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gioiafelice
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Evitare la spettacolarizzazione del dolore, la morte esibita, la curiosità morbosa dell’orrore o del particolare macabro, la sofferenza reale di altri uomini registrata da un occhio virtuale e osservata …Altro
Evitare la spettacolarizzazione del dolore, la morte esibita, la curiosità morbosa dell’orrore o del particolare macabro, la sofferenza reale di altri uomini registrata da un occhio virtuale e osservata attraverso la mediazione protettiva dello schermo televisivo, costituiscono una sorta di rituale meschino.

Sono riti di esorcizzazione collettiva della sofferenza stessa, con l’idea di poterla allontanare voltando pagina o cambiando canale. Nell’era della comunicazione globale non sono più i segni su di un telo, per quanto straordinari, a documentare la realtà ineluttabile della sofferenza e della morte. Siamo investiti quasi quotidianamente da immagini di catastrofi e di guerre, di volti e di corpi straziati dal dolore e dalla violenza. Dolori documentati e filmati nei minimi particolari, spesso senza quel pudore che è quasi un riflesso istintivo di fronte al dolore e alla morte. Eppure, paradossalmente, quanto più siamo “informati” sulla sofferenza, tanto più siamo portati a rimuovere il confronto con essa.

Tale processo di rimozione avviene sostanzialmente mediante la ricerca compulsiva del piacere o della gratificazione, oppure attraverso la fuga dalla realtà, che va dall’irresponsabilità fino alla deconnessione psichica (sostanze stupefacenti, abuso di alcol). Si tratta, in fondo, della riproposizione di atteggiamenti per nulla nuovi (il carpe diem), ma in maniera sempre meno tematizzata e consapevole, è perciò anche praticati più diffusamente e in forme spesso eccessive. In epoca senz’altro più recente a questi meccanismi di rimozione si è venuta ad aggiungere una fiducia – che a volte va oltre il legittimo e il giusto - nel potere della scienza, specialmente della medicina e delle biotecnologie. Così si è fatta strada la convinzione, quanto meno ingenua, che l’uomo possa essere padrone pieno e assoluto della salute e della vita e che, in un futuro neppure lontano, possa addirittura eliminare il dolore e la sofferenza. Purtroppo, questa fiducia eccessiva nel potere della tecno-scienza assume spesso connotazioni ideologiche, portando con sé come conseguenza anche la critica aprioristica e ingiustificata ad ogni argomentazione di tipo metafisico o religioso nei confronti della vita umana e dell’esperienza della sofferenza, con le prevedibili conseguenze di smarrimento per l’uomo. Tuttavia, né i vari meccanismi di rimozione, né la fiducia incondizionata nella tecno-scienza riescono a mettere l’uomo al riparo dall’esperienza del soffrire. Anzi, la delusione per la mancata onnipotenza della scienza e il fallimento dei vari tentativi di esorcizzazione della sofferenza, di compensazione e di fuga, rende spesso ancora più drammatica l’esperienza di chi soffre. In ultima analisi, la delusione per il fallimento di ogni rimedio e la mancanza di un contesto culturale e relazionale capace di confrontarsi con la sofferenza hanno l’effetto di rendere questa esperienza umana ancora più dolorosa, perché vissuta come qualcosa di assurdo e di inutile. La rimozione culturale della sofferenza non riesce, dunque, ad eliminare realmente la sofferenza dalla vita dell’uomo, anzi la acuisce perché la priva di un orizzonte di senso e la chiude alla possibilità della speranza. In un contesto culturale siffatto, tutti diventiamo pian piano più superficiali, sordi verso la sofferenza e incapaci di aprire davvero la nostra vita a chi soffre, rivolgendogli il nostro sguardo fraterno. La sofferenza si pone dunque come un mistero: mistero non tanto e non solo come realtà che sfida la ragione umana – quindi come qualcosa che in fondo resta sconosciuto –, ma come realtà che ci trascende, che si fa sentire come più grande di noi, che non è pienamente dominabile, di cui non riusciamo a disporne totalmente, e che si riassume nel vertice della morte fisica.

Per il credente, il mistero della sofferenza pone una radicale domanda su Dio: “Se il male e la sofferenza esistono, come può Dio essere nello stesso tempo onnipotente e buono?” Non è possibile dare risposta alla questione teologica posta dal dolore umano se non lasciandosi istruire dalla storia di Gesù nella quale ci è rivelato e dato Dio stesso. Va inoltre osservato che lo smarrimento del senso di Dio rende ancora più acuto il dolore dell’uomo.

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