Il primo comandamento: i peccati contro la carità

AMERAI IL SIGNORE DIO TUO
CON TUTTO IL CUORE, CON TUTTA LA MENTE E CON TUTTE LE FORZE
I peccati contro la carità

L’ultimo argomento che ci resta da trattare per chiudere, almeno in maniera essenziale, il lungo capitolo dei peccati contro il primo comandamento, è quello concernente i peccati contro la virtù teologale della carità. In base ad essa, ogni fedele è obbligato ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze e il prossimo come se stesso. Ora, per ciò che concerne la seconda “ala” del duplice comandamento dell’amore (che qualche padre della Chiesa paragonava appunto a una colomba che per volare adopera due ali), il contenuto dell’amore fraterno è specificato dai comandamenti della seconda tavola (dal quarto al decimo). È invece materia del primo comandamento (e, vedremo, anche del secondo del terzo), la prima parte del precetto della carità, tanto sovente dimenticata o addirittura ignorata da non pochi che si onorano del nome di cristiani.
Il senso del primo comandamento è molto intuitivo: renderci coscienti che essendo Dio “il Tutto” e Colui dal quale tutto abbiamo ricevuto, deve avere nella nostra vita, assolutamente e sotto tutti gli aspetti, il primo posto. Deve essere il centro delle nostre energie intellettive (“la mente”), affettive (“il cuore”) e fisico-corporali (“forze”). Facciamo subito qualche esempio (non esaustivo) per comprendere a cosa questo precetto ci obbliga e ci proibisce.
Amare Dio con tutta la mente significa, anzitutto, dedicare tempo, energie e attenzione alla conoscenza di chi Dio è e di cosa pensa e vuole; in altre parole è obbligatorio curare la propria formazione cristiana. L’ignoranza crassa (grave e dipendente da negligenza colpevole), infatti, oltre che costituire un peccato grave, non scusa da tutti i peccati che si commettono a causa di essa. Quante volte si sente dire: “Padre, è peccato? Ma io non lo sapevo!”. E quante si potrebbe rispondere: “ma tu che hai fatto per saperlo?”. Altra dimensione dell’amare Dio con tutta la mente è saper adorare Dio nei suoi disegni, anche quando sono per noi dolorosi e incomprensibili. Chi dinanzi ad una croce o una prova (un lutto, una morte prematura, una disgrazia, una calamità naturale, etc.), pur senza giungere ad odiare Dio e bestemmiarlo, comincia a lamentarsi: “ma perché Dio ha permesso una cosa del genere”, pecca contro il dovere di sottomettere la nostra povera e limitata intelligenza all’infinita sapienza di Dio, che tutto dispone per il nostro bene e si rende simile al popolo di Israele che nel deserto mormorava in continuazione giudicando Dio, le sue opere e la sua pedagogia, che aveva disposto di condurre il suo popolo nella precarietà e nella prova per quarant’anni nel deserto. Esempio luminoso di questa grande opera è Abramo, che accettò l’inumana prova di offrire a Dio in sacrificio il proprio unico figlio, e proprio quello che Dio gli aveva miracolosamente concesso in età senile e da cui Egli stesso aveva giurato di far derivare una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia del mare. Si badi che analogo discorso vale per il rispetto dovuto alla Chiesa, al suo insegnamento e ai suoi ministri, anche indegni, che nessuno si deve permettere di giudicare ma per i quali bisogna pregare e offrire sacrifici (e, se le circostanze lo richiedono, correggerli con umiltà, dolcezza e carità).
Amare Dio con tutto il cuore significa dargli il primo posto fra i nostri affetti. Gesù ha detto chiaramente nel Vangelo: “chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me. Chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37). E ha detto anche: “se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Qui si apre il campo a innumerevoli peccati che pur commessi per debolezza, sono comunque oggettivamente da considerare molto gravi. Amare Dio più di un figlio, per esempio, significa, tra le altre cose, lasciarlo libero di seguire la propria vocazione, specialmente quella alla vita consacrata. Quanti genitori impediscono ai propri figli di farlo? Con quali conseguenze nefaste? Più di qualche santo (e recentemente anche qualche mistico) ha affermato che per i genitori che si macchiano di questa colpa è preparato un Purgatorio durissimo e che si protrarrà fino al Giudizio universale! Stessa cosa vale per il caso contrario: un figlio, dinanzi a un genitore che gli impedisse di seguire il Signore, deve obbedire a Dio e non ai genitori. E se per debolezza cedesse, questo gli sarà imputato a colpa. Altro esempio, riguardante marito e moglie. Un marito non vuole avere più figli e usa metodi contraccettivi o chiede un uso sbagliato e immorale del matrimonio. La moglie che dovesse accondiscendere non pecca solo contro il sesto comandamento (come il marito), ma anche contro il primo, perché per amore del marito accetta di trasgredire la legge di Dio. Che differenza tra queste brutte situazioni ed alcune storie di mamme martiri che non hanno esitato nei primi secoli ad affrontare il martirio lasciando orfani bimbi ancora infanti, oppure di sante donne vergini (una per tutte: santa Cecilia), che riuscirono a far rispettare la propria verginità a mariti pagani, che invece di ucciderle si convertirono (e molti di essi morirono martiri!).
A proposito di martirio, veniamo all’amare Dio con tutte le forze. Per comprendere questo obbligo basta tener presente queste luminose e chiare parole della Lettera agli Ebrei: “non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato” (Eb 12,4). Non si può mai e per nessuna ragione scendere a compromesso col male, meno che mai con la scusa che “i tempi sono cambiati” (frase che sembra essere il Vangelo del terzo millennio…). Il male è male, sempre, comunque, dovunque. Non deve essere fatto, né approvato, né consentito, mai, in nessun modo e per nessun motivo. Va denunciato e combattuto con coraggio. Guai, per esempio, a quei genitori permissivi che sono la causa della rovina dei figli solo perché non vogliono affrontare le lotte e le ribellioni conseguenti a un’educazione severa: genitori che mandano i ragazzi in vacanza con la fidanzata, che permettono mode invereconde alle figlie, che non vigilano sull’osservanza dei doveri religiosi dei figli. Amare Dio con tutte le forze vuol dire anche offrire a Dio il nostro lavoro, nel senso che un cristiano non solo lavora onestamente e con impegno, ma lavora in obbedienza a Dio, curando la massima perfezione possibile nell’esecuzione del lavoro (anche umilissimo) ed offrendo parte dei propri beni per le necessità dei poveri e della Chiesa. Infine, qualora fosse necessario e Dio lo richiedesse, in virtù del primo comandamento e di questo precetto in particolare, non bisogna esitare ad affrontare il martirio in difesa della fede o per non commettere un peccato, come ci ricordano, qui in Italia, i luminosi esempi di santa Maria Goretti (morta ammazzata per non aver consentito a un tentativo di violenza) e di santa Giovanna Beretta Molla (morta di malattia subito dopo il parto per aver voluto portare avanti una gravidanza nonostante il parere contrario dei medici).