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In preparazione alla Festa di San Matteo, Apostolo ed Evangelista

[Gesù parla presso il banco di Matteo]

È una mattina di mercato in Cafarnao. La piazza è piena di venditori di ogni e più disparata merce.

[...]

Sono giunti presso al banco della gabella. Pietro fa per pagare. Gesù lo ferma e dice: «Dammi le monete. Pago Io, oggi». Pietro lo guarda stupito e poi dà una borsa di pelle con dei soldi.

Gesù aspetta il suo turno e, quando è di fronte al gabelliere, dice: «Pago per otto corbe di pesce di Simone di Giona. Le corbe eccole là, ai piedi dei garzoni. Verifica, se credi. Ma fra onesti non dovrebbe che bastare la parola. E credo tu mi creda tale. Quanto è la tassa?».

Matteo, che era seduto al suo banco, al punto in cui Gesù dice: «Credo che tu mi creda tale», si alza in piedi. Basso e già anzianotto, su per giù come Pietro, mostra però il viso stanco del gaudente ed una palese confusione. Sta a capo chino sul principio, poi lo alza e guarda Gesù. E Gesù lo guarda fisso, serio, dominandolo con tutta la sua imponente statura.

«Quanto?», ripete Gesù dopo un poco.

«Non vi è tassa per il discepolo del Maestro», risponde Matteo. E a voce più bassa aggiunge: «Prega per l’anima mia».

«La porto in Me, perché raccolgo i peccatori. Ma tu… perché non la curi?». E Gesù gli volge le spalle subito dopo, tornando a Pietro che è trasecolato di stupore. Anche altri sono trasecolati. Bisbigliano, ammiccano…

Gesù si pone addossato ad un albero, a un dieci metri da Matteo, e inizia a parlare.

«Il mondo è paragonabile ad una grande famiglia i cui componenti fanno mestieri diversi e tutti necessari. Vi sono gli agricoltori, i pastori, i vignaiuoli, i carpentieri, i pescatori, i muratori, gli operai del legno e del ferro, e poi gli scrivani, i soldati, gli ufficiali destinati a speciali missioni, i medici, i sacerdoti. Di tutto c’è. Non potrebbe il mondo esser fatto di una sola classe. Tutte necessarie, tutte sante, se tutte fanno ciò che devono con onestà e giustizia. Come si può giungere a questo se Satana tenta da tante parti? Pensando a Dio che tutto vede, anche le opere più nascoste, e alla sua legge che dice: “Ama il tuo prossimo come ti ami, non fargli ciò che non vorresti a te fatto, non rubare in nessun modo”.

Dite, o voi che mi udite: quando uno muore, porta forse seco le borse dei suoi denari? E anche se fosse così stolto da volerle seco nel sepolcro, le può forse usare nell’altra vita? No. Le monete divengono metalli corrosi sulla putredine di un corpo disfatto. Ma la sua anima altrove sarebbe nuda, più povera del Giobbe beato, priva del più piccolo quattrino, anche se qui e nella tomba essa avesse lasciato talenti e talenti. Anzi, udite, udite! Anzi in verità vi dico che con le ricchezze difficilmente si acquista il Cielo, ma anzi generalmente con esse si perde il Cielo, anche se ricchezze onestamente avute o per eredità o per guadagno, perché pochi sono i ricchi che sanno usare giustamente delle ricchezze.

Che occorre allora per avere questo Cielo benedetto, questo riposo nel seno del Padre? Occorre non essere avidi di ricchezze. Non avidi nel senso di volerle ad ogni costo, anche mancando ad onestà e amore. Non avidi nel senso che, avendole, si amino più del Cielo e del prossimo, negando carità al prossimo che è bisognoso. Non avidi per quanto le ricchezze possono dare, ossia donne, piaceri, ricca mensa, vesti di sfarzo che sono offesa a chi ha freddo e fame. Vi è, sì, vi è una maniera per cambiare le monete ingiuste del mondo in valuta che vale nel Regno dei Cieli. Ed è la santa furbizia di fare delle ricchezze umane, sovente ingiuste o causa di ingiustizia, delle ricchezze eterne. Ossia guadagnare con onestà, rendere ciò che ingiustamente si ebbe, usare dei beni con parsimonia e distacco, sapendosene separare, perché prima o poi essi ci lasciano – oh! pensare questo! – mentre il bene compiuto non mai più ci lascia.

Tutti vorremmo esser detti “giusti” e tali esser creduti, e come tali premiati da Dio. Ma come può Dio premiare chi solo ha nome di giusto ma non ha le opere? Come può dire: “Ti perdono”, se vede che il pentimento è solo verbale, ma non accompagnato da vero mutamento di spirito? Non vi è pentimento finché dura l’appetito per l’oggetto per cui peccammo. Ma quando uno si umilia, quando uno si mutila del membro morale di una mala passione, che può chiamarsi donna o oro, dicendo: “Per Te, Signore, non più di questo”, ecco allora che veramente è pentito. E Dio lo accoglie dicendo: “Vieni, mi sei caro come un innocente ed un eroe”».

Gesù ha finito. Se ne va senza neppure voltarsi verso Matteo, che è venuto presso il cerchio degli ascoltatori sin dalle prime parole.

[...]

(Maria Valtorta, “L'Evangelo come mi è stato rivelato”, 95.3-4)

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