ABBE’ BARTHE: CARICO DA UNDICI CONTRO ‘IL CONCILIO’ E LA ‘MESSA DI PAOLO VI….

UNO PEGGIO DELL’ALTRO

DALLI, DALLI AL CONCILIO E ALLA ‘NUOVA MESSA’: APPICCA, ABBRUCIA!!!
PERFINO IL ‘MODERATO’ ABBE’ BARTHE NON NE PUO’ PIU’.
LEGGERE E MEDITARE…

DEFENSOR ECCLESIAE

«Il Vaticano II e la nuova liturgia hanno inventato una nuova modalità magisteriale, la regressione dogmatica»


Res novae, che ringrazio per la segnalazione, pubblica l’intervista ripresa di seguito di Michel Janva a Don Claude Barthe, apparsa il 15 novembre 2023.

Una delle caratteristiche drammatiche della situazione presente è che chi è incaricato del magistero non compie la propria opera di definizione di ciò in cui si debba credere e di condanna di quanti se ne allontanino. Né dogmatizzazione, né condanna, ha detto in buona sostanza Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio. Di conseguenza, i confini della fede sono divenuti più sfumati anche all’interno della Chiesa istituzionale.

Nostro Signore ha promesso che le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa. Ma questa promessa si applica alla Chiesa militante? Poiché per quanto concerne la Chiesa sofferente e la Chiesa trionfante, è certo che l’inferno non possa nulla contro di loro.

La promessa si applica anche alla Chiesa militante, guidata dal Successore di Pietro e dai vescovi a lui uniti nella fede. Tale promessa è inclusa in quella fatta a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le Porte dell’inferno non prevarranno contro di essa» (Matteo 16, 18). Ma giustamente, benché Cristo abbia ritenuto buona cosa fare questa promessa, in certi periodi è potuto sembrare e può sembrare anche oggi che l’errore la travolga.

Dopo la Rivoluzione francese, un buon numero di correnti di pensiero (lamennisti, americanisti, modernisti, ecc.), che possono esser raggruppate sotto la definizione generale di cattolicesimo liberale, hanno cercato di trovare una via di mezzo tra verità cattolica e spirito nuovo con la buona intenzione, peraltro sempre delusa, di assicurare al cattolicesimo un certo qual riconoscimento sociale all’interno della modernità. Il magistero, da Pio VI a Pio XII, ha condannato senza tregua tale tentativo. Col Vaticano II, il cattolicesimo liberale, sotto forma di quella che Pio XII ha chiamato la «nuova teologia», ha assunto le redini del potere magisteriale e ciò sin dai primi giorni in cui si è riunita l’assemblea, nell’ottobre 1962, giorni che hanno visto un autentico ribaltamento politico. Ma non un ribaltamento magisteriale, ciò che sarebbe stato impossibile. In realtà, gli uomini della nuova teologia hanno allontanato il personale della Scuola romana, che circondava Pio XII, ed hanno in breve messo le mani sul magistero, ponendolo in secondo piano. Le principali «intuizioni» del Vaticano II (libertà religiosa, ecumenismo, principi di dialogo con le religioni non cristiane) intendono dire altro rispetto al magistero precedente, pur senza contraddirlo frontalmente, adottando una modalità d’insegnamento pastorale, diversa da quella magisteriale classica, che si fonda sul contenuto della Rivelazione e che impone di credervi.

Nel Suo libro, che tratta diffusamente del Concilio, Lei sottolinea come il decreto sull’ecumenismo non contenga la benché minima definizione di tale concetto. Negli anni successivi, Roma non ha mai cercato di metterlo a fuoco?

In effetti, ciò che, nel decreto Unitatis redintegratio, si avvicina maggiormente ad una definizione è quest’ovvietà: «Per “movimento ecumenico” [qui - qui] si intendono le attività e le iniziative suscitate ed ordinate a promuovere l’unità dei cristiani» (n. 4). Il testo successivo più importante è l’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint del 1995, che affronta a lungo il tema dell’impegno ecumenico, ma senza definirne ulteriormente la portata. La Chiesa è stata lanciata in un enorme «movimento», senza essere in grado di dire dove si stia andando, né verso quale unità ci si diriga.

Ed è normale, poiché l’ecumenismo è tipicamente questo stato intermedio da cattolicesimo liberale, né veramente cattolico, né veramente eretico. Il dilemma era il seguente: per l’ecumenismo protestante, quello che plaude al Consiglio Ecumenico delle Chiese, l’unità della Chiesa si realizza nella Chiesa di Cristo, in cui peraltro nessuna Chiesa esistente potrebbe pretendere di identificarsi pienamente; per l’unionismo cattolico tradizionale, l’unità non può realizzarsi che reintegrando nella Chiesa, in modo individuale o di massa, coloro che l’hanno lasciata. Ebbene, l’ecumenismo del Vaticano II intendeva andare oltre l’unionismo (ho sentito con le mie orecchie il cardinale Willebrands, Presidente del Consiglio per il Dialogo, dire che non bisognava più parlare di «ritorno»), senza però cadere nell’eterodossia protestante. Quadratura del cerchio. Ho un giorno rispettosamente stuzzicato il cardinale Ratzinger in merito: ritorno dei separati nella stessa Chiesa cattolica, che avevano lasciato, o ritorno in un’altra Chiesa? Egli mi ha risposto: «Ritorno nella Chiesa cattolica, ma “in avanti”».
[i soliti pasticci teologici neomodernisti di Ratzinger: N.d.R.]

L’ecumenismo non è peraltro il nulla, in quanto la teologia ha orrore del vuoto. La terza via «pastorale», che cerca d’agire con scaltrezza nei confronti della dottrina tradizionale, proviene comunque dall’ortodossia: il decreto sull’ecumenismo dice che i cristiani separati beneficerebbero di una «comunione imperfetta» con la Chiesa cattolica (Unitatis redintegratio, n. 3). Ut unum sint va oltre: sarebbero le stesse comunità separate ad essere in comunione imperfetta con la Chiesa cattolica (n. 11). Il che è impossibile: la comunione fondata sulla fede, come lo stato di grazia fondato sulla carità, o esiste o non esiste e non si è per metà in stato di grazia più di quanto non si sia per metà in comunione con la Chiesa. I protestanti non sono cattolici al 20 o al 30%, gli ortodossi al 60% e così via.

Lei accenna anche alla riforma della liturgia, divenuta malleabile, come lo sono stati i testi del Concilio. Cosa pensa di questi tentativi di pensare il Novus Ordo in modo tradizionale, come a Solesmes presso la comunità Saint-Martin o, più recentemente, col libro di Padre Nadler L’Esprit de la messe Paul VI [Lo Spirito della messa di Paolo VI]? Tali tentativi sono conformi allo “spirito del Concilio”?

Penso che tali tentativi, che manifestano una sorta di cattiva coscienza stimolata dalla presenza ben viva del rito tradizionale, siano vani. Quando venne instaurato il nuovo Ordo, i suoi critici, ad esempio su Itinéraires, dicevano: meglio una messa tradizionale in francese di una messa nuova in latino. Il problema del Novus Ordo è intrinseco: benché celebrato con grande rispetto, pietà e in latino, resta manchevole nell’esprimere il sacrificio eucaristico, nel sacerdozio gerarchico, nella presenza reale. Il sacrificio, prima di tutto. Per quanto celebrato alla perfezione, come vogliono fare a Solesmes Padre Nadler, che qui fu novizio, e la Comunità Saint-Martin, resta nella migliore delle ipotesi più debole dell’Ordo che ha rimpiazzato. Nella migliore delle ipotesi, perché nella peggiore qualsiasi eccesso vi sarebbe comunque permesso. Il problema della nuova lex orandi (sempre che la liturgia di Paolo VI con le sue infinite varianti sia una legge) è il medesimo proprio anche della nuova lex credendi (le «intuizioni» del Vaticano II): ciò che è chiaro viene sostituito da ciò che è oscuro e che si è costantemente obbligati ad «interpretare», ciò che è vero da ciò che è vago. Si parlava un tempo di «progresso dogmatico». Il Vaticano II e la nuova liturgia hanno inventato una nuova modalità magisteriale, quella della regressione dogmatica.


Intervista a cura di Michel Janva