Il linguaggio usato nei Vangeli

Una volta chiarito il genere letterario dei vangeli è importante comprendere il tipo di linguaggio con il quale gli stessi sono stati scritti. Problema non facile in quanto normalmente il lettore non ha la possibilità di accedere al testo in lingua originale e si trova di fronte a una traduzione di un testo trasmesso duemila anni fa, scritto in una lingua (greco biblico) ormai defunta, e con immagini scaturite da una cultura orientale molto differente e spesso opposta da quella occidentale.

IMMAGINI
Per trasmettere la “Buona Notizia” di Gesù gli evangelisti preferiscono adoperare le immagini anziché i concetti. I vangeli pur essendo un'opera teologica non sono una sequenza di freddi concetti teologici ma di calde immagini riguardanti la vita. Per questo quando si legge il vangelo è necessario distinguere che cosa l’autore intende comunicare da come lo esprime. Il messaggio che l’evangelista trasmette è la Parola di Dio sempre attuale nel tempo. Il modo di presentarla appartiene al suo mondo culturale, una cultura che predilige l'immagine al concetto. Alla fine del vangelo di Marco si trova scritto che Il Signore Gesù fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio (Mc 16,19). Quello che l'evangelista vuole dire è che quell'individuo messo a morte dalle supreme autorità religione come un bestemmiatore aveva in realtà la stessa condizione divina. Le Modalità per esprimere questo concetto vengono prese a prestito dall'etichetta reale dove a destra del trono del re sedeva colui che era destinato a succedergli ed esercitare lo stesso potere. Alcuni esempi presi dal linguaggio comune aiutano a comprendere questa distinzione tra un messaggio e il modo di trasmetterlo attraverso immagini. “Il tale si trova in precarie condizioni economiche” è una frase formulata in maniera corretta, ma sarà più incisiva se espressa con un’ immagine: “Tizio è al verde”. E così si può dire che qualcuno si è “molto sorpreso” ma più efficacemente che “è caduto dalle nuvole”. La sfrontatezza verrà meglio descritta con “una faccia di bronzo”, un carattere bizzarro con “i grilli per la testa” e se qualcuno è particolarmente nervoso “ha un diavolo per capello”. Ugualmente l’oratore noioso “fa venire la barba” e il vincitore di un grande premio viene sempre “baciato dalla dèa Fortuna” e una notizia sensazionale è sempre una bomba...

Nella cultura italiana queste immagini vengono usate nel linguaggio comune in quanto conosciute e accettate da tutti. Ognuno comprende che si tratta di modi di dire e nessuno crederà che ci siano dei tizi che vanno in giro con insetti sulla testa e con diavoli nascosti tra i capelli. Ma queste espressioni, lette tra duemila anni in altre culture, in assenza delle conoscenze adeguate, correrebbero il rischio di essere prese letteralmente. Se molte delle immagini con le quali gli evangelisti trasmettono il messaggio di Gesù sono abbastanza comprensibili per altre bisogna rifarsi alla cultura orientale. Ogni lettore comprende che non deve prendere alla lettera inviti quali: Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te e così per l'invito ad amputarsi la mano e il piede o di affogarsi con appesa al collo una macina girata da asino (Mt 5,29; 18,8-9). Anche se un grande Padre della chiesa, Origene, quando era poco più che diciottenne prese alla lettera l'invito di Gesù di farsi eunuchi per il regno dei cieli (Mt 19,12) e si evirò. Quando poi in età matura comprese l'errore e se ne pentì, era troppo tardi per rimediare. Nel linguaggio quotidiano per esprimere la caparbietà di un individuo si dice che è “sordo” ad ogni argomento, di una persona fidata che è “muto” come un pesce. L’ostinato “non vede” e chi ha una condotta incerta “zoppica”. Ugualmente nella Bibbia cecità e sordità sono immagini adoperate per indicare ostinazione (Is 42,18-19) e nei vangeli i ciechi non sono solo i non vedenti, ma coloro che non vogliono o non possono "vedere" l’ideale d’uomo proposto da Gesù. Ecco perché Gesù chiama i farisei “ciechi e guide dei ciechi” (Mt 15,14). La missione di Gesù di aprire gli occhi ai ciechi (Lc 4,18) non consiste semplicemente nel restituire la vista ai non vedenti, ma soprattutto nel dare a tutti la possibilità di vedere il vero volto del Padre e di conseguenza la dignità dell'uomo chiamato a essere figlio di Dio. L'attività di Gesù non riguarda tanto la fisicità delle persone quanto la loro interiorità. Gli evangelisti, descrivendo le guarigioni compiute da Gesù non intendono presentare un Cristo-pronto-soccorso ambulante, ma l’azione profonda del Signore tendente a eliminare gli ostacoli che impediscono di accogliere il suo messaggio. Nel narrare queste azioni gli evangelisti evitano la parola greca che significa miracolo e al suo posto usano preferibilmente il termine segno, perchè l'evento miracoloso rimanda a un significato più alto e profondo, ma le figure usate nella cultura orientale non sempre equivalgono a quelle occidentali, e spesso sono diametralmente opposte: l’oca, immagine di sapienza nel mondo ebraico (Ber. 9,57a) è di stupidità nel mondo occidentale. Nel vangelo Gesù si riferisce a Erode chiamandolo “quella volpe...” (Lc 13,32). Questo animale, che nella cultura occidentale rappresenta l’astuzia, nel mondo semitico veniva considerata la bestia più insignificante: “è meglio essere la coda di un leone che la testa di una volpe”, sentenzia il Talmud (P. Ab. 4,20; Ne 3,35). Gesù non ritiene Erode un furbo ma un insulso. Nella Bibbia esistono inoltre espressioni idiomatiche che non hanno il significato che sembrano presentare letteralmente. “Cospargere d’olio il capo” (Sal 23,5) equivale a “profumare”, e “gettare i sandali” (Sal 60,10) “conquistare”. Ammassare “carboni ardenti sul capo” (Rm 12,20) di qualcuno non significa arrostirlo, ma farlo vergognare. Ugualmente gli organi del corpo umano non hanno il significato equivalente nella cultura occidentale. Quando il salmista scrive che il Signore scruta le reni degli uomini (Sal 7,10) non pensa il padreterno impegnato in un'ecografia. Le reni nella cultura ebraica sono la sede della coscienza morale, della mente. Quando questi criteri non vengano tenuti presenti nella traduzione, il testo diventa oscuro. Nel Primo Libro di Samuele si trova scritto di Nabal che "il suo cuore gli morì in petto ed egli divenne come una pietra. Dieci giorni dopo Yahvé colpì Nabal e lui morì". E' chiaro che per cuore non si intende il muscolo cardiaco, ma le capacità intellettuali dell'individuo. Per questo nella cultura ebraica il duro di cuore non è il crudele, ma il testardo. Il lettore comune, che non è tenuto a conoscere tutti i modi di dire del mondo ebraico, troverà incomprensibile l’invito rivolto dal re Davide al suo ufficiale Uria: “Scendi a casa tua e lavati i piedi” (2 Sam 11,8). Lavarsi i piedi è un eufemismo che sta per unirsi con la moglie (2 Sam 11,11). Davide, che “al tempo in cui i re sogliono andare in guerra” preferiva rimanere a Gerusalemme a fare l’amore, aveva ottenuto i favori della sposa di Uria mentre questi era impegnato in battaglia contro gli Ammoniti (2 Sam 11,1). Richiamato Uria a Gerusalemme, il re Davide tenta di attribuirgli la paternità del bambino atteso da Betsabea. Visto che Uria, cornuto ma non stupido, rifiuta di lavarsi i piedi, a Davide non rimane che assassinarlo (2 Sam 11,14-17). Un chiaro esempio di come un’espressione possa essere compresa solo se inserita nel suo contesto culturale, si trova nel battesimo di Gesù. Giovanni annuncia l’arrivo di Gesù come colui del quale non è “degno di sciogliere il legaccio del sandalo” (Gv 1,27). Nella cultura occidentale l’espressione può sembrare un pio attestato di umiltà da parte del Battista. Il contenuto della frase è in realtà molto più ricco. La formula “sciogliere il legaccio del sandalo” appartiene alle norme giuridiche che regolano il matrimonio ebraico, e si riferiscono alla legge del Levirato (dal latino levir, cognato), istituzione che si prefiggeva di salvaguardare il patrimonio del clan familiare (Dt 25,5-10). Quando una donna rimaneva vedova senza figli, il cognato aveva l’obbligo di fecondarla (Gen 38). Il bambino nato avrebbe portato il nome del marito defunto. Qualora il cognato si fosse rifiutato colui che giuridicamente lo seguiva, prendeva il suo diritto di mettere incinta la vedova mediante la cerimonia detta dello “scalzamento”, che consisteva nel togliere il sandalo dal piede dell’avente diritto (Rt 4,7-8). Il rifiuto veniva considerato un grande disonore, e "la famiglia di lui sarà chiamata la famiglia dello scalzato". Conoscendo questo retroterra culturale, l’espressione usata dal Battista si inserisce nella simbologia ebraica del rapporto matrimoniale tra Dio-sposo, e Israele-sposa (Os 2). Giovanni, creduto dal popolo l’atteso Messia (Gv 1,19-20), afferma che il diritto di fecondare Israele non gli appartiene; non è lui lo sposo, ma Gesù: egli deve crescere e io invece diminuire (Gv 3,29-30). (Continua...)

ISTRUZIONE CATTOLICA