Si vuole cambiare il Padre Nostro per cambiare il senso della Liturgia

Si vuole cambiare il Padre Nostro per cambiare il senso della Liturgia

PUBBLICATO 16 novembre 2018 da cronicasdepapafrancisco

Non diremo nulla di nostro (neppure la cover che ci è stata gentilmente girata), ma vi lasceremo esaminare le riflessioni di Sacerdoti liturgisti, partendo con questa premessa, il cui testo integrale troverete qui: Quanto sta accadendo fu già denunciato da Leone XIII prima, da Pio XII e da Benedetto XVI poi come “archeologismo esegetico della Scrittura” nel Documento Verbum Domini, dove leggiamo: “San Girolamo ricorda che non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo facilmente nell’errore… Un’autentica interpretazione della Bibbia deve essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica. Così san Girolamo si rivolgeva ad un sacerdote: «Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono».” (n.30)

Per chi volesse, qui troverete il testo integrale di san Tommaso d’Aquino, una Lectio sul Padre Nostro e su quel “non indurci in tentazione” che noi, ovviamente, non cambieremo mai!

IL RETROSCENA

Sulle traduzioni si gioca il futuro della liturgia
del 27-02-2017

Con un colpo di mano l’ala progressista in Vaticano sta mettendo mano alle traduzioni della Bibbia e della liturgia, aggirando le disposizioni dell’istruzione Liturgiam authenticam. La posta in gioco è di sostanza perché attraverso le parole viene comunicata l’immagine di Dio e l’atteggiamento con cui l’uomo si rivolge a Lui.

Messale

«Se non pronunciate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate di-cendo?» (1Cor 14,8). Le “parole chiare”, che san Paolo raccomandava alla comunità di Corinto – alla lettera “di un buon segno”, cioè “ben decifrabili” -, riguardano non solo la pronuncia, ma anche la comprensibilità linguistica. È a partire da qui che la Chiesa ha curato le traduzioni della Bibbia e della liturgia, perché «la parola di Dio vuole interpellare l’uomo, vuole essere da lui compresa e avere una risposta comprensibile, ragionevole» (J. Ratzinger, Il Dio vicino. San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, p. 71).

Per quanto riguarda la liturgia, tale movimento si è andato intensificando sino a un livello critico e polemico, come la notizia dei giorni scorsi di una nuova commissione per rivedere l’Istruzione Liturgiam authenticam (del 28 marzo 2001), che regola i principi e i modi di tradurre i testi liturgici, mettendo da parte addirittura il prefetto del dicastero competente, cioè il cardinal Robert Sarah: un colpo di mano dell’ala progressista! Cerchiamo di capire.

Anzitutto il fedele italiano ignora che cosa sia Liturgiam authenticam, non avendone sperimentato né i benefici né i (presunti) disastri. Infatti il Messale italiano in uso (del 1983 con alcune integrazioni) è stato tradotto dall’edizione tipica latina del 1975 e i criteri della traduzione erano regolati dalla precedente Istruzione Comme le prévoit (25.1.1969).

Dopo il Messale italiano del 1983, il Messale tipico latino ha avuto una terza edizione del 2000 con una ristampa emendata del 2008. Bisognava dunque rivedere il Messale italiano alla luce di questa terza edizione, che comportava testi aggiunti e altre modifiche. Ma la revisione era postulata anche dal fatto che nel frattempo Liturgiam authenticam, tenuto conto di certi difetti delle traduzioni, aveva riformulato i criteri per la traduzione dei testi liturgici.

Da parte della Chiesa italiana tale lavoro di revisione iniziò quasi subito, ma, trascorsi quasi 15 anni – e sono tanti -, il nuovo Messale non è ancora uscito, per cui viene da pensare che non sia uscito perché qualcuno ha manovrato perché non uscisse. E a questo punto è ipotizzabile che a tempi brevi non uscirà, in quanto la nuova traduzione dovrebbe vedere la luce più o meno in contemporanea all’uscita di un documento che riformula i criteri per le traduzioni, per cui il povero Messale, appena uscito, sarebbe da rivedere…

A questo punto il fedele cattolico si trova confuso ed estraniato. In realtà la questione tocca proprio lui senza che l’interessato se ne accorga. Perché? Perché ad oggi quando va a Messa è destinatario di una traduzione uscita nel 1983 ed elaborata fine anni ’70 e inizio anni ’80, sostanzialmente fedele ma abbastanza “liberale”; se poi, invece di una traduzione più fedele, è in arrivo una revisione con criteri più innovativi, immaginarsi il risultato. A questo punto la posta in gioco non è di letteratura, ma di sostanza, in quanto attraverso le parole viene comunicata l’immagine di Dio e viene plasmato l’atteggiamento dell’uomo che si rivolge a Lui (come stare davanti a Dio, come lodarlo, che cosa chiedergli ecc.).

Oggi si vuole rivedere Liturgiam authenticam perché i suoi criteri sarebbero troppo stretti, perché c’è bisogno di un linguaggio nuovo e – sostiene qualcuno – anche di gesti nuovi e poi perché… è espressione “anche” di un clima restaurazionista di san Giovanni Paolo II, aiutato in questo “anche” dall’allora card. Joseph Ratzinger e dal card. Jorge Medina Estévez, firmatario di Liturgiam authenticam. Quanti allora non digerirono l’Istruzione, oggi o sono nella stanza dei bottoni o ricevono benevola udienza da chi dimora in quella stanza. Ovvio il tentativo della rivincita, credendo onestamente di aver subìto un sopruso, di aver ragione e di far avanzare la Chiesa nella fedeltà all’uomo e a Gesù Cristo. È capitato tante volte nella storia, sia da destra che da sinistra. Però, senza negare questo fattore, bisognerebbe sforzarsi di guardare la realtà.

Ora un sano atteggiamento verso la realtà è di lasciar parlare Liturgiam authenticam, troppo spesso taciuta nel dibattito. Che cosa dice? Tante cose che non interessano l’Italia, ma anche tante altre sulla traduzione e dunque sul linguaggio liturgico che interessano tutti i cattolici e che qui condenso in 5 punti.

1. Esattezza formale della traduzione. La traduzione è un aspetto della «opera di inculturazione» (n. 5), però «non sia un’opera di innovazione creativa, quanto piuttosto la trasposizione fedele e accurata dei testi originali in lingua vernacola» (n. 20). E qui Liturgiam authenticam chiede una traduzione che rispetti il più possibile le parole e le frasi così come sono: questo è il metodo delle “equivalenze formali”, contrapposto al metodo delle “equivalenze dinamiche”, che invece tende a tradurre con parole e frasi di oggi ciò che con parole antiche recepì il destinatario di ieri. Tanto per fare un esempio, la traduzione biblica a equivalenze dinamiche rende il termine paolino “carne” con “egoismo”, certo facilitando, ma perdendo un mucchio di sfumature. Liturgiam authenticam, rispettando lo Spirito, la tradizione della Chiesa e il destinatario, mette in guardia dal seguire una strada così disinvolta.

2. Legittimità di una lingua liturgica e di uno stile liturgico. A quanto sopra si potrebbe obiettare che, pur usando termini comprensibili, il risultato sarebbe un linguaggio che si discosta dal modo abituale di comunicare. Ebbene, Liturgiam authenticam prende il toro per le corna e ricorda che espressioni poco consuete (ma comprensibili), possono essere ritenute più facilmente a memoria e anzi possono sviluppare nella lingua odierna uno «stile sacro» (n. 27), «dove i vocaboli, la sintassi, la grammatica siano propri del culto divino» (n. 47). Ecco un’altra presa di posizione: è normale ed è positivo per chi ascolta che esista un linguaggio del culto e uno stile sacro, che, pur comprensibili, non vanno ridotti al modo abituale di comunicare.

3. Traduzioni né ideologiche né soggettive. I libri liturgici devono essere «immuni da qualsiasi pregiudizio ideologico» (n. 3) e non sempre le attuali traduzioni lo sono. Ad esempio la Liturgia delle Ore rende “instaurare omnia in Christo” con “fare di Cristo il cuore del mondo”, espressione che trasuda di Teilhard de Chardin († 1955): con quale autorità si impone il pensiero di Teilhard a migliaia di oranti? Di più: i testi tradotti non sono funzionali ad essere «in primo luogo quasi lo specchio della disposizione interiore dei fedeli» (n. 129). Il che significa che non bisogna addolcire o aumentare i testi solo per venire incontro a ciò che si desidera oggi – ad esempio aggiungendo un “giustizia e pace” dove non c’è -, poiché il testo della preghiera della Chiesa è una proposta che va oltre le nostre attese e i nostri gusti e così facendo ci costringe a rettificarci e ad arricchirci. Di nuovo, i paletti di Liturgiam authenticam, prima di essere severi, sono promozionali per il popolo di Dio e lo preservano dalle dittature ideologiche e sentimentali.

4. Le parole giuste e varie. Alla varietà di vocaboli del testo originale «corrisponda, per quanto è possibile, una varietà nelle traduzioni» (n. 51). Qui si citano due casi: il primo è l’antropologia: “anima, animo, cuore, mente, spirito” andrebbero tradotti come sono, compresa “anima” che i traduttori aggiornati vorrebbero abolire o comunque limitare. L’altro esempio sono i modi di rivolgersi a Dio: Signore, Dio, Onnipotente ed eterno Dio, Padre ecc. La fedeltà della traduzione ci veicola un giusto concetto di Dio e aumenta il senso di rispetto e adorazione nel rivolgersi a Lui. Ciò che non sempre è capitato nelle traduzioni: ad esempio gli anni ’70 hanno prodotto in un ordine religioso delle orazioni che iniziavano con un “Tu o Dio”. Mi domando se ci si rivolgerebbe così a un impiegato al di là dello sportello.

5. Rispettare la sintassi originale. Questo è il punto più contestato e – si capisce – più decisivo: siano conservati, per quanto è possibile, la relazione delle frasi in «proposizioni subordinate e relative», la «disposizione delle parole», i «vari tipi di parallelismo» (n. 57a). Oggi tendiamo a parlare sparando delle frasi accostate: è il linguaggio della pubblicità e della comunicazione virtuale. La liturgia tende invece a collegare le frasi mettendole in ordine armonico tra di loro; soprattutto una richiesta non è generalmente formulata per prima, ma dipende da una precedente memoria delle meraviglie operate da Dio, che plasmano la richiesta stessa. Questo ordine e questa bellezza del linguaggio è ciò che il mondo classico ha prodotto e che la liturgia trasmette a tutti.

Ecco, è un poco tutto questo che si vuole rivedere e ripensare (accantonare? scartare?), creando un nuovo linguaggio più secondo l’uomo di oggi.

Quanto sopra richiederebbe ulteriori approfondimenti, ma il lettore che ha avuto il coraggio di arrivare fin qui, sarà stanco, per cui rimando a un prossimo intervento.

si legga dello stesso Autore anche: – PADRE NOSTRO, UNA TRADUZIONE TANTI SIGNIFICATI, di padre Riccardo Barile OP

SULLA CORRETTA TRADUZIONE
Padre nostro, l’importanza della tentazione
di mons. Nicola Bux

Durante la veglia di sabato del Papa con i giovani, Francesco è tornato a parlare dell’annosa questione della traduzione corretta del Padre Nostro nel passaggio “Non ci indurre in tentazione“. Il Papa ha detto: “Nella preghiera del Padre Nostro c’è una richiesta: ‘Non ci indurre in tentazione’. Questa traduzione italiana recentemente è stata cambiata, perché poteva suonare equivoca. Può Dio Padre ‘indurci’ in tentazione? Può ingannare i suoi figli? – ha chiesto – Certo che no. Infatti una traduzione più appropriata è: ‘Non abbandonarci alla tentazione’. Trattienici dal fare il male, liberaci dai pensieri cattivi….A volte le parole, anche se parlano di Dio, tradiscono il suo messaggio d’amore. A volte siamo noi a tradire il Vangelo”.

Fin qui il Papa. Come stanno le cose? In merito al “non ci indurre in tentazione”, vanno menzionati innanzitutto tre brani:

Ecco io rendo ostinato il cuore degli Egiziani, così che entrino dietro di loro e io dimostri la mia gloria sul faraone…”(Es 14,17). Qui è il Signore che induce all’ostinazione; “Ecco,dunque, il Signore ha messo uno spirito di menzogna sulla bocca di tutti questi tuoi profeti, perché il Signore ha decretato la tua rovina...”(1 Re 22,23). Qui è il Signore che induce alla mistificazione; “E per questo Dio invia loro una potenza d’inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità” (2 Tess 2,11-12). Qui è il Signore che induce all’inganno.

Nella I domenica di Quaresima, la “domenica delle tentazioni di Gesù” la Liturgia Horarum secondo il Novus Ordo, propone la lettura di sant’Agostino a commento del salmo 60, di cui riportiamo il brano seguente: “…la nostra vita in questo pellegrinaggio non può essere esente da prove e il nostro progresso si compie attraverso la tentazione. Nessuno può conoscere se stesso se non è tentato, né può essere coronato senza aver vinto, né può vincere senza combattere; ma il combattimento suppone un nemico, una prova.

Pertanto si trova in angoscia colui che grida dai confini della terra, ma tuttavia non viene abbandonato. Poiché il Signore volle prefigurare noi, che siamo il suo corpo mistico, nelle vicende del suo corpo reale, nel quale egli morì, risuscitò e salì al cielo. In tal modo anche le membra possono sperare di giungere là dove il Capo le ha precedute.

Dunque egli ci ha come trasfigurati in sé, quando volle essere tentato da Satana. Leggevamo ora nel vangelo che il Signore Gesù era tentato dal diavolo nel deserto. Precisamente Cristo fu tentato dal diavolo, ma in Cristo eri tentato anche tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione, da sé la tua gloria, dunque perse da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria.

Se siamo stati tentati in lui, sarà proprio in lui che vinceremo il diavolo. Tu fermi la tua attenzione al fatto che Cristo fu tentato; perché non consideri che egli ha anche vinto? Fosti tu ad essere tentato in lui, ma riconosci anche che in lui tu sei vincitore. Egli avrebbe potuto tenere lontano da sé il diavolo; ma, se non si fosse lasciato tentare, non ti avrebbe insegnato a vincere, quando sei tentato”
(Commento al Salmo 60,3; CCL 39,766).

Pertanto, Dio non può abbandonarci alla tentazione, ma ci può indurre ovvero tentare in Colui nel quale, per il battesimo, siamo stati trasfigurati e quindi possiamo vincere.

San Tommaso D’Aquino, nel suo Commento al Padre nostro, dopo aver premesso che Dio ‘tenta’ l’uomo per saggiarne le virtù, e che essere indotti in tentazione vuol dire consentire ad essa, scrive: “In questa (domanda) Cristo ci insegna a chiedere di poterli evitare (i peccati), ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato,e ci fa dire: ‘Non ci indurre in tentazione’.“[…].

L’Aquinate poi, chiarito che la carne, il diavolo e il mondo tentano l’uomo al male, annota che la tentazione si vince con l’aiuto di Dio, in quale modo? “Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione”[…]. Infine, si chiede: “Ma forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: ‘non ci indurre in tentazione’? Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista: ‘Non abbandonarmi quando declinano le mie forze’ (Sal 71[70],9). E Dio sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato“.

A questo si deve aggiungere anche il commento al Padre nostro di Ratzinger, dalla trilogia delle sue opere.

Quindi, secondo questi autori conserva tutto il suo senso la petizione “et ne nos inducas in temptationem“: il testo latino corrisponde esattamente all’originale greco del Nuovo Testamento. Il punto focale è prendere in considerazione tutta la Rivelazione biblica, nella quale Dio si manifesta in modo “cattolico”: etimologicamente, secondo la globalità dei fattori, che caratterizzano la vicenda umana e che non sfuggono in alcun modo a Lui, se è vero il detto: non muove foglia che Dio non voglia.

Del resto, non dice Giobbe: se da Dio abbiamo accettato il bene, perché non dovremmo accettare il male? Dio ha dato, Dio ha tolto: sia benedetto il nome del Signore. E Gesù: tutti i capelli del vostro capo sono contati. Per questo, Dio è cattolico….

si legga dello stesso Autore, sempre sul Padre Nostro, anche qui.

si legga qui di un altro sacerdote: TRADURRE O INTERPRETARE?

CHIESA NEL CAOS
Non solo il Padre nostro, il personalismo liturgico divide

di Stefano Fontana – 17.11.2018


Si stanno facendo troppi cambiamenti nella Chiesa che disorientano e angosciano. Lo vediamo nella modifica del Padre Nostro (che anch’io continuerò a recitare come prima), ma anche a messa. Ognuno si comporta come meglio crede. Invece l’unità del rito esprime l’unità della Chiesa.

Molti amici e conoscenti mi dicono che non reciteranno la nuova formula del Padre Nostro ma continueranno a dire le parole tradizionali: “non ci indurre in tentazione”. Il vescovi italiani hanno approvato la nuova versione durante la loro assemblea generale, ma è certo che dei fedeli – pochi o tanti che siano – non si atterranno alle nuove disposizioni. Perché? Per molti motivi: perché si stanno facendo troppi cambiamenti nella Chiesa che disorientano e in qualche caso angosciano, perché molti teologi e filologi dicono che il cambiamento non è giustificato ed anzi è controproducente, perché i vescovi in questo momento non brillano per autorevolezza e così via. Fatto sta che molti non si atterranno al nuovo Padre Nostro. A prescindere per il momento dal merito del contendere, ossia dalla correttezza teologica e filologica del cambiamento e dalla sua opportunità liturgica, mi pongo la domanda se i vescovi abbiano tenuto conto di un aspetto della questione, ossia che un’altra divisione tra i fedeli durante la liturgia domenicale si aggiungerà alle tante già presenti.

Partecipare alla Santa Messa ormai vuol dire riscontare i più svariati atteggiamenti liturgici dei presenti. Non mi riferisco agli abusi e agli eccessi, nonostante siano ormai molto frequenti. Mi riferisco alle messe celebrate, diciamo così, in modo accettabile. Anche in questi casi si nota la grandissima varietà di partecipazione.

Durante la consacrazione c’è chi rimane in piedi e chi si inginocchia. Tra coloro che si inginocchiano la maggior parte si rialza in piedi alle parole “Annunciamo la tua morte e la tua resurrezione…” e un’altra parte, più esigua ma non insignificante in alcune zone, rimane inginocchiata fino alla grande preghiera sacerdotale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo…”. Nel caso nella chiesa non ci siano gli inginocchiatoi – situazione ormai molto frequente – c’è chi si inginocchia per terra in evidente contrasto visivo con cui è rimasto in piedi.

Al momento della preghiera “Signore non son degno…” alcuni si inginocchiano nuovamente mentre la maggioranza rimane in piedi. Nell’accedere alla comunione c’è chi prende l’Ostia consacrata in mano, chi la prende in bocca ma rimanendo in piedi e chi la prende in bocca ma inginocchiandosi, qualche donna la prende indossando il velo. La maggioranza dei fedeli prende la comunione da tutti coloro che la distribuiscono, compresi i ministri straordinari, ma alcuni pensano ancora che l’Ostia consacrata possa essere presa in mano e distribuita solo dal sacerdote (che ha mani consacrate) e quindi vanno a prenderla solo da lui. In qualche caso ho anche notato che qualche fedele si sposta di fila quando si accorge che a distribuire non è il sacerdote ma un laico o una laica.

Durante la recita del Padre Nostro molti hanno preso l’abitudine di aprire le braccia come fa il sacerdote sull’altare in atteggiamento orante, mentre molti altri non lo fanno. Ci sono dei canti liturgici che hanno delle parole talmente strampalate che qualcuno si rifiuta di cantarle, facendo selezione dei canti. Spesso alle preghiere dei fedeli si invita a pregare per cause molto improprie e qualcuno non si associa alla preghiera. D’altro canto è ormai diffusissima la scelta della chiesa ove trovare una celebrazione accettabile, sicché i fedeli si dividono sia nella stessa messa tra chi si comporta in un modo e in un altro, sia tra chiesa e chiesa.

A questa situazione di divisione o di differenziazione, in ogni caso di mancanza di unità nella liturgia, ora si aggiungeranno le due ultime novità: ci sarà chi non reciterà la nuova formula del Gloria e del Padre Nostro. Tra costoro ci sarò anch’io. Anche io continuerò a chiedere a Dio di non indurmi in tentazione. Però nessuno è soddisfatto di questa situazione.

La liturgia attorno al sacrificio dell’altare in qualche modo ci associa alla eterna liturgia di lode che le anime beate rivolgono a Do insieme agli angeli, alla Vergine Maria e ai santi. Ora, non credo che la lode celeste a Dio non sia univoca e all’unisono perché in quella dimensione Dio è ”tutto in tutti” e le anime beate lo vedono “così come Egli è”. L’unità nel rito, assumere gli stessi atteggiamenti, pronunciare le stesse parole, rispettare gli stessi tempi compresi i silenzi, volgere lo sguardo verso gli stessi luoghi, essere orientati tutti verso lo stesso punto esprimono l’unità della Chiesa intera, pellegrinante e trionfante, a Dio che sull’altare rinnova la creazione.

Fonte: cronicasdepapafrancisco.com/…/si-vuole-cambia…