Anatemi nel mondo antico e nel Tabulario di San Filippo di Fragalà

di Shara Pirrotti in Sicilia Antica

I saggi d’Israele facevano dipendere la realizzazione dei loro progetti dalla benedizione del Signore: «Chi è benedetto da Dio possiederà la terra», recita il salmo 37, 22. Colui che invece si allontanava dal Signore e disprezzava la sua parola era destinato a una pessima fine: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore. Egli sarà come un tamerisco nella steppa […]. Dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere».

Nella Bibbia, il significato della ‘benedizione‘ e ‘maledizione’ divina è meglio specificato nel Deuteronomio, contenente le prescrizioni di Mosè riguardo alla vita religiosa e sociale del popolo ebraico dopo l’insediamento in Palestina, fondate sull’antica Alleanza stipulata da Jahvè con gli uomini: la benedizione scaturisce dalla fedeltà all’alleanza e porta con sè vita e prosperità; la maledizione deriva dall’infedeltà all’alleanza, e significa morte, sventura. In virtù di questa Alleanza i poveri ed i deboli possono rivolgersi a Dio per chiedere giustizia e vendetta contro i loro oppressori. E’ questo lo scopo dei cosiddetti ‘Salmi imprecatori’, come il 58 (7-9): «Spezzagli, o Dio, i denti nella bocca […] Si dissolvano come acqua che si disperde, come erba calpestata inaridiscano. Passino come lumaca che si discioglie, come aborto di donna che non vede il sole». O il 137 (8-9): «Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra». La storia del cristianesimo, d’altra parte, è fin dalla Genesi cosparsa di maledizioni divine: contro il serpente, contro Adamo, contro Caino: «Ora sii maledetto lontano da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». In quest’ultimo passo, la ‘maledizione divina’ comporta l’emarginazione del peccatore, espressa nel rifiuto della stessa terra di produrre frutti: da un mondo che Dio ha creato bello e giusto, Caino per la sua colpa deve andare via, condannato a vagare nel mondo appunto ‘ramingo e fuggiasco’.

Nel Vangelo, Gesù lancia le sue maledizioni più volte: contro Giuda, contro chi scandalizza i bambini, contro i Farisei. Ed anche il Giudizio Finale, è contrassegnato, per i malvagi, da una maledizione: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli».Nell’Antico Testamento la maledizione causava l’esclusione dalla comunità eletta e talvolta anche la condanna a morte; nel Nuovo non comporta più un castigo fisico, ma mantiene lo stesso significato di distacco e separazione, com’è evidente in molti passi di San Girolamo e San Paolo, dove la maledizione è espressa con il termine greco ‘anáthema’, lanciato, per esempio nella prima lettera ai Corinzi, contro coloro che sovvertono il vangelo di Cristo. L’angoscioso senso di isolamento dal contesto positivo e per sua natura aggregante della società è quindi alla base del concetto cristiano di ‘anáthema’, che venne quindi utilizzato come efficace strumento di controllo e protezione della religione. L’uso di maledizioni a protezione di un accordo o un alleanza non fu però soltanto prerogativa della cristianità, ma è attestato fin dal 2460 a. C., nella più antica epigrafe, la sumerica “Stele degli Avvoltoi”, che concludeva: «Qualora io trasgredisca (questo giuramento), Eresckij, il cui nome [io ho pronunziato] faccia mordere il piede di Umma da serpenti […] Qualora Umma (oltrepassi questo fosso) di confine, Eresckij spinga via la terra da sotto il suo piede ». E nel più antico trattato politico, sempre del 2400 a. C., stipulato tra il sovrano di Ebla e il re sconfitto di Abarsal, in cui si minacciavano i trasgressori che intraprendessero un viaggio di non trovare acqua e di non tornare salvi.

Stele degli Avvoltoi

Riguardo al termine anáthema, è interessante rilevare che originariamente esso designava l’offerta deposta presso il tempio di una divinità, consistente per lo più in frutta, focacce, animali, ma anche statue e armi, ‘dedicati’ agli dei in ringraziamento per una vittoria o altro avvenimento favorevole, al duplice scopo di ricordare il potere della divinità e la religiosità del donatore, il quale in tal modo meritava e aveva il diritto di richiedere ulteriore protezione. In un luogo del Vangelo di Luca (21.5), si descrive il tempio di Gerusalemme ornato di belle pietre e, appunto, di anathémasin, cioè di doni votivi. Progressivamente si differenziarono due forme del lemma, per le quali quella con eta, la forma classica, mantenne il significato di ‘offerta ex voto agli dei’, mentre quella più recente con epsilonperdette la valenza originaria e si restrinse all’accezione di ‘maledizione’. Il passaggio di significato da ‘cosa levata in alto’ e perciò ‘offerta votiva’, ‘cosa dedicata’, a ‘maledizione’, avvenne presumibilmente perchè i traduttori greci dell’Antico Testamento utilizzarono anáthema per tradurre l’ebraico ḥērem («consacrato»), interpretandolo come «offerto a Dio per lo sterminio» e quindi «oggetto di maledizione». L’evoluzione linguistica è spiegabile col fatto che la sfera del sacro ha sempre mantenuto, dall’antichità, la duplice valenza di “soprannaturale” e di “terrificante, spaventoso”. Lo stesso isolamento sacrale degli antichi sacerdoti e dei monaci incuteva nell’uomo comune un timore non solo reverenziale; anzi, in talune religioni i ‘saggi’, che assumevano in parte le funzioni proprie dei sacerdoti, promanavano un’aura malefica: «Dove i saggi rivolgono lo sguardo, vi è morte e distruzione», recita il Talmud babilonese. Il termine anáthema fu adoperato, con il significato di ‘maledizione’, anche nella letteratura a partire da Omero, ed è attestato in Plutarco, in grammatici e lessicografi, come il Lessico di Esichio e la Suda, in saggisti medievali, come Evrard de Bethune, ed in esponenti della letteratura italiana, da Petrarca a Manzoni. Al di là degli esempi ‘colti’, contemporaneamente, molti semplici cittadini li adoperavano per lo più per sfogare rancori personali o per proteggere le proprie cose. I primi Cristiani solevano lanciare anatemi per impedire profanazioni di tombe o contaminazioni delle proprie ossa o dei propri congiunti con quelle di altri cadaveri: «Se qualcuno dei familiari o un estraneo oserà seppellire un corpo qui, accanto a noi due, lo giustifichi a Dio ed abbia l’anatema. Maranathà». In questa iscrizione del IV secolo, come spesso accadeva, la parola greca anáthema era accompagnata dall’aramaica ‘maranathá’: quasi un gioco di parole, che inizialmente significava «Vieni Signore (e compi la tua giustizia)», e che col passare del tempo non venne più tradotto, diventando incomprensibile, ma efficace, nella sua oscura sonorità, come una formula magica, al pari di ‘abracadabra’. Anche i monaci, come vedremo, ricorsero a formulari criptici e onomatopeici come deterrenti per eventuali illeciti ai propri danni. Rispecchiando la concezione teocentrica medievale, l’anáthema, dunque, costituiva non solo un efficace mezzo di difesa, ma anche di potere, perché da formula originariamente destinata a separare il miscredente dalla comunità dei fedeli, divenne per i gruppi religiosi strumento di controllo e predominio sulle masse.

Concilio di Nicea

La componente spettacolare, pubblica e popolare, era condizione essenziale per l’efficacia dell’ anáthema, così come era necessario che fosse chiaramente inteso. La Bibbia infatti prescrive: «Non maledirai il sordo, nè metterai inciampo davanti al cieco, ma temerai il tuo Dio. Io sono il Signore». Non potevano cioè essere maledetti nè i ciechi, nè i sordi, né gli handicappati in generale, perchè non potevano intendere fino in fondo tutte le conseguenze che le loro azioni scriteriate avrebbero causato: l’isolamento da tutta la società, anzi dall’intero universo, rompendo per sempre l’unione tra lui e Dio, tra lui e i suoi simili, tra uomo e natura. E se il verbo anathematízo compare per la prima volta ai Concili di Elvira (300 circa) e di Nicea (325) contro i pagani e gli ariani, fu al concilio di Gangra (343), che venne adoperata per la prima volta la formula «Se qualcuno […] sia anatema», adottata in tutti i Concili successivi e riprodotta puntualmente nei documenti medievali da Oriente a Occidente. Per esempio, nella cosiddetta grande «prima» Bibbia di San Marziale di Limoges, del X secolo, in cui si lancia un anáthema perchè tutti i santi, gli angeli e le potenze celesti, e soprattutto san Marziale, confondano e distruggano i nemici del monastero: «Che siano dannati in città. Che siano dannati nei campi. Che siano dannati all’interno e all’esterno delle loro case. Che siano dannati in piedi e seduti. Che siano dannati riposando e camminando. Che siano dannati addormentati o svegli. Che siano dannati mentre mangiano e mentre bevono. Che siano dannati nei castelli e nelle campagne. Che siano dannati nelle foreste e nelle acque. Che le loro donne e i loro bambini e quelli della loro famiglia siano dannati». La maledizione prosegue poi sui frutti del loro lavoro: le cantine, le botti, il vasellame per bere e mangiare, i vigneti, i raccolti, le foreste, gli animali da traino e da stalla. «Che il Signore li perseguiti col caldo e col freddo, Che il cielo al di sopra della loro testa si faccia di rame e la terra sulla quale camminano di ferro. Che essi perdano ciò che hanno e non possano ottenere ciò che non hanno. Che siano devastati dalla spada all’esterno e dalla paura all’interno […] Possa il Signore inviare su di loro grandi flagelli e malattie terribili e persistenti, a meno che non cambino comportamento […] Se essi non desiderano cambiare, che ricevano allora da Dio e da san Marziale la dannazione all’inferno con il diavolo e i suoi angeli, che brucino con Dathan e Abiran nel fuoco eterno. Amen Amen. E che così ogni ricordo di essi sparisca per sempre e sempre». Un altro documento francese dell’XI sec., oltre alle maledizioni in ogni parte del corpo, citando il salmo 108 aggiunge: «Sia maledetto dal sole, dalla luna, dalle stelle, dagli uccelli, dai pesci, dai quadrupedi, dalle erbe, dagli alberi e da tutte le creature. Il suo cadavere in pasto ai cani ed ai rapaci. Siano orfani i suoi figli e vedova sua moglie. Che i figli siano tremanti accattoni». Dal XII secolo in poi, l’anátema venne definitivamente assimilato alla ‘scomunica maggiore’, come veniva considerato nella chiesa bizantina: se cioè, la scomunica “di primo grado” impediva di poter ricevere i sacramenti, l’anátema comportava, come si è detto, l’esclusione totale dalla società dei fedeli, e con tale significato venne poi accolto nel diritto moderno. Ne è significativo esempio l’anátema lanciato dal Vescovo di Rochester contro chi avesse osato attentare ai beni della sua chiesa, integralmente trascritto nell’originale latino in uno degli affascinanti romanzi di Laurence Sterne: « Lo maledica Dio Padre che creò l’uomo; lo maledica il Figlio di Dio che soffrì per gli uomini […] Lo maledica la santa Croce che Cristo per la nostra salvezza innalzò» […]E ovviamente lo maledicano la Madonna, San Michele, tutti gli angeli e arcangeli, principati e potestà, milizie celesti, patriarchi, profeti, san Giovanni Battista, San Pietro e San Paolo, gli evangelisti, i martiri e, perché no?, anche i cori delle sacre vergini consacrate a Dio disprezzando il mondo, e tutti i santi cari a Dio fin dall’inizio della creazione. E per non farsi mancare niente lo maledicano anche i cieli e la terra e tutte le cose sacre che in essi esistono. «Sia maledetto ovunque sarà, in casa, nei campi, per strada, lungo i sentieri, nei boschi, in acqua, in Chiesa. Sia maledetto mentre vive, muore,[…] mangia, beve, ha fame, ha sete, digiuna, dorme, sta sveglio, quando cammina e quando sta fermo, quando è seduto e quando è coricato, quando lavora e quando riposa, mentre urina, defeca, si fa fare un salasso. Sia maledetto in tutte le forze del corpo, dentro e fuori. Sia maledetto nei capelli, nel cervello, nella testa, nelle tempie, nella fronte,nelle orecchie, sopracciglia, occhi, guance, mascelle, narici, denti, incisivi e molari, labbra, gola, spalle» e giù fino ai piedi passando da ogni organo per lasciare privo di salute «ogni parte del corpo dalla cima del capo fino alla pianta del piede». Non si può certo affermare che il peccatore non fosse avvertito! I monaci comunque non si limitavano a lanciare puri avvertimenti, nè attendevano passivamente l’intervento divino, nel quale pure credevano fermamente, ma iniziavano subito a mettere in pratica la maledizione, negando allo scomunicato ciò che ardentemente si aspettava da loro, e cioè la preghiera per la sua anima, rifiutando di svolgere per lui la funzione di trait d’union tra il cielo e la terra, tra il mondo dei vivi e quello dei morti, riconosciuta ufficialmente da ogni credente e strato sociale, dal più umile al sovrano. Negavano cioè al nemico contro cui avevano lanciato un anátema il loro ruolo attivo di mediatori nel progetto di salvezza dell’umanità, indispensabile per l’uomo medievale, il quale riteneva di non potersi salvare da solo. Senza la negoziazione dei monaci, l’anatema avrebbe consegnato l’anima dei colpevoli al diavolo e all’Inferno, luogo che per l’uomo del Medioevo era particolarmente temibile. Il contributo dei monaci nella società medievale, elargito con generosità a ricchi e poveri, era infatti «come il consiglio di Dio, ripieno d’ogni sapienza e d’ogni vantaggio: messo in pratica, conduceva a sicuro esito buono; rifiutato, apportava pericolo all’anima e nocumento al corpo». Questa credenza gettava nell’angoscia l’uomo del Medioevo, il quale non usciva dai confini della concezione teologica del mondo nemmeno quando si allontanava dalla ortodossia per cadere nell’eresia. A ciò si aggiunga l’estrema suggestione, la magia esercitata dalla parola, il verbum creatore dell’universo, efficace e vincolante nell’Europa medievale quanto l’azione. Il ricorso all’anátema, dunque, può considerarsi una pratica magica, apotropaica, amuletica, difensiva, che doveva terrorizzare, ridurre all’ubbidienza, sottomettere il peccatore, molto simile ai malefici di maghi e streghe. Per queste finalità la ‘popolarità’ dell’anatema si incrementò in Europa tra il X e il XII secolo, parallelamente al tramonto della fiducia nella giustizia pubblica, per scomparire quasi del tutto nel secolo successivo, non senza aver fatto ricorso a suggestioni patristiche o classiche, che rispecchiavano la cultura del compilatore, dell’autore o del notaio. Il più potente degli abati siciliani del XII secolo, l’archimandrita di Messina, aveva espressamente, tra le altre facoltà, quella di lanciare anatemi. Per esempio, Nephon, compiendo le sue visite tra il 1328 e il 1336, a proposito di S. Pietro e Paolo “De Afro”, è molto chiaro: «Ordiniamo, in potere dell’obbedienza e della punizione suddetta, che a nessuno dei monaci sia consentito di uscire dal monastero senza il permesso del categumeno per un anno, nè di portar via qualunque bene del monastero. Anatemizziamo entrambi, il ladro e colui che esce senza permesso, che siano scomunicati dal canone e fuori legge». E aggiunge «là occorre piegare il nostro collo perchè l’anatema sia sopra tutte le cose».

Zona Falcata dove sorgeva l’Archimandritato del Santissimo Salvatore di lingua Phari

Nei documenti medievali, si ricorre all’anáthema anche per tutelare l’ambito meramente economico, connesso essenzialmente ai beni fondiari e alla determinazione dei confini, secondo un uso già dell’antica Roma, dove si facevano sacrifici al dio Terminus, nume tutelare dei confini, e della legislazione longobarda e, ancor prima, delle steli confinarie, particolari documenti amministrativi in calcare o pietra dura egiziane, siriane o mesopotamiche dei secc. XIV-VII a. C., aventi generalmente la funzione di precisare l’estensione e l’ubicazione di un appezzamento di terreno, il motivo del suo possesso e le eventuali esenzioni di cui il fondo e i suoi beneficiari godevano: gli stessi scopi, quindi, perseguiti in età medievale dalla maggior parte dei documenti di monasteri e chiese in lingua latina e greca, come quelli relativi, per rimanere in ambito siciliano, alla chiesa di S. Maria di Valle Giosafat, alla chiesa di Catania, alla chiesa di S. Maria di Licodia; uno fra tutti l’instrumentum judiciale dei conti Simone e Giorgio di Antiochia, forse del 1142, che si conclude con l’anátema tradizionale: «Se in futuro qualcuno dei figli o degli eredi di Gilberto Perolli […] abbia l’anátema, e sia escluso dalla comunione dei fedeli, maledetto dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo». Secondo precise esigenze strutturali della diplomatica normanno-sveva, gli anatemi erano posti alla fine del testo, dove si inserivano di norma due tipi di clausole: una penale, tipicamente bizantina, che ingiungeva di non molestare in alcun modo la controparte, minacciando appunto anatemi, o risarcimenti pecuniari, nei confronti dell’emittente trasgressore o di chiunque altro osasse violare i patti stabiliti; la seconda, detta di ‘corroborazione’, augurava che l’atto fosse eterno: per esempio, la pergamena 18 del Tabulario di San Filippo di Fragalà, del 1182, chiude con la formula: «E così rimangano le cose soprascritte da me concesse al santo monastero, indisturbate fino alla fine del mondo. Amen».

San Filippo di Fragalà

Proprio nel Tabulario di Fragalà, da noi dettagliatamente studiato e descritto in due volumi pubblicati nel 2008 e nel 2012, sono presenti circa una dozzina di anatemi all’interno di pergamene emanate tra il 1090 ed il 1488, cioè tra la rifondazione normanna, voluta dal Gran Conte Ruggero all’interno del suo progetto filomonastico, e gli ultimi anni di vita del cenobio in autodespotia, prima che fosse sottoposto alla commenda. Fin dalla sua fondazione, il cenobio nebroideo ottenne concessioni territoriali, immunità fiscali ed ampi poteri giurisdizionali, diventando, come è scritto in una pergamena greca di età federiciana, «la cappella del mio padrone assoluto imperatore». Questa stato di prosperità terminò con l’istituzione del regime commendatario, che contribuì all’alienazione della proprietà monastica e alla decadenza religiosa. Per mantenere nel corso degli anni i possedimenti del monastero, l’abate pro-tempore dovette produrre numerose ‘carte’ che confermassero i diritti, la proprietà terriera e minacciassero gli eventuali contravventori. Gli anatemi più frequenti contengono la maledizione divina e lo sdegno del sovrano, secondo la formula di un diploma del 1091: «Se però anche qualcuno sarà trovato reo di infrangere questo sigillo, da noi si attirerà non poco sdegno, ed avrà ancora l’anátema dal Padre, dal Figliuolo e dallo Spirito Santo. Così sia». Più dettagliatamente, Ruggero I faceva scrivere nella parte greca della pergamena bilingue del 1090, con cui concedeva all’abate Gregorio piena libertà, immunità e privilegi: «Chiunque poi sarà trovato reo di assoggettare questo monastero del santo e glorioso apostolo Filippo sotto altrui dominio e potere, abbia l’anátema dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, e dai 318 Padri santi ispirati da Dio ed abbia da me non poco sdegno». La concessione era confermata nella postilla in latino dal figlio Ruggero II: «e chiunque li privi di questa libertà sia scomunicato da Dio onnipotente, dal Padre e dal Figlio e dallo Spirito santo e da tutti i santi». L’anátema citato dei 318 Padri divinamente ispirati fa riferimento agli autori del «canone dei 318 santi Padri», i quali nel 325 proclamarono il cosiddetto “simbolo Niceno”, fondamentale per il cristianesimo, per il quale Cristo è generato, non creato, della stessa sostanza al Padre. Il che significava per i contemporanei che, se lo sdegno del sovrano poteva impensierire, un anátema lanciato da questi saggi e santi prelati, per di più in numero così elevato, 318, non avrebbe lasciato scampo a nessuno. Dello stesso tenore è la clausola di un altro documento di Ruggero del 1092: «Se poi sarà trovato qualcuno reo di violare questo sigillo, si attirerà da noi non poco sdegno e sarà privato del nostro amore e ancora di quello dei nostri eredi e successori». Allo sdegno smisurato, come fa intuire la litote, si aggiunge qui la privazione dell’amore del re e dei reali, ossia la caduta in disgrazia del malcapitato, il che, come chiarisce in modo più esplicito un diploma del 1097, rinnovato da Adelasia nel 1110, avrebbe causato effetti pratici spiacevoli: «Chi volesse contravvenire, si attirerà la grave pena del nostro sdegno nel corpo e nelle sostanze». Con la stessa implacabilità la traduzione in vernacolo di un diploma del 1105 promette la pena capitale ai contravventori degli accordi: «Et non pocu sarrà ala ira mia hi li manchi la vita». Il consueto, pernicioso, smisurato sdegno delle loro Maestà ricorre nella parte latina e in quella dialettale di un diploma bilingue del 1168 di Guglielmo II e Margherita, con cui gli ultimi sovrani normanni confermavano e intendevano proteggere l’autonomia del monastero dalle autorità civili e religiose locali. In particolare, si legge nella parte in siciliano: «Pri ben hi alcuna persuna parissi turbandu oi impeditandu li bestiami di lu dictu monasteru, oi persicutandu, oi chercandu erbaxu di loru, oi hi altra cosa non solum sarra amancatu di li cosi soi, ma etiam sustinirà la ira, oi ottangirà di la nostra signoria».
Più fantasiosi e originali si rivelano gli anatemi nei diplomi di privati. Primo fra tutti l’abate Gregorio il quale, nella parte conclusiva del secondo dei suoi testamenti, ammonisce i potenziali trasgressori attingendo ad una reiterata sequenza onomatopeica magico-sacrale di effetto indubbiamente terrificante: «Se poi qualcuno, spinto da seduzione infernale, tenterà di distruggere il mio fatto e convalidato testamento, di separare i sopradetti metochia dal grande monastero di San Filippo, o di richiedere ai miei familiari e ai mie eredi le proprietà ereditate dai miei parenti e consacrate a questa chiesa, o di scacciare il successore prescelto da me in questo monastero, e distruggerà la regola disposta dai Santi Padri, avrà la maledizione dei padri divinamente ispirati, e anátema e catanátema e pantanátema e la mia personale maledizione». Sopravvissuto alle «molte effusioni di sangue degli atei Saraceni», l’abate aveva collaborato con il Granconte alla ricostruzione e all’ingrandimento del suo cenobio, gravemente danneggiato dalle circostanze belliche che avevano affermato in Sicilia la dominazione normanna: egli è dunque coautore della prosperità e potenza di San Filippo. Il suo testamento è importante sotto molti aspetti: principalmente è un esempio di typikòn, cioè di regolamento, strettamente riservato a quella specifica comunità monastica, che molto spesso si modellava, come in questo caso, sul Typikòn del grande riformatore Teodoro Studita. Ma il testamento di Gregorio è prezioso anche come testimonianza della sopravvivenza del culto cristiano durante la dominazione araba; come compendio della consistenza patrimoniale del monastero; come attestazione della parte attiva svolta dai nobili ‘familiari’ del re nell’opera di ricostruzione promossa dal Granconte all’indomani della conquista normanna; come ritratto di un’organizzazione monastica strutturata gerarchicamente, con regole e modalità precise, quale era la realtà del monachesimo greco del Valdemone nell’XI secolo. Di questo importante testamento Gregorio redasse tre versioni: la prima doveva fissare le norme per la successione alla carica di abate e per la gestione del monastero e può datarsi al 1096-1097. La seconda fu redatta perché l’erede designato, il nipote Blasio, aveva deciso di partire per la Terrasanta. Gregorio, preoccupato da una simile decisione, pensò di fissare dettagliatamente per iscritto tutti i beni e i metochia di san Filippo, affinchè non avvenissero in futuro confusioni e usurpazioni, per la mancata conoscenza dei fatti da parte di chi avrebbe sostituito il nipote. La sanctio contenuta nella seconda redazione, quindi, doveva intimorire e scoraggiare quanto più possibile dall’intraprendere qualsiasi iniziativa lesiva dell’equilibrio socio-economico-culturale ottenuto grazie agli sforzi congiunti di Gregorio e delle autorità normanne. Per questo l’abate ricorre a una frase singolare, misteriosa, quasi uno scioglilingua, di cui si intuisce l’intento chiaramente apotropaico e particolarmente minaccioso: anáthema, catáthema e pantanáthema. L’ultimo lemma sembra evidentemente un rafforzativo di anáthema, perchè la maledizione dell’abate doveva investire tutti i momenti e i luoghi della vita del contravventore; il termine catàthema è invece attestato in altri luoghi, come in un’iscrizione incantatoria dell’isola di Cipro del III sec. d. C. che recita: «Seppellirete le cose prescritte per l’incantesimo che riduce al silenzio(catathématos)». Catathema è usato raramente, con lo stesso significato di anáthema, anche in alcuni testi cristiani, nel vangelo di Matteo, in cui Pietro, all’atto del rinnegamento, érxato katathematízein («cominciò a maledire») e anche nell’Apocalisse (22,3). Nel testamento di Gregorio il sostantivo catáthema è stato utilizzato come variante intensiva di anáthema con una sfumatura più ostile; forse è una forma sincopata di catanáthema, che potrebbe tradursi verosimilmente con controanátema. La terza redazione del testamento datata, come la seconda, al 1105, è un sunto della precedente destinato alle alte personalità normanne che continuavano a sovvenzionare il monastero, alle quali Gregorio, rinnovando la propria gratitudine, chiedeva nuove rassicurazioni ai successori di Ruggero I, qui definito mégas, soprattutto da parte di quello che lui chiama néos kómes, il figlio Ruggero. Nella prima e terza redazione del testamento, quindi, essendo diverse le finalità rispetto alla seconda stesura, gli anatemi presenti sono solo quelli rituali (i 318 padri e la propria maledizione). Anáthema, catáthema e pantanáthema, trascritte e pronunciate di seguito, suonano invece come una minaccia più suggestiva, concreta e sinistra. Non inferiore all’intimidazione contenuta in un documento del 1122, con cui il signore di Mistretta prometteva, insieme al solito «anatema dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo e dai 318 Padri» anche «lo strangolamento di Giuda» a «chiunque tra i miei figli o altri, in qualunque tempo, mostrerà di turbare o irritare questo monastero». Questo è l’unico riferimento, nel Tabulario di Fragalà, a Giuda che viene strangolato dalle sue colpe, la cui citazione si trova abbastanza spesso dagli inizi del XII secolo in vari documenti, per esempio del monastero di Santa Maria di Gala, della Cattedrale di Palermo, della chiesa di Cefalù e della cattedrale di Messina; così come in alcune epigrafi funerarie cristiane contro i violatori del sepolcro, o in iscrizioni coeve su edifici o ponti. Anche numerose bolle papali contengono maledizioni che fanno frequentemente riferimento al fatto di «bruciare nel fuoco eterno con Giuda traditore». Ritornando alla donazione del signore di Mistretta, Matteo Creun, se ne fece una seconda copia in un’altra pergamena probabilmente coeva, forse per promemoria: data la differente funzione, vi è annotato soltanto «l’anatema dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo». Una pergamena greca del 1182 contiene un anátema ricco di suggestioni bibliche, come di solito, ma anche di reminiscenze eschilee, che lo rendono particolarmente drammatico e toccante: «E se mai qualcuno in qualche occasione o tempo sarà giudicato reo di voler sovvertire o sottrarre le proprietà di cui sopra alla santa chiesa, sia maledetto dal Signore onnipotente e dai 318 santi Padri ispirati, sia soggetto all’anatema, abbia poi anche la lebbra di Giese e il suo destino sia con coloro che crocifissero il Signore, un fiero avvoltoio lo divori ed acque profonde lo inghiottano; e non sia dato a lui il tempo di organizzare le sue cose, ma per repentina e prematura morte la sua anima esca dal corpo». Come dire, non sarebbe bastato il pentimento tardivo e, magari, una donazione alla chiesa per salvarsi l’anima. Quello che attendeva il malcapitato era il peggiore dei destini: finire scomunicato, malato, piagato, scosso da indicibili sofferenze e probabilmente anche morire insepolto. Con queste minacce la padrona di Naso Beatrice sugellava la restituzione al monastero di S. Filippo di un monte, donato al tempo della sua fondazione, e che Beatrice e i suoi parenti avevano usurpato più o meno colpevolmente. Condannata dalle procedure giudiziarie dell’epoca a restituirlo, la signora di Naso produce questo documento contenente una sanctio articolata e composita quasi per far dimenticare i propri soprusi: oltre al riferimento al mito di Prometeo, la cui pena terribile è augurata dalla signora di Naso (o meglio dall’erudito notaio) all’eventuale trasgressore; alla minaccia di una morte repentina e violenta, Beatrice fa riferimento ad una punizione esemplare menzionata nell’Antico Testamento: la lebbra di Giesi, cioè del servo del profeta Eliseo, punito dal suo padrone per avergli mentito con le parole: «Ma la lebbra […] si attaccherà a te e alla tua discendenza per sempre ». Egli si allontanò da Eliseo, bianco come la neve per la lebbra. La presenza della lebbra nel formulario delle maledizioni è attestata fin dall’antichità, addirittura in una stele mesopotamica: «Allorchè…un responsabile o un sindaco, (uno) tra il personale del re […] o della famiglia, della casata, della stirpe che si leverà e intenderà ingannare il dio o il re […] nasconderà la stele in un luogo non visibile, (la) brucerà nel fuoco (o la) farà prendere a un debole […] uno stupido, un demente […]Sin, grande signore, lo rivesta con la lebbra […]; Gula faccia apparire sul suo corpo una piaga eterna; un male incurabile si presenti a lui (ed egli) si bagni nel sangue (e) nel pus come in acqua»; « ricopra con la lebbra, come un vestito, il suo corpo». I riferimenti alla lebbra di Giesi sono presenti anche in altre pergamene siciliane, relative al monastero di S. Gregorio di Messina o a quello del S. Protomartire Stefano. Dall’ultimo decennio del XII secolo, i documenti di Fragalà contengono anatemi molto più semplici: un diploma bilingue del 1192 di Tancredi minaccia la consueta «indignazione della nostra Maestà» nella parte latina, e nella parte greca «lo sdegno della nostra eccellenza». I documenti in lingua latina, comunque, contengono di norma sanctiones essenziali e poco elaborate. Nell’XI secolo la formula più originale è quella di un documento del monastero di S. Angelo di Brolo: «Abbia anche la maledizione dei sette santi ordinatori del sinodo»; quando si passa ai secoli successivi la formula si semplifica ulteriormente in «lo annodiamo, lo leghiamo, con il vincolo perpetuo dell’anátema» di un diploma di S. Maria La Nuova di Monreale; oppure in «inondando con il vincolo dell’anátema anche i suoi eredi» di una concessione di S. Maria in Valle Giosafat del 1258. Fa eccezione a questo formulario stringato la clausola di un testamento redatto nel 1323 a S. Marco d’Alunzio: «fino alla più remota parte del suo corpo riceva la maledizione paterna e materna e sia sempre maledetto e scomunicato»: un anátema, per così dire, ‘modernizzato’, poichè non si ricorre più a maledizioni bibliche che chiamavano in causa autorevoli esponenti del clero, o santi, ma si maledice in prima persona con una maledizione tutta terrena, quella ‘paternalem’ e ‘maternalem’. A parte rare eccezioni come questa, che sembra l’unico caso di anatema in un documento trecentesco, tuttavia, già alla fine del XII secolo, l’anatema inteso come maledizione religiosa fu sostituito da minacce più concrete di tipo economico, come il pagamento di 10 onze d’oro, oppure di subire l’ipoteca di tutti i propri beni da parte della Regia Curia. L’ultimo anátema del Tabulario di Fragalà in lingua greca risale al 1280, con la formula classica («Sia anátema dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo») unita però ad una concreta pena pecuniaria: «E poi sia multato per pena a quaranta augustali [da pagare] alla corte e a risarcire tutte le spese alla parte offesa». Segno evidente, questo, di un’età di transizione, risolta definitivamente in modo pragmatico in un diploma quattrocentesco che impone : «sub ypotheca et obligatione omnium bonorum, et quo supra nomine habitorum et habendorum mobilium et stabilium, pheudalium et burgensaticorum, presentium et futurorum, ac cum refectione dampnorum, interessum et expensarum litis et extra». D’altronde si entrava in un’altra epoca, più realistica e materiale, ben lontana dai tempi in cui l’abate Gregorio era costretto a tuonare maledizioni divine persino contro chi si azzardasse a pronunciare formule magiche contro la sua comunità. E quindi il ricorso all’anátemanon era più necessario. Dalla fine del XIV secolo, il formulario allude infatti a pene pecuniarie o al giuramento sul Vangelo. L’incremento dell’attività mercantile, la circolazione del denaro e l’affermazione di nuove professioni ad esso legate, ma anche gli argomenti nuovi introdotti dalla riforma luterana, la progressiva disgregazione della visione teocratica del mondo man mano che si affermavano le correnti umanistiche e rinascimentali, modificarono le credenze popolari medievali in una visione ‘laica’ e disincantata che finì per influenzare, in modo irreversibile, anche il formulario notarile.


Anatemi nel mondo antico e nel Tabulario di San Filippo di Fragalà - SiciliAntica Capo d'Orlando - Sede Comprensoriale dei Nebrodi
alda luisa corsini
L'articolo è oltremodo lungo (e me ne scuso) ma trattasi di un excursus nei secoli dell'argomento.