene fissato il momento estremo del disastro, con Noè nell'arca, mentre solleva le mani per ringraziare e accogliere la colomba con il ramoscello d'ulivo nel becco. È così che i tre fanciulli ebrei di Babilonia, condannati al tremendo supplizio del vivicomburium (Daniele, 3, 1-100), pur apparendo ancora tra le fiamme, già intonano canti ed elevano preghiere per esprimere la gratitudine per l'intervento divino nei confronti del "martirio scampato".
Altre storie, più sinistre e meno riconducibili a quel clima positivo che informa il repertorio figurativo paleocristiano, sembrano rappresentare delle eccezioni, se non sono considerate in maniera approfondita e propriamente esegetica. La cacciata dei protoparenti (Genesi, 3, 7), che appare, già nella prima metà del III secolo, a Dura Europos, a Napoli e a Cimitile, non va considerata nell'accezione negativa del peccato e della caduta, ma nell'acquisita consapevolezza dell'errore e nel concetto della felix culpa, ovvero nell'ineliminabile antefatto del piano salvifico divino. La generale legge della non violenza viene infranta in qualche raro caso, come negli affreschi dell'ipogeo di diritto privato di via Dino Compagni, dove si incontra la vignetta che rappresenta l'israelita Finees, che uccide l'ebreo Zamri, colpevole di essersi unito con l'idolatra madianita Cozbi (Numeri, 25, 6-8) e dove si riconosce l'episodio di Sansone che stermina i filistei con la mascella d'asino (Giudici, 15, 15-16): in ambedue i casi appare addirittura l'elemento più censurato dagli artisti cristiani delle origini, ossia il sangue.
Se puntiamo lo sguardo al di là dell'orizzonte catacombale, altri monumenti servono a infrangere il sentimento generale della non violenza che, per questo, va ormai sempre più ricondotto a un'atmosfera e non a una legge metodicamente osservata. Pensiamo alla narrazione figurata della strage degli innocenti, così come si esprime in molti sarcofagi romani e provenzali, nel famoso quadro dell'arco trionfale di Santa Maria Maggiore e nelle arti minori, per non parlare della testimonianza di Prudenzio, in una didascalia posta a commento di questa scena (Dittochaeon, 29, 113-116), assieme ad altri tituli historiarum, che dovevano commentare i quadri forse utili a decorare le pareti di un edificio di culto, relativi ad altri episodi celebri e storici di sacrificio, come quello del Battista, di Stefano e del Cristo.
Se torniamo, per concludere, alle scene di martirio (con le quali abbiamo avviato i nostri ragionamenti), anche quando ci inoltriamo nell'età della tolleranza e in quella trionfalista del pontificato damasiano, le vere e proprie scene di esecuzione e di crocefissione lasciano il posto a situazioni di vittoria, nel senso che i campioni della fede appaiono oranti, in paradiso o mentre accompagnano i defunti ordinari nell'aldilà. Ma anche in questo caso, una classe di sarcofagi romani annuncia, infrangendo la legge della non violenza, un'iconografia martiriale che, in realtà, censura i momenti inenarrabili della morte, ma fotografa quelli pure drammatici dell'arresto di Cristo e dei principi degli apostoli. Tutto ciò appare ai lati del cristogramma simbolo della resurrezione, che con forza e chiarezza avvolge questi temi difficili evitati con le dovute eccezioni per ben quattro secoli.

da l'Osservatore Romano
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alda luisa corsini
Bullettino di Archeologia Cristiana 1869, pp. 49-51: books.google.co.uk/…/Bullettino_di_a…=onepage&q=medaglia%20di%20successa&f=false
alda luisa corsini
Massimo Pallottino, mio maestro, professore di Etruscologia e fondatore della disciplina, diceva che era falsissima...
alda luisa corsini
@TommasoG A dispetto dell'opinione del mio maestro, oggi il CNR ritiene grazie alle analisi di E Formigli che sia autentica. Le raccomando questo comunicato: www.cnr.it/…/e-autentica-la-…