Francesco I
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L'Italia può abbandonare la zona dell'euro?

Un bell’intervento del Nobel Stiglitz sul sito della London School of Economics chiarisce due punti fondamentali: il problema dell’Europa è l’eurozona, e ormai il costo di tenerla insieme sta superando il costo di procedere al suo smantellamento.

Nella tanta confusione che serpeggia nell'opinione pubblica del nostro Paese e nei pseudo esperti del nulla, quest'ultimi bazzicanti in vari studi televisivi, blaterando senza conoscere l'aspetto politico-giuridico se vi sia la legalità dell'uscita dall'Unione Europea, come pure dall'eurozona, di uno Stato membro, è opportuno sgomberare il campo dalle tante inesattezze che, quotidianamente, vengono offerte all'opinione pubblica italiana, creando molta superficialità e ignoranza in materie complesse e delicate come quello concernenti i trattati europei. Ho già avuto modo di affrontare questa tematica con un articolo apparso il 15 marzo 2017 sul quotidiano "La Verità" assieme all'amico giurista Giuseppe Palma.
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Stiglitz: i costi di mantenere l'Eurozona superiori a quelli di smantellarla
La risposta che si può dare, al caso che ci riguarda, non può che essere positiva, nel senso che l'Italia può in maniera serena e tranquilla abbandonare la moneta unica europea. Esistono due modi: o restando nell'Unione Europea salutando definitivamente l'euro ovvero appellandosi al ben noto articolo 50 del TUE, che prevede un meccanismo di recesso volontario e unilaterale di un Paese dall'Unione Europea, come ha avviato la Gran Bretagna con la Brexit, mediante il referendum popolare. S'immagini che il recesso era stato persino stabilito nel Trattato che adotta(va) una Costituzione per l'Europa, non entrato più in vigore per i referendum francese e olandese che l'avevano bocciato, in base al quale era enunciato che ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'UE.
Se l'Italia decidesse in maniera convinta di uscire dal sistema monetario ed economico dell'UE, dovrebbe notificare la scelta al Consiglio europeo, il quale fornisce all'UE le indicazioni per concludere con lo Stato che abbandona l'accordo d'uscita. Accordo su cui l'ultima parola spetta al Consiglio che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento UE.
Tecnicamente, tornare alla moneta nazionale, ovvero alla nostra vecchia lira, sarebbe fattibile e a prevedere il ritorno al passato, de facto, è lo stesso Trattato istitutivo dell'UE, quello firmato nella cittadina di Maastricht il 7 febbraio 1992, ratificato dal nostro Parlamento con la legge del 3 novembre 1992 n.454, in base al quale viene enunciato che in caso di mancato rispetto dei parametri economici, è prevista una fase intermedia di contestazione che, poi, può portare all'inflizione di una condanna che porti il singolo Stato a depositare una somma destinata a garantire la parità monetaria. In questo, almeno indirettamente, il Paese sanzionato esce fuori dal sistema, anticamera dell'uscita forzata dall'eurozona.
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Al via in Olanda la commissione parlamentare per l'uscita dall'euro
Esiste, tuttavia, un percorso meno traumatico che passa attraverso il diritto di recedere dal trattato europeo o dai trattati regionali. Ci si riferisce a un istituto tradizionale o classico del diritto internazionale. Difatti, secondo l'articolo 56, paragrafo 1, della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 1969, enuncia che un trattato che non contenga disposizioni relative alla sua estinzione e che non preveda la possibilità di un ritiro o di una denuncia non può essere oggetto di denuncia o di ritiro, a meno che non sia accertato che era nell'intenzione delle parti di accettare la possibilità di una denuncia o di un ritiro o il diritto alla denuncia o al ritiro non possa essere dedotto dalla natura del trattato. E il recesso è possibile anche in relazione alla sola moneta unica senza dover uscire del tutto dall'UE. In quest'ultimo caso, il nostro Paese, tout court, si troverebbe nella situazione in cui si trovano la Danimarca e la Svezia, ad esempio, e come si è trovata pure la stessa Gran Bretagna che, mediante la decisione referendaria popolare, ha deciso di abbandonare del tutto l'organizzazione internazionale, a carattere regionale, denominata UE: fuori dalla moneta unica europea, ma dentro l'UE. La decisione, in aggiunta, di ricorrere a quella che tecnicamente si chiama denuncia del patto sarebbe di competenza del governo e non del Parlamento.
Ma qualcuno si porrebbe la seguente questione: che valore acquisirebbe la moneta nazionale una volta tornata legalmente in circolazione? Semplice, quelli precedenti l'entrata in vigore dell'euro o, più correttamente, il suo potere d'acquisto deriverebbe dal sistema economico e produttivo nazionale, con la possibilità di attestarsi anche a un livello più favorevole e conveniente rispetto al valore del cambio che fu deciso, purtroppo, dall'allora Prodi e Ciampi, 1€ a 1936,27 Lit.

Un ultimo punto da evidenziare sta nel fatto che se uno Stato ha deciso di uscire dalla zona dell'euro, deve uscire dall'UE. In questo caso lo Stato che opta per il recesso dall'Unione Europea deve annullare la precedente legge di ratifica del trattato. Il governo preparerebbe le denuncia dell'accordo, le Camere la voterebbero.
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L’Italia lascerà l’eurozona
Altro punto di domanda da porre in risalto è la seguente: per quale ragione in Italia non viene data la parola ai cittadini se restare o no nell'UE e nell'eurozona attraverso un referendum popolare, come è avvenuto in Gran Bretagna che ha deciso di disattendere i trattati UE? Nel nostro Paese, purtroppo, non è possibile perché la nostra Costituzione lo vieta, a causa di due ragioni di impedimento.

Il primo impedimento è rappresentato dal ben discusso articolo 75, paragrafo 2, della Carta fondamentale che non prevede il referendum abrogativo per le leggi di carattere tributario e di bilancio, di amnistia e di indulto, e di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, per cui i padri costituenti hanno voluto riservare ai due rami del Parlamento, cioè la Camera dei Deputati e il Senato, la tutela di alcuni interessi fondamentali dello Stato. In merito a ciò, si può rilevare che tale limite è stato individuato dai giudici della Corte costituzionale, ai quali è stato attribuito il potere di esercitare, in via preventiva, il controllo di ammissibilità delle richieste referendarie, nel senso che solo la Consulta ha il diritto di giudicare se le richieste di indire referendum abrogativi siano ammissibili in virtù dell'articolo di cui si è accennato prima (art.2 della costituzionale dell'11 marzo 1953, n.1). I giudici, garanti della costituzione italiana, in un'altra sentenza — la n.16 del 1978, hanno asserito che è inammissibile la richiesta sull'abrogazione di leggi a contenuto vincolato emesso dall'UE. Si tratta di una limitazione emersa in alcune sentenze di questo secolo dalla stessa Consulta, come, a titolo di esempio, quelle n.31, 41 e 45 del 2000, con le quali si precisava che non può ritenersi ammissibile un referendum che miri all'abrogazione di una normativa interna avente contenuto tale da costituire per lo Stato italiano il soddisfacimento di un preciso obbligo derivante dall'appartenenza di un'organizzazione internazionale a carattere regionale quale l'UE. In base al modus cogitandi ovvero al ragionamento che i giudici della Corte costituzionale, difatti, se la normativa nazionale fosse abrogata, lo Stato italiano si troverebbe inadempiente rispetto agli obblighi imposti a livello di UE o comunitario, ragion per cui la normativa in questione non può essere oggetto di un quesito referendario.
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L’Italia è il principale mistero politico dell’eurozona
Il secondo impedimento è riscontrabile dalla lettura dell'articolo 80 della Costituzione in base al quale le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi. Da ciò si deduce che il Parlamento è l'unico ad avere il potere di ratificare con legge i trattati internazionali.

Per dare ai cittadini la possibilità di ricorrere allo strumento referendario sui trattati europei, sarebbe necessario, in via preliminare, una modifica della nostra carta fondamentale. Infatti, l'articolo 75 della Costituzione è ostativo, nel senso che per superare tale inibizione o divieto sarebbe necessario una legge ad hoc di deroga costituzionale; secondo l'articolo 138 della Carta costituzionale le leggi di revisione della costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascun ramo del Parlamento nella seconda votazione. Affinché si abbia un referendum è necessario cambiare un articolo della Costituzione, solo così si raggiungerebbe quell'obiettivo di capire se gli italiani sono a favore o no all'uscita dall'eurozona come pure dall'UE.

Giuseppe Paccione