Facci: altro che proteste, gli studenti sono una Casta

Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia

Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta.
Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo.
Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico.
Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato.
Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano.
Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
di Filippo Facci

(Liberoquotidiano.it)
Maurizio Muscas
Due lauree brevi o Lauree vere ? 🤨
mosè
Pagliacciate.... quelle che scrivete. Io ho conseguito 2 diplomi di laurea, lavorando e studiando. Vengano premiati coloro che vogliono impegnarsi per migliorare il lavoro e la qualità della vita e non vengano fatti proclami altisonanti come questi che poi danneggiano quelli come me che la laurea se la sono sudata e poi hanno dovuto continuare a fare un altro lavoro di ben più basso profilo. Dite …Altro
Pagliacciate.... quelle che scrivete. Io ho conseguito 2 diplomi di laurea, lavorando e studiando. Vengano premiati coloro che vogliono impegnarsi per migliorare il lavoro e la qualità della vita e non vengano fatti proclami altisonanti come questi che poi danneggiano quelli come me che la laurea se la sono sudata e poi hanno dovuto continuare a fare un altro lavoro di ben più basso profilo. Dite questo e non queste stupidaggini, che non faranno che alimentare il consenso di coloro che vorranno che chi vuol fare l'università se la paghi interamente di tasca propria e potranno così accedere solo i ricchi. Tacciano gli ignoranti e coloro diffondono false notizie e buttano nel calderone tutti, come stanno facendo certi politici, nuovi o vecchi che siano. Così non viene alimentata la libertà, ma viene progressivamente tolta libertà, che dovrebbe consentire a tutti di emanciparsi, non solo nel mondo della scuola, ma trovare riscontro nel mondo del lavoro, dove ahimè prevale invece la cultura della giungla, ma di questo è silenzio assoluto... Basti a pensare al termine che viene usato dai giornalisti e politici: mercato del lavoro. Il termine mercato usato impropriamente per evidenziare uno scambio o utilizzo di persone come cose.
🤒