Chi sono io per giudicare (e cambiare) le parole di Gesù?

(di Don Gabriele Mangiarotti)

In questi giorni è apparso sul Corriere della Sera lo stralcio di una intervista a Mons. Sergio Pagano in cui egli esprime alcune considerazioni sulla traduzione del Padre Nostro inserita nella liturgia. Credo utile riflettere per mantenere la fedeltà all'insegnamento di Gesù.
Mi è capitato di leggere, suggerito da un post su Facebook, una intervista sul Corriere della Sera [Corriere della Sera – La Lettura, 18 febbraio 2024] a S.E. Mons. Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio apostolico vaticano, a proposito della traduzione del Padre Nostro, inserita recentemente nella liturgia. E mi sono trovato perfettamente d’accordo.
«Mi è dispiaciuto il modo in cui è stato cambiato il Padre nostro, e anche i termini del cambiamento deliberato. Anzitutto il modo. Era fino a ieri saggia norma nella Chiesa, e speriamo che torni a esserlo in futuro, che, quando si trattava di ostacoli o difficoltà che si possono incontrare riguardo al testo della Sacra Scrittura, sia greco-latino, sia anche nelle lingue volgari, e che possono causare sconcerto nei fedeli, che prima di cambiare bisognasse sempre spiegare. Che il passo del Padre nostro “non ci indurre in tentazione”, così tradotto già nelle prime versioni in lingua italiana, e tradotto ottimamente dal testo latino, fin dal XVI secolo, creasse qualche difficoltà al senso comune dei fedeli che lo recitavano, è cosa scontata… secondo il modo di parlare della Scrittura Santa, quando si parla di Dio, indurre in tentazione non vuol dir altro se non permettere che uno sia tentato o sia vinto dalla tentazione. Più chiaro di così. Spiegato così il testo, non occorreva alcun cambiamento, anche in italiano. Per la Sacra Scrittura la Chiesa ha avuto sempre una venerazione, la definisce Parola di Dio. E se è di Dio, come possiamo noi cambiarla? Studiarla, comprenderla, ma non cambiarla. Chi ha operato questo sventurato cambiamento, almeno tale a mio modo di vedere e con il dovuto rispetto, ha studiato le fonti? Si è reso conto della incoerenza scritturale del cambiamento rispetto al passo dei Vangeli sinottici… Siamo proprio certi che questo cambio delle parole del Pater sia un progresso? Io, per mio conto, continuo a dire il Pater in latino, così sorpasso a piè pari quel brutto cambiamento».

Quello che colpisce è che in tutte le traduzioni della Sacra Scrittura che ho consultato (visto che questa traduzione è stata proposta nella nuova versione della Bibbia ad opera della CEI) si fa notare la discrepanza tra il testo scritturistico e la traduzione stessa. Per non parlare degli studi approfonditi di padre Carmignac, un maestro di una competenza assoluta (basti qui ricordare lo studio di Roberta Collu, Il Padre Nostro e i rotoli di Qumran nel lavoro scientifico di Jean Carmignac per comprendere la giusta lettura e comprensione di questa straordinaria preghiera, considerata dai Padri della Chiesa come la compiuta e originale introduzione all’essenza del pregare cristiano).

Mi auguro che le domande e le problematiche suscitate da mons. Pagano ci aiutino a comprendere meglio il significato della preghiera che ci ha insegnato Gesù stesso. E faccio mie le preoccupazioni espresse a partire dal titolo stesso della chiara intervista: «Se la Scrittura è la Parola di Dio, si tratta di spiegarla e interpretarla, ma non si può modificarla a piacere». Del resto proprio la traduzione «non abbandonarci alla tentazione» (che poi non è traduzione ma interpretazione) non mi pare risolva il dubbio che ha interrogato da sempre gli esegeti: come può Dio indurre? La Sua è una azione che spinge a peccare? Se nell’ipotesi dell’origine aramaica si può tradurre «non farci entrare» oppure «fa’ che non entriamo» e solo la seconda possibilità può essere attribuita a Dio, l’«abbandonarci a» non rischia di essere equivalente al «non farci entrare», attribuendo così a Dio stesso la possibilità di metterci nella tentazione stessa?

La questione non si risolve invocando soltanto una obbedienza cieca e supina, paventando addirittura una opposizione al magistero papale. È vero, mi pare, che «prima di cambiare bisogna sempre spiegare» e purtroppo qui ci accorgiamo che il compito si fa difficile, e sembra più facile imboccare scorciatoie mettendo a tacere le domande critiche (e questa è oramai una consuetudine troppo diffusa, da parte di chi dovrebbe «confermare i fratelli»).

E poi sorge un’altra domanda. Come si spiega la diffusione capillare di questa nuova traduzione (e le altre presenti nella liturgia) al punto che mantenere l’uso antico sembra una forma di contestazione e di disobbedienza alla Chiesa stessa, mentre per quanto riguarda questioni più decisive che implicano una concezione corretta della fede, siamo di fronte alle più svariate opinioni? Pensiamo all’aborto, alla eutanasia, all’impegno dei cristiani in politica, alla presenza nella educazione…

Non sarà che siamo stati tutti «abbandonati» a quel pensiero non cattolico di cui parlava già il santo Paolo VI nella sua intervista a Jean Guitton: «Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia».

E se il «piccolo gregge» ci ricordasse che la fedeltà alla parola del Signore è più che la ripetizione di una brutta traduzione del Padre Nostro, ma la testimonianza di quella fede che, «se non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta»?

Come conclude Mons. Pagano, che ha appena pubblicato un libro-intervista sul suo lavoro nell’Archivio Apostolico Vaticano (Secretum): «Io non sono nessuno, ovviamente, ma torno a ripetere che esprimo solo il mio parere personalissimo, perché mi è lecito esprimere un parere. E da studioso non posso ammettere una traduzione del genere perché tradisce il senso originale dell’orazione insegnataci da Gesù».

Chi sono io per giudicare (e cambiare) le parole di Gesù?