Il rapporto tra croce e altare nell'antichità cristiana

Il rapporto tra croce e altare nell'antichità cristiana

Testimonianze storiche ed archeologiche

19 marzo 2015, San Giuseppe

Lo studio della liturgia antica, in particolare romana, si scontra fin dal suo delinearsi, con la difficoltà a ricostruire con precisione la disposizione dello spazio presbiterale dei primi otto secoli dell’era cristiana. Non è sempre facile ricostruire con precisione lo spazio absidale e la stessa posizione dell’altare con i relativi arredi pone ancor oggi dei problemi in parte irrisolti. Sappiamo con certezza che in epoca medievale e moderna la prescrizione della presenza della croce in corrispondenza della mensa è raccomandata come fondamentale dai messali e dalla tradizione dei diversi riti. Siamo anche certi che già a partire dai primi secoli del secondo millennio, nelle differenti famiglie liturgiche dell’orbe cristiano, la rappresentazione nello spazio d’altare della croce è ormai generalizzata: la sua presenza ricorda il sacrificio del Venerdì Santo e sottolinea il significato teologico della Messa. Più discussa fra gli studiosi è l’epoca dell’introduzione di tale elemento come arredo centrale dell’altare, soprattutto se il dibattito storico riguarda il primo millennio dell’era cristiana.

Nell’analisi che segue si tenterà di approfondire il legame simbolico-liturgico tra la celebrazione eucaristica, l’altare e la croce. Si cercherà, a seconda dei territori analizzati e con particolare riferimento alla penisola italiana, di verificare se sia possibile proporre una datazione relativa alla sicura presenza della croce in ambito cultuale, quale elemento fondamentale e centrale nella disposizione dell’altare.

E’ bene premettere che le fonti letterarie e i ritrovamenti archeologici in proposito sono di una disarmante esiguità e che i ritrovamenti locali e sporadici - tenendo conto anche del particolarismo liturgico dell’orbe cristiano antico - mal si prestano a generalizzazioni troppo affrettate. E’ noto che nel campo della storia della liturgia la prudenza deve essere particolare preoccupazione del ricercatore, non solo per la delicatezza dell’argomento, ma anche perché le molte ricostruzioni accademiche fatte “a tavolino”, hanno col tempo rivelato le incertezze e le incongruenze di tesi audaci e a volte infondate. Per converso è noto quanto il conservatorismo rituale incida sulla liturgia, al punto che, almeno fino ad epoca recente, è più facile incontrare usi di cui si fosse persa la ragione che assistere ad introduzioni ex nihilo. Nel caso di una tradizione nota e ricorrente - come la presenza della croce sull’altare - è metodologicamente più corretto dimostrare l’epoca della sua introduzione, piuttosto che negarne l’esistenza in epoca antica sulla base di silenzi delle fonti, giacchè l’assenza di prove non è sempre prova di un’assenza[1].

Per inciso giova anche rammentare che la storia della liturgia si trova, per più ragioni, esposta a interpretazioni spesso arbitrarie; la proiezione nell’antichità di dibattiti teologici recenti ha spesso falsato la panoramica e un primitivismo dalle utopie retrospettive ha attribuito ai cristiani della tarda antichità problemi molto lontani dalle loro menti.

Status quaestionis

La preghiera liturgica della testimonianza vetero-testamentaria, così come la successiva tradizione cristiana, è essenzialmente un rivolgimento a Dio per impetrare propiziazione, lodare, ringraziare, adorare per mezzo di un mediatore, il sacerdote istituito da Dio stesso[2]; il rapporto tra Dio e gli uomini è legato da un patto, da un’alleanza; segno di quest’alleanza era in antico l’Arca, nei tempi nuovi la Croce. E’ il sacrificio del Figlio che riconcilia gli uomini con il Padre, è la Crocifissione, che si rinnova in maniera incruenta sugli altari, che ha restaurato la caduta d’Adamo[3]; bisogna quindi determinare se sia coerente con i dati storico-archeologici pensare che ciò che si realizza in maniera non direttamente visibile con gli occhi di carne, fosse rappresentato in maniera visibile in uno spazio in connessione all’altare.

E’ dato assodato che la presenza della croce sull’altare sia una costante per la maggioranza dei riti in Oriente a partire dal secolo VII-VIII, più discussa è la situazione in Occidente, per le incertezze sull’epoca di introduzione a seconda delle zone. Appare alquanto singolare che questa uniformità si noti anche nelle comunità cristiane separate da Roma e Costantinopoli fin dal VI secolo, come è il caso di alcune comunità della Siria e dell’Egitto, della Mesopotamia e dell’India. Bisogna stabilire se il fattore sia tanto primitivo da essere precedente alla separazione o se vi sia stata emulazione, in questo caso valutare in che senso vi sia stata influenza.

In ambito romano e occidentale, a parere di alcuni autori, non si può parlare di presenza della croce sull’altare prima del XII - XIII secolo[4]. Il silenzio sull’argomento da parte dell’Ordo Romanus I[5] e alcune rappresentazioni dello spazio dell’altare ascrivibili ai sec. X-XI, che ancora non riproducono la croce sopra la mensa, ne sarebbero la testimonianza ( per citare alcuni esempi di ambito romano e centroeuropeo si possono menzionare il noto affresco della Messa di S. Clemente dipinto presso l’omonima basilica di Roma o le miniature nell’evangeliario per l’Abbadessa Uta di Niedermunster[6] o dell’evangeliario di San Bernward di Hildesheim[7]).

Lo studio della documentazione dell’alta antichità cristiana pone però degli interrogativi che, sebbene di non facile soluzione, non permettono tuttavia il carattere categorico attribuito in passato alla tesi di un’introduzione tardo-medievale della croce.

Difficile stabilire con certezza se una rappresentazione dello strumento della Passione fosse o meno sull’altare in epoca antica o se fosse in posizione centrale e visibile, benché non direttamente appoggiata sulla mensa, o se infine vi fosse una relazione col rivolgimento a Oriente. Appare comunque con evidenza, oggi più che in passato, la necessità di ampliare la prospettiva nei suoi risvolti archeologici e simbolico-teologici, analizzando la possibilità di una retrodatazione della presenza della croce sull’altare.

Oriente e Croce in alcune passiones e scritti antichi

Gli atti di alcuni martiri di Samosata vissuti nei secoli III - IV[8], offrono dei dati d’interesse; negli Acta Hipparchi Philothei et sociorum[9], si legge che alcuni cristiani erano convenuti nella casa di un certo Ipparco per pregare verso Oriente e verso la Croce: “[…] crucemque pinxerat in orientali pariete. Ibi, ante crucis imaginem, converso ad orientem ore, Dominum Iesum Christum quotidie septies adorabant”[10]. Si evince chiaramente che i cristiani di Samosata pregavano rivolti verso Oriente e in quella direzione dipingevano una Croce sulla parete. Nel citato testo si legge più avanti che i pagani accusarono i cristiani di venerare una croce lignea; essendo il testo databile al V secolo, il Peterson deduce che il riferimento alla croce lignea è probabilmente un’interpolazione avvenuta al momento della redazione, ma il riferimento alla croce dipinta sul muro è da considerarsi autentico, perciò di III-IV secolo[11]; abbiamo quindi, anche considerando le recenti critiche che il Wallraff ha mosso al testo[12], una prova di preghiera “versus crucem et orientem” attestata almeno nel IV secolo; non meno interessante è l’interpolazione di V secolo sulla croce lignea, perché non è improbabile che una pratica liturgica coeva possa aver influenzato i redattori.

Il rivolgimento ad Oriente durante alcune fasi della preghiera, ampiamente noto dagli scritti di Tertulliano[13] e di numerosi Padri, è da tempo oggetto di dibattito scientifico ma, tanto il Dölger[14] che il Gamber,[15] che hanno studiato l’argomento e dimostrato come il fenomeno interessasse gran parte dell’orbe cristiano antico, si sono occupati marginalmente del legame con la croce.

Nei secoli V, VI la relazione fra Oriente e croce sembra un’acquisizione almeno per la Siria: negli atti di Kardagh si legge che il Santo dopo la conversione “subito surgens ingressus est cubiculum et delineavit in pariete orientali signum crucis, et cecidit super faciem suam in terram et oravit coram illo”[16]. Il documento costituisce una ulteriore prova della pratica di dipingere una croce nella parete orientale in occasione della preghiera, quindi dell’esigenza di avere dinanzi agli occhi lo strumento della Passione.

Il problema della croce sui muri è conosciuto anche in uno scritto attribuito un tempo a S. Giovanni Crisostomo[17]. Origene riferisce il dato interessante di un rivolgimento della preghiera verso Oriente in direzione di un muro[18].

L’eresiologia fornisce ulteriori indizi: i Marcioniti, che erano fortemente ostili al culto della croce, pregavano verso Occidente con un preciso intento polemico[19], il legame tra i due elementi sembra di nuovo attestato anche se da una prova “a contrario”.

La preghiera rivolta a Oriente e verso la croce, sosteneva il Peterson[20], avrebbe un significato escatologico; sarebbe il rivolgersi, secondo il noto passo di Matteo[21], verso la direzione da cui Cristo ha promesso di tornare sulla terra preceduto dalla croce; l’interpretazione di quest’associazione, nel suo aspetto storico e teologico-simbolico, è stata oggetto di recenti studi e dibattiti[22].

Nella polemica anticristiana del II secolo è d’interesse il discorso attribuito a Frontone e riferito nell’ “Octavius” di Minucio Felice; tra alcune accuse alla nuova religione si trova la menzione che i cristiani non solo compissero cerimonie con il legno della croce “crucis ligna feralia eorum caerimonias fabulatur”, ma che ad essa erigessero altari, “congruentia perditis sceleratisque tribuit altaria, ut id colant quod merentur”[23]. Il dato che vi fossero a Roma nella seconda metà del II secolo altari nei quali si venerasse la croce doveva inorridire i contemporanei pagani, esso appare nel testo insieme ad accuse infondate contro i cristiani, ma a differenza di esse appare alquanto verosimile e pone interessanti interrogativi, specie tenendo conto della continuità con la prassi posteriore.

Alcune testimonianze sulle Basiliche romane e il Liber Pontificalis di Roma e Ravenna

Risulta piuttosto arduo indagare la storia liturgica attraverso i resti dei “tituli romani”[24] così come la ricostruzione dello spazio presbiterale delle stesse basiliche costantiniane di Roma presenta dei nodi di difficile soluzione[25], nuoce agli studi la continuità del culto cristiano e le sovrastrutture successive non sempre rendono identificabili i resti antichi. La testimonianza offerta dal Liber Pontificalis[26] sembra invece permettere l’avanzamento di alcune ipotesi più circostanziate.

Le donazioni costantiniane alla Basilica Salvatoris ci permettono di ricostruire alcuni elementi fondamentali[27]: sappiamo che Costantino donò i noti “septem altaria” d’argento, unitamente a sette candelieri da porre davanti ad essi, la questione ha sempre sollevato numerosi dubbi sulla funzione di questi oggetti preziosi, il fatto che gli altari fossero di eguale peso lascia supporre che fra essi non vi fosse compreso l’altare della consacrazione, che avrebbe dovuto avere maggiori dimensioni e differente monumentalità. L’assenza di una donazione imperiale in proposito, proprio per la basilica dei Pontefici Romani, lascia ulteriormente propendere per la veridicità della tradizione pervenutaci, cioè che fosse in uso nella basilica, ancora ai tempi di Costantino, un antico altare usato dai vescovi precedenti, che, in virtù della sua antichità e venerazione, avrebbe conservato la funzione primigenia anche nel pieno IV secolo[28]. Il dato ridimensionerebbe le teorie sugli stravolgimenti liturgici operati in epoca costantiniana e testimonierebbe di cambiamenti solo marginali, retrodatando quindi l’introduzione di alcuni usi.

Sulla base di questi presupposti, il Klauser avanza l’ipotesi che i sette altari avessero la funzione di mensa per le offerte e ne ipotizza una collocazione ai lati del Fastigium, nella asimmetrica disposizione di quattro da una parte e tre dall’altra. Studi più recenti sullo spazio intorno al Fastigium si sono concentrati sulla ricostruzione dello spazio presbiterale, ma rimane difficile avanzare ricostruzioni dettagliate sul rito che doveva compiersi al suo interno[29].

La ricostruzione dello spazio absidale della Basilica Vaticana di S. Pietro è stata resa possibile da una scoperta archeologica dei primi del Novecento, fatta nella chiesa di S. Ermagora a Pola, il ritrovamento della cosiddetta capsella di Samagher: “difficile immaginare un altro cimelio che al pari di esso assuma tanta importanza in diversi campi, nella storia dell’arte paleocristiana, nella storia dell’impero, nella storia della Chiesa”[30]. La cassetta fu realizzata a Roma intorno al 440 e destinata a contenere delle reliquie, fu forse donata da Sisto III o da Leone Magno a Valentiniano. Nelle quattro facce sono rappresentati alcuni luoghi santi della Cristianità, sul lato posteriore è la rappresentazione della Basilica di San Pietro; oltre la cosiddetta “Pergula Vaticana”, è rappresentato un corpo quadrangolare, al di sopra del quale è visibile una croce, non è facile stabilire se essa sia infissa sulla superficie o se sia decorazione di una nicchia retrostante, ma la sua innegabile presenza in questo contesto è da ricondurre alla memoria dell’Apostolo Pietro e forse ad un ruolo liturgico, le due ipotesi non si escludono a vicenda. L’altare poteva, supponendo la sua mobilità, essere apposto in prossimità della confessione durante il rito e non essere quindi rappresentato nella capsella, ma resta ragionevole pensare che la celebrazione avvenisse in prossimità della memoria dell’Apostolo; la posizione laterale dei personaggi rappresentati, determinata dall’impossibilità di essere sul fronte per la presenza della “fenestella confessionis”, pone l’interrogativo tuttora irrisolto della posizione precisa della mensa d’altare[31].

Lato posteriore della Capsella di Samagher, la "Pergula Vaticana" e la Memoria di San Pietro

L’ipotesi che nella Basilica Vaticana si celebrasse in presenza di una croce, intenzionalmente o meno, già agli inizi del V secolo, non può essere elusa, la croce è al centro dello spazio presbiterale. L’ipotesi che sia solo segno della memoria dell’Apostolo, o che si trovasse in una retrostante nicchia, non inficia il rapporto con la liturgia, perché lo spazio della memoria dell’Apostolo è anche lo spazio privilegiato della celebrazione.

Un altro nodo della disposizione dello spazio liturgico è costituito dagli oratori ed altari laterali, presenti almeno dall’epoca di Papa Ilario ( 461-468) nella Basilica Salvatoris e dall’epoca di Papa Simmaco (498 - 514) nella Basilica Vaticana, essi appaiono addossati a nicchie e orientati in maniera difforme. Nel caso della Basilica Vaticana, l’ “Oratorium Sanctae Crucis”, che sappiamo essere situato nello spazio del transetto destro, era dotato di una croce gemmata contenente una reliquia della Vera Croce, posta in una nicchia, e di un relativo altare, verisimilmente rivolto verso la nicchia; nello spazio del Battistero, gli altari di S. Giovanni Evangelista e quello del Battista, erano entrambi addossati al muro; nella cosiddetta “Rotonda” l’altare di S. Andrea e quelli ad esso contigui, erano orientati in differenti direzioni, ma tutti verso un muro[32]; non è sempre facile stabilire quando e come si celebrasse su questi altari, ma è probabile che il celebrante fosse rivolto verso il muro o l’eventuale immagine o reliquia che vi era deposta.

Secondo il Liber Pontificalis di Roma, le donazioni di croci alla Basilica Vaticana e ad altri edifici dell’Urbe si susseguono con continuità. Costantino, sotto papa Silvestro (314-335), dona alla basilica di S. Pietro una grande croce di 150 libbre da mettere davanti al corpo di S. Pietro[33], un’altra dello stesso peso da collocare “super locum Beati Pauli”[34]; leggiamo che Vigilio (537-555) “obtulit crucem auream cum gemmis”[35]; all’epoca di Pelagio II la croce donata da Belisario, si trova ancora “ante corpus Beati Petri”[36]; interessante il dono di una croce da parte di Leone III (795-816), “pendentem in pergola ante altare”[37]; lo stesso pontefice “fecit crucem maiorem (…) stat iuxta altare maiore”[38], in questo caso è una grande croce, la principale (maiorem) e soprattutto destinata all’altare maggiore, “iuxta” può significare sopra, sospesa o infissa su un supporto. Sappiamo di una croce col nome di Leone IV alla quale fu riargentata la “virga in qua cruce continetur” e la quale “stat parte dextra iuxta altare maiore”[39], la collocazione e la funzione di questo elemento interroga particolarmente, vi potrebbe essere un rimando ad una croce processionale collocata presso l’altare, ancora una volta il maggiore, e che necessitava di un supporto eventualmente fisso.

Le donazioni di croci interessano anche gli altari laterali, il papa Ilario dona a ciascuno degli oratori della Basilica Salvatoris, l’uno di S. Giovanni Evangelista, l’altro di S. Giovanni Battista, una “confessio” con una croce d’oro e fa un simile donativo, ma in questo caso col legno della Santa Croce, per l’Oratorio della Santa Croce[40]; per un altro Oratorio della Santa Croce, quello della Basilica Sancti Petri, Papa Simmaco dona una “confessionem et crucem ex auro”[41]. Appare estremamente significativo che il Liber Pontificalis parli di “confessionem et crucem ex auro” come di un insieme e il legame - o la citazione dei due elementi in associazione - si riscontra in più di un passaggio, tanto per le due maggiori basiliche dell’Urbe che per Santa Maria Maggiore, per la quale non mancano donativi di croci per l’altare[42].

La connessione tra sepolcro venerato, altare maggiore e croce sembra un dato sufficientemente documentato, più ardua risulta la ricostruzione della disposizione strettamente liturgica.

L’enfasi data a certe donazioni, la preziosità del materiale utilizzato, l’unicità del pezzo donato, lasciano intendere che l’oggetto fosse destinato ad un uso che prevedesse centralità, rilievo e visibilità.

Nell’ambito ravennate, sappiamo che il vescovo Maximianus “crucem vero auream maiorem ipse fieri iussit et pretiosissimis gemmis et margaritis ornavit”[43], ricorre il termine “maiorem” ad evidenziare la monumentalità che l’oggetto doveva avere anche nella sua collocazione. Nel VI secolo il vescovo Agnellus (557-570) “fecit crucem magnam de argento in Ursiana ecclesia super sedem post tergum pontificis in qua sua effigies manibus expansis orat”[44]; l’esistenza di una croce argentea di notevoli dimensioni collocata sopra la cathedra o al centro del catino absidale, può rinviare ad una centralità liturgica del manufatto metallico[45].

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Un elemento mobile

Nel Vaticanus Reginensis 316, noto anche come Sacramentario Gelasiano, databile al 750 circa, nelle pagine che descrivono il rito del Venerdì Santo, si legge: “hora nona procedunt omnes ad ecclesiam; et ponitur crux super altare”; non è chiaro se sia un resto di riti gerosolimitani o il ritorno della croce, celata durante la quaresima, ma è certo che la croce è messa sull’altare subito dopo l’ingresso; dopo alcune orazioni “ ingrediuntur diaconi in sacrario. Procedunt cum corpore et sanguinis Domini quod ante die remansit, et ponunt super altare. Et venit sacerdos ante altare adorans crucem Domini et osculans[47]. L’identificazione tra altare e Calvario è palese anche nei suoi aspetti di mistica e didattica eucaristica, non senza analogie col sermone di S. Agostino: “accostatevi a prendere da questo altare con timore e tremore; sappiate riconoscere nel pane ciò che pendette dalla croce e nel calice ciò che sgorgò dal costato”[48]. Il testo del Sacramentario parla inoltre chiaramente di croce sull’altare prima del dispiegamento delle tovaglie per accogliere le specie eucaristiche; la croce doveva essere sull’altare, ma in posizione distaccata dalla mensa, per non intralciare la disposizione delle sacre specie.

In Occidente fonti più tarde attestano che la croce veniva portata sull’altare solo nel momento della celebrazione eucaristica; Innocenzo III riferisce nel De Sacro Altaris Mysterio: “inter duo candelabra in altari crux collocatur media[49]; nell’Ordo Bernhardi si specifica che durante il canto della Messa “crux a mansionariis super altare maius ponitur[50]. Abbiamo inoltre l’attestazione che in alcune diocesi di Francia fino al secolo XVI vigeva la norma che fosse il celebrante a portare la croce sull’altare[51]. Il grande numero di croci astili realizzate nel Medioevo in modo da poter essere staccate dall’asta e che presentano la possibilità di essere infisse su un piedistallo trova forse una ragione anche in questa logica[52]; in proposito il Cӕremonialis Episcoporum fa fede di un utilizzo che prevede una croce mobile, indipendente dall’elemento che la sorregge, allorquando per l’adorazione del Venerdì Santo parla di “staccare la croce dal piedistallo”[53].

La prova di questi usi giustificherebbe il perché di tante rappresentazioni dell’altare senza croce anche nell’inoltrato XV secolo, quando ormai la croce sull’altare durante la Messa è attestata ovunque; è probabile che in alcuni luoghi essa venisse portata all’altare solo in alcuni momenti, giacchè il vero e proprio sacrificio non si compie durante l’arco di tutta la celebrazione, ma solo a momento della consacrazione, né possiamo escludere che in alcune zone per uso antico, o per abuso recente, essa fosse assente o collocata altrove. L’esigenza di rendere visibile la croce durante la “crocifissione incruenta” rappresentata dalla Messa è anche da mettere in connessione coi limiti dell’umana comprensione, per la quale non vi è l’evidenza sensibile del mistero celebrato. Già S. Ambrogio diceva “etsi nunc Christus non videtur offerre, tamen ipse offertur in terris quando corpus Christi offertur[54]; la rappresentazione visibile diviene quindi anche una naturale esigenza.

Prove di una croce sull’altare in ambito orientale nel V-VI secolo

Un collegamento s’impone con la raffigurazione, sulla pisside del Cleveland Museum of Art, di una mensa d’altare tripode sotto un ciborio, sulla quale si trovano una croce e un libro chiuso[55]; nonostante le difficoltà sulla datazione, che si aggira intorno al secolo V-VI, abbiamo la prova di una croce in posizione centrale rispetto alla mensa, in evidente funzione rituale. Essa si trova inoltre al centro della curva di un altare tripode a sigma, nella posizione opposta al celebrante, che era sempre sul lato retto; non è escluso che la croce avesse un piedistallo proprio ed indipendente dalla mensa; sul ritrovamento della pisside sussistono alcuni dubbi per la sua provenienza da collezione, ma l’ipotesi concordemente avanzata è l’ambito siro-palestinese.

La pisside del "Cleveland Museum of art" (V-VI sec.); sulla sinistra l'altare tripode con croce

Interrogativi solleva anche la raffigurazione di un sarcofago restituito dalla necropoli di Takadyn, in Asia Minore, che sembra riprodurre un altare sormontato da una croce, sotto un baldacchino ad arco; si nota che la croce rappresentata è dotata di un piedistallo, il che indurrebbe a pensare ad un elemento mobile[56]. La datazione della necropoli e del sarcofago è piuttosto incerta, potrebbe collocarsi nei secoli V, VI.

Di particolare rilievo è la notizia che, nel secolo VI, nelle chiese nestoriane di Mesopotamia, fosse corrente e prescritta la presenza della croce su una mensola soprastante l’altare addossato al muro, il cosiddetto “Katastroma[57]. Ad esso era rivolto il sacerdote durante la consacrazione. Siamo in presenza di alcuni dati che testimoniano di usi comuni o similari nell’Oriente cristiano antico per un epoca che non oltrepassa il secolo V-VI.

Conclusioni

Legimus in Veteri testamento quod semper Dominus Moysi et Aron ad ostium tabernacoli sit locutus” scrive Girolamo[58]. Per rivolgersi a Dio e riceverne benedizioni è naturale che ci si indirizzi verso di Lui o verso ciò che indica la Sua presenza e il Suo legame con gli uomini. Nel vecchio rituale del tempio di Gerusalemme il sacrificio e la preghiera erano rivolti verso l’Arca dell’Alleanza e, dopo che l’arca fu depredata, verso la pietra che la sosteneva, la cosiddetta sethiya. Nelle sinagoghe, dove non era possibile sacrificare, si andava per pregare e ci si rivolgeva verso Gerusalemme[59], nella cui direzione era una nicchia contenente i libri sacri, così come l’Arca aveva contenuto le tavole della legge (i ritrovamenti archeologici della sinagoga di Doura Europos hanno reso un esempio di tale nicchia ricavata nel muro con precisa orientazione).

Il sacerdote è mediatore e, nel suo ruolo d’intercessore, non può che rivolgersi a Dio o a ciò che lo figura. Come l’Arca nell’Antico Testamento così la Croce è il simbolo della Nuova Alleanza suggellata da Cristo, del nuovo legame tra Dio e gli uomini. Il mosaico di S. Pudenziana a Roma, dal carattere più liturgico che decorativo, sembra testimoniare particolarmente di questa idea della Croce come ponte fra il divino e l’umano, come unico mezzo per il raggiungimento della Gerusalemme celeste verso cui indirizzarsi[60]. La Croce è il fulcro verso il quale lo sguardo di celebrante e fedeli si “orienta”. Secondo la tesi di Stefan Heid la croce e l’abside assumono in questo caso la funzione di “Oriente ideale” verso cui rivolgere la preghiera, specie negli edifici in cui manca un orientamento “fisico” verso il sorgere del sole, come a Roma[61]. E’ anche ipotizzabile che in antico la croce non obbligasse sempre e comunque ad un rivolgimento diretto verso di essa, ma che essa fosse presente, in posizioni diverse, ma sempre centrali, come segno visibile del rinnovarsi del sacrificio di Cristo sugli altari: un monito per celebrante e fedeli. Per visibilia ad invisibilia. In un contesto eucaristico ove altro è quel che si vede, altro è quel che è, l’immagine del mistero che si realizza ha la sua più che ragionevole collocazione.

E’ comunque un dato di fatto che il rivolgimento verso la croce prevale nella liturgia romana fino a diventare generale almeno a partire dal Basso Medioevo. Non si può forse affermare con certezza la diffusione universale di questa pratica in epoca tardo antica e non è certo che fin dai primi secoli ovunque si sia pregato “versus crucem”. In ambito romano e ravennate tuttavia è probabile che già nel corso del V-VI secolo, nello spazio presbiterale, la croce potesse essere sospesa ad una certa altezza nella navata o nel presbiterio, oppure che fosse collocata in prossimità dell’altare, forse su un piedistallo indipendente dalla mensa[62], oppure, come accennato sopra, che fosse rappresentata nell’abside. Analoghe appaiono le datazioni per l’ambito orientale.

E’ forse possibile che per il rito romano la generalizzazione uniforme degli usi non si sia avuta prima del XII secolo, ma la celebrazione verso la croce o la centrale presenza di essa in ambito liturgico sono difficili da negare già per il secolo V e le testimonianze archeologiche e documentali sembrano andare in tal senso.

Don Stefano Carusi

[47] A. Chavasse, Le cycle liturgique romain annuel selon le sacramentare du “Vaticanus reginensis 316” in Textes liturgiques de l’Eglise de Rome, Paris 1997, p. 98-103 ; Id., La liturgie de la Ville de Rome du Vᵉ au VIIᵉ siècle, Roma 1993 (Studia Anselmiana 112 - Analecta liturgica 18), p. 191, l’autore rimanda questa pratica liturgica del Venerdì Santo alla liturgia titolare.

[48] Aug., serm. CCXXVIII B (PL 46, 827-828). Miscellanea Agostiniana, vol. I, Sancti Augustini sermones post Maurinos reperti, ed. G. Morin O.S.B., Romae, Typis polyglottis Vaticanis, 1930, pp. 18-20.

[49] Innoc. III, De Sacro Alt. Myst., II, c. 21 (PL 217, 811). Il sacrosanto mistero dell’altare (De sacro altaris mysterio), a cura di Stanislao Fioramonti, Città del Vaticano 2002 (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 15).

[50] Ludwig Fischer (ed.), Bernhardi cardinalis et Lateranensis ecclesiae prioris Ordo Officiorum Ecclesiae Lateranensis, München u. Freising 1916, p. 98; M. Righetti, Manuale, p. 536 ss.

[51] Ibidem.

[52] Già l’Ordo Romanus I, 125-126 (Andrieu), parla di “cruces portantes”, sebbene la loro funzione non sia stata del tutto chiarita.

[53] Cӕremonialis Episcoporum, l. II, cap. XXV, 23 (ed. 1752).

[54] Ambr., Explan. psalm. XII, XXXVIII, 25, 3 (ed. Petschenig, CSEL 64/6).

[55] Archer St. Clair, The Visit to the Tomb:Narrative and liturgy Three Early Christian Pyxides, in Gesta, t. 18 (1979) p. 131 ss., fig. 9.

[56] Pasquale Testini, Archeologia Cristiana, Bari 1980, p. 305.

[57] Si tratta delle omelie dello Pseudo-Narsai, cfr. Richard Hugh Connolly, The liturgical homilies of Narsai, Cambridge 1909, Cfr. Sebastian P. Brock, Diachronic aspects of syriac word formation : an aid for dating anonymous texts, in V Symposium Syriacum (Katholieke Universiteit, Leuven, 29-31 août 1988), Roma 1990, pp. 321-330, (OCA 236); Louise Abramowski, Die liturgische Homilie des Ps. Narses mit dem Meßbekenntnis und einem Theodor-Zitat, in Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester 78 (1996), p. 87-100.

[58] Hier., epist. XVIII A (ad Damasum), 8, 1 (CSEL 54/1).
[59] Louis Bouyer, Architettura e liturgia, Magnano 1994, pp. 16 e ss.
[60] S. Heid, Kreuz, Jerusalem, Kosmos, Munster 2001, pp. 169 e ss.
[61] S. Heid, Gebetshaltung und Ostung in frühchristlicher Zeit. in Rivista di Archeologia Cristiana 82 (2006).
[62] Quest’ultima soluzione risolverebbe, nel caso di Roma, il famoso nodo di una croce sull’altare prima dell’attestato dispiegamento delle tovaglie da parte dei diaconi.