Fatima.
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SANTI PIETRO E PAOLO, Apostoli

Valtorta - Epistola di Paolo ai Romani - 1 settembre 1950 ed. Cev

«Non può quindi dirsi che Dio non abbia misericordia e giustizia anche per Israele. Attende. Da secoli, dopo averlo preparato da secoli ad accogliere il Cristo e a riconoscerlo per tale, da secoli attende che Israele torni sulle vie della Verità e della Vita per aprirgli le braccia e il Regno.
Buono col popolo colpevole, Iddio; come buono l’Apostolo venuto da quel popolo (Romani 11,1), amato da esso sinché fu di quel popolo e fedele sino al fanatismo (1 Timoteo 1,13: Atti 8,3; Galati 1,13-14; 1 Corinti 15,9; Filippesi 3,6) delle idee di quel popolo, e poi schernito e odiato da esso come un rinnegatore della Legge ebraica e un disertore della Sinagoga e della stirpe.
Paolo, buono perché vero seguace, servo e apostolo di Cristo (Tito 1,1), di cui ha accolto ogni insegnamento, e specie quello sulla carità, così in contrasto col suo temperamento focoso e duro ma che predicò e praticò eroicamente, piegando e spezzando se stesso e il suo io sino a farsi, di questa lotta tra la natura e la volontà, un martirio intimo, incruento, ma non meno doloroso, dice: “Il voto del mio cuore e la preghiera che faccio è che siano salvati, perché so che hanno lo zelo di Dio ma non secondo la cognizione del vero e, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio”.
Paolo dunque, esperto del peccato e delle cause che costituivano il peccato degli ebrei che non si vollero sottomettere alla giustizia di Dio, per averlo commesso egli stesso prima della folgorazione sulla via di Damasco (Atti 9,1-19; 22,1-16; 26,9-18; Galati 1,11-24), dà giusti nomi, anche se palesemente non li dice, alle passioni non buone che traviano Israele, e riconosce che esse sono le stesse che preclusero l’Eden e il Paradiso, per secoli, ad Adamo, così come per secoli precluderanno il Paradiso agli ebrei. Esse sono ancora una volta i frutti concupiscenti nati dal veleno sparso dal Serpente per corrompere i due Innocenti (Genesi 3). Sono superbia, disubbidienza, avarizia.
Colui che è, aveva detto a Mosè suo profeta: “Io sono il Signore Dio tuo. Non avere altri dèi, perché Io sono un Dio geloso” (Esodo 20,2-6). Aveva, per secoli e per mezzo dei profeti venuti poi, invitato il suo Popolo a riconoscere il Messia, nella sua verità di Salvatore e Re celeste, di Re dei re e Signore dei signori, Verbo del Padre e Verità eterna, quindi degno d’essere adorato come Dio, venerato come Santo dei santi, ascoltato ed ubbidito nei suoi insegnamenti. Ma questi insegnamenti, e la stessa umiltà di aspetto e condizione del Cristo, urtavano il concetto che di Esso s’erano fatto i superbi ebrei, e soprattutto urtavano il loro abito morale.
Si sentivano “dèi”, non per santità di vita ma per potenza di potere. Erano i Principi dei Sacerdoti. Erano i Farisei, gli Scribi, gli Erodiani, i Sadducei. Gesù era solo “il falegname di Nazaret” (Matteo 13,55; Marco 6,3). Essi tenevano lezioni nel Tempio. “Sedevano sulla cattedra di Mosè” anzi, come dice il Cristo nel 2° v. del 23° di Matteo. Gesù aveva avuto per 30 anni a cattedra il banco del falegname di Nazaret: Giuseppe; per altri tre anni, eccetto brevi apparizioni al Tempio nelle feste comandate e rare lezioni in qualche sinagoga, aveva avuto per cattedra e Tempio e sinagoga le vie, i boschi, le rive dei laghi o dei fiumi, le piazze dei mercati, i cortili di povere case, per lo più, qualche volta quelli delle ricche dimore di Lazzaro (Giovanni 12,1-11), Giovanna (Luca 8,3) e pochi altri amici elevati di grado.
Per coloro che tutto facevano consistere nell’esteriorità e nell’opulenza, questa umiltà d’origini, di carattere, di vesti, di luoghi, di insegnamento, erano tanti motivi, anzi: tanti pretesti, per non riconoscere nel figlio del falegname di Nazaret il Figlio di Dio a il Messia promesso.
Egli aveva insegnato l’umiltà, e con la parola e con l’esempio (Matteo 11,29), scegliendo fra il popolo umile i suoi apostoli, e del più ignorante e rozzo, ma buono nella volontà, facendone il Capo, la Pietra, il Continuatore e il Pontefice primo (Matteo 16,13-19; Luca 22,31-32; Giovanni 21,15-17) Uno solo fra i dodici aveva somiglianze di pensiero, di gusti, di carattere, con coloro che sedevano sulla cattedra di Mosè. E fu quello solo che lo tradì (Matteo 10,4; 26,20-25.47-50; 27,3-5 e //).
Sia nei capitoli 18° di Matteo che nel 9° di Marco e di Luca e ancora nel 10° di Marco e Luca, Egli, il Maestro di infinita Sapienza, aveva detto, presentando un fanciullo ai suoi eletti: “Se non diverrete umili come questo fanciullo, non entrerete nel Regno dei Cieli. Il più piccolo (umile), quello è il più grande agli occhi di Dio. Il quale tiene nascoste le cose eccelse ai sapienti e intelligenti e le rivela ai piccoli per la loro umiltà” (Matteo 11,25; 18,1-5 e //).
Prima ancora di Gesù, divina incarnata Parola di Dio, la Piena di Grazia e di Spirito Santo, fatta già, anche materialmente, “una sol cosa” con Dio, per essere incinta del divino Verbo, aveva cantato: “Dio ha disperso i superbi, rovesciato il trono dei potenti, ed ha esaltato gli umili” (Luca 1,51-52). E, in verità, era Dio stesso che parlava dalle labbra di Maria. In verità era l’eterno Verbo, chiuso, piccolo embrione che si vestiva di carne, nel suo seno verginale, che poneva questa verità che poi, fatto Uomo e adulto, avrebbe tante volte predicata sulle labbra della Madre, Sede della Sapienza.
E con queste lezioni aveva indicato come si può divenire sapienti e maestri di sapienza, nonché figli del Regno, figli di Dio, santi del Cielo.
Altre volte, e nel c. 22° di Matteo e nel 14° e 18° di Luca, aveva insegnato che non tutti i chiamati restano eletti quando, montati in superbia, mancano verso il Re benevolo, e come i primi posti nel Regno e nel convito celeste sono per chi sulla Terra fu umile e caritatevole verso i poveri, e come è grata a Dio la preghiera dell’umile e spregiata quella del superbo che si giudica perfetto solo perché ha l’esteriorità della Legge.
Il Maestro parlava per tutti. Ma chi aveva presente, chi era indicato sotto il velame delle parabole e delle lezioni? Pietro: l’umile che fu esaltato per la sua umiltà semplice e buona; Giuda di Keriot, che fu abbassato per la boria, la concupiscenza triplice (1 Giovanni 2,16), l’esteriorità della Legge e dell’amicizia al Cristo, il calcolo di adulto e adulto astuto per cui anche un sospiro era fatto con duplice fine. Pietro: il fanciullo, anche se adulto, al quale fu dato il Regno spirituale come Papa (Matteo 16,13-20) e quello celeste come santo. Giuda: il sapiente vanaglorioso, il quale, per esser divenuto malevolo al Re infinitamente benevolo, fu gettato fuori dal Regno di Dio nel buio e nel tormento infernale.
Occorrerebbe meditare il Vangelo e i caratteri degli apostoli, molto più profondamente di quanto generalmente non si faccia. Se ne ricaverebbero risposte e luminose lezioni atte a guidare gli spiriti di buona volontà sulle vie della vera Sapienza che conduce al Cielo.
Ma i Farisei, Scribi e Sacerdoti, non potevano, perché superbi, fare questo, né volevano farlo perché si riputavano perfetti nella Sapienza. Ho detto (24 luglio 1950) e ripeto: “Possedevano la conoscenza perfetta della lettera della Sapienza, ma erano assolutamente privi dello spirito della Sapienza. Quindi non possedevano la verità, la luce per vedere la verità, la carità per avere la luce dell’amore ad illuminare le verità della Legge d’amore”. Avevano zelo, ma zelo sbagliato perché fuori della carità, e quindi della verità, sul come essere zelanti nel servizio di Dio. Avevano una loro propria giustizia, tutta umana (Matteo 5,20), da loro stessi datasi, alla quale non sapevano rinunciare, perché rinunciarvi voleva dire piegare il capo, spogliarsi dei propri abiti morali per accogliere altri dettami di una giustizia non consona ai loro gusti, amanti degli onori e delle supremazie.
E da chi proposta? Da un popolano galileo. Vero era che costui si professava Figlio di Dio e faceva opere (Lc 24,19-20; Giovanni 10,37-38) e aveva lezioni da Dio. Ma poteva il superbo Israele accettare ciò che veniva da un uomo di umile condizione, se pur sapendo, per certa verità storica, come Mosè avesse ricevuto tra folgori e fuochi divini la Legge del Sinai (Esodo 19,16-21; Deuteronomio 5,1-22) e ogni altro ordine, e pur sapendo come Dio avesse rivelato le cose future e messianiche ai Profeti aveva sostituito alla Legge prima, semplice, perfetta, tutto un codice di precetti umani che, mentre scaricavano i potenti dai pesi, opprimevano i poveri, il piccolo popolo, e se, in luogo del Messia spirituale così come era stato presentato nelle profezie, s’era costruita l’idea di un Messia umano, conquistatore per Israele di tutta la Terra? Non poteva.
E quindi non si sottomise alla giustizia di Dio, che lo stesso Dio, non più tra le folgori e ad un solo Mosè ma a tutto il Popolo, per bocca di Gesù, suo Verbo, e con lungo e chiaro insegnamento, era venuto ad inculcare alle genti perché ogni credente divenisse un giusto e avesse la Vita eterna e il Regno di Dio (Giovanni 20,30-31).»