L’archeologia ci parla del Gesù storico, di Pierbattista Pizzaballa 2)

2) L’impiego dell’archeologia nelle tappe della ricerca del Gesù storico
Un esauriente excursus sull’utilizzo dell’archeologia nelle tappe dalla ricerca sul Gesù storico è stato recentemente offerto da Sean Freyne, al quale qui mi rifaccio brevemente (cfr. Sean Freyne, “Archaeology and Hystorical Jesus”, in J. Charlesworth, ed., Jesus and Archaeology, Cambridge 2006).
Quando si pose la questione liberale del Gesù storico (Old Quest 1778-1906), l’esplorazione archeologica della Palestina era solo all’inizio. Viaggiatori, ricercatori e topografi gettavano le basi per la toponomastica e per la localizzazione dei siti biblici dell’Antico e Nuovo Testamento e nel 1865, da un gruppo di biblisti e sacerdoti, fu costituito il Palestine Exploration Fund (PEF), allo scopo di investigare l’archeologia, la geografia, gli usi e costumi, la cultura, la geologia e la storia naturale della Terra Santa. (Il PEF era connesso all’Ufficio britannico della Reale Ingegneria e tra i suoi più eminenti studiosi annoverò: C. Warren, O. Kitchner, T.I. Lawrence, K. Kenyon, A. Stanley. Ampie relazioni furono pubblicate nel monumentale PEF Quaterly Statement).
Nessuno degli autori protagonisti della Old Quest, pur avendo avuto il merito di approfondire lo studio critico delle fonti documentarie, rivolse attenzione né al contesto storico, né alle fonti archeologiche, sebbene, alcuni come Ernest Renan (E. Renan, Vie de Jésus, 1863), si riferirono romanticamente al paesaggio della Terra Santa come ad un «quinto vangelo».
L’approccio demitologizzante di Rudolf Bultmann (Jesus, München-Hamburg 1926; 19652) e seguaci, non ammettendo continuità tra il Gesù della storia e il Cristo del kérygma, tralasciarono deliberatamente ogni interesse per la cultura materiale e sociale di Gesù e dei primi cristiani.
Durante la fase intermedia della ricerca, talora denominata No Quest (1921-1953), solo due studiosi, i tedeschi Albrecht Alt (+1956) e Joachim Jeremias (1900-1979), entrambi residenti in Palestina, avevano rivolto l’attenzione alla geografia fisica e umana della Terra Santa, inserendosi appieno nella via maestra tracciata da Gustav Dalman (1855-1941) con i suoi sette volumi de Arbeit und Sitte in Palästina (Lavoro e costumi della Palestina). I loro approcci al NT, pionieristicamente attenti all’ambiente, al milieu palestinese, intesi come chiavi interpretative per la comprensione dei detti e delle parabole di Gesù, non ebbero sufficiente seguito.
La prospettiva migliorò nel 1953 con la celebre conferenza di Marburgo di Ernst Käseman che, di fatto, inaugurò la New Quest (1953-1985) della ricerca. Con la sua affermazione sulla necessità di mantenere la natura storica dell’annuncio, Käseman, nella dinamica della risposta di fede, rivendicò la convergenza essenziale tra la proclamazione «su» Gesù e la proclamazione «di» Gesù, cioè, in altri termini, la continuità tra il kérygma e i fatti storici della vita di Gesù.
Stabilendo il criterio di «originalità» o «differenza», in base al quale la tradizione «di» Gesù, (nel più ampio ambito delle tradizioni «su» Gesù), è da considerarsi autentica quando «non sia riconducibile al giudaismo o ascrivibile al cristianesimo antico», introduceva la possibilità per l’archeologia del giudaismo del secondo tempio e per l’archeologia paleocristiana di essere chiamate in causa.
I tempi per un coinvolgimento dell’archeologia nel dibattito, non erano, tuttavia ancora maturi e non lo saranno neanche agli inizi degli anni ’80 col sorgere della terza corrente della ricerca (Third Quest), definita «un vero e propro rinascimento» degli studi su Gesù (M.J. Borg, «A Rainassance in Jesus Studies», in Theology Today, 45(1988), 280-292).
A fronte delle numerose pubblicazioni dei reports preliminari o delle relazioni finali sui singoli scavi archeologici nella regione, di siti anche direttamente connessi con la vita e l’attività di Gesù, mancavano gli studi organici di elaborazione e interpretazione dei dati. La grande mole di materiale pubblicato, con gli innumerevoli repertori numismatici, epigrafici stratigrafici, ceramici, architettonici, iconografici, ecc., rimaneva di volta in volta isolata perché circoscritta nell’ambito specialistico degli addetti ai lavori e spesso distaccata dal contesto generale.
Senza un approccio sistematico più articolato e globale, che organizzasse tali informazioni entro una griglia storica o sociale, tutta la messe complessa dei dati emersi dagli scavi, rimaneva purtroppo preclusa alla maggioranza dei biblisti che non avrebbero potuto servirsene. Alcuni solitari tentativi, in tal senso furono intrapresi, per esempio 1978 da Eric e Carol Meyers con James Strange nella pubblicazione del survey sull’Alta Galilea e il Golan, seguito nel 1981 da Archaeology, the Rabbis & Early Christianity dove si intavolava una discussione con storici del Giudaismo antico e del Cristianesimo antico, senza peraltro ottenere immediata risonanza.
Qualche anno prima dal 1972 al 1975 si pubblicavano i risultati monografici delle prime fortunate campagne di scavo a Cafarnao, coronate con la scoperta della tradizionale casa di Simon Pietro, a cura dei professori Virgilio C. Corbo e Stanislao Loffreda, Emanuele Testa e August Spijkerman che presentavano gli edifici, la ceramica, i graffiti e le monete del villaggio. Ma, anche in questo caso, attenzione e energie furono assorbite dagli scavi, che saranno in corso fino agli anni novanta (per poi essere ripresi nel 2000), e dallo studio dei materiali, impedendo un’ auspicata opera di sintesi.
All’interno della Third Quest, gli studi, invece che hanno avuto indubbie ripercussioni per la loro influenza sull’approccio al Gesù storico, furono, tra gli altri, quelli di E. P. Sanders (Jesus and Judaism 1985) e Geza Vermes (Jesus the Jew. A Historian’s Reeading of the Gospels, London, 1973; Jesus and the World of Judaism, London 1983), che invitavano a guardare al mondo del Giudaismo del I secolo, nel quale Gesù poteva essere indagato e compreso.
La ricerca, com’è noto, fu alimentata dal provocatorio Jesus Seminar fondato da Robert Funk e John Dominic Crossan, dagli inizi degli anni ’80, i cui risultati furono pubblicati in Forum (dal 1985 al 1994). Anche in questi studi, tuttavia, principalmente concentrati sulle considerazioni letterarie delle tradizioni orali, come è stato rilevato dalla critica, l’archeologia non è affatto considerata tra i metodi della ricerca del Gesù storico, sebbene, nei suoi ultimi lavori, lo stesso J. D. Crossan si riferisca all’archeologia della Galilea nel periodo romano antico (J.D. Crossan, The Birth of Christianity: Discovering What Happened in Years Immediately after the Execution of Jesus, New York 1998).
La Galilea, difatti, intesa come il contesto privilegiato nel quale si colloca il Gesù storico, viene nevralgicamente a trovarsi al centro delle indagini, tanto dell’archeologia quanto delle discipline sociologiche. Uno sguardo ai titoli di maggior successo lo conferma facilmente.
Sulla scorta dei sociologi G.I. Lensky e J. Kautsky, che, in periodi diversi, si sono occupati delle stratificazioni sociali nell’impero rurale e delle lotte di classe nella prospettiva della sociologia storica (G.I. Lensky, Power and Privilege, A Teory of Social Stratification, New York 1966; J. Kautsky, The Politics of Aristocratic Empire,Chapel Hill 1982), diversi autori della Third Quest hanno organizzato i dati storici e archeologici a disposizione all’interno di uno schema socio-economico. Tra coloro che usano il modello Lensky-Kautsky, oltre a J.D. Crossan (The Historical Jesus. The Life of a Mediterranean, Edinburgh 1991) va citato R. Horsley (R. Horsley, Archaeology, History and Society in Galilee. The social Context of Jesus and the Rabbis, 1996; Galilee: History, Politics, People 1995, tradotto in italiano con Galilea. Storia, politica, popolazione, Brescia, 2006).
I risultati raggiunti da Crossan e Horsley, sono molto importanti ma evidenziano l’insufficienza di un metodo nel quale il modello adottato finisce per prevalere sul dato; come osserva Freyne: Crossan e Horsley «non prestano sufficiente attenzione a quei dati che potrebbero contraddire le loro posizioni (…) [tali posizioni] sembrerebbero quindi predeterminate sulla base della scelta del modello da adottare». D’altra parte, come sostiene Horsley, è vero anche il contrario, che gli archeologi della Galilea sono generalmente privi di un solido background antropologico e socio-economico, quindi le loro ricostruzioni si rivelano anacronistiche e preconcette.
Insomma, il dibattito è attualmente in corso, e verte ancora sul metodo più idoneo con il quale fare uso delle evidenze materiali offerte dall’archeologia nella ricostruzione del Gesù storico; un tentativo in questo senso può essere considerato quello di Thomas E. Levy, con il suo emblematico The Archaeology of Society in the Holy Land (London 1995). Gli archeologi dunque si stanno addentrando nel terreno delle scienze sociali. Mentre i biblisti cominciano a utilizzare i dati offerti dall’archeologia.
Ad esempio un parziale uso dei dati archeologici si registra nei tre volumi del fondamentale studio di John P. Meier (Meier J.P., Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico: I. Le radici del problema e della persona, Brescia 2001 (orig. 1991); 2. Mentore, messaggio e miracoli, 2002 (orig. 1994); 3. Compagni e antagonisti, 2003 (orig. 2001).), il quale scrive testualmente: «Negli anni ‘90, la terza ricerca ha tentato di essere più sofisticata nella sua metodologia, più autocosciente e più autocritica nell’affrontare le precomprensioni e gli orientamenti di un dato autore, e più determinata a scrivere storia, invece di una teologia o cristologia nascoste. La terza ricerca beneficia delle recenti scoperte archeologiche, di una migliore conoscenza della lingua aramaica e del contesto culturale della Palestina del I secolo e di una concezione variegata del giudaismo (o giudaismi) intorno al trapasso delle epoche, nonché di nuove intuizioni offerte dall’analisi sociologica e dalla teoria letteraria moderna». (J.P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. 2: Mentore, messaggio e miracoli, 7-8).
I migliori tentativi in questo campo sono stati quelli di James Charlesworth del Princeton Theological Seminar («Research on the Historical Jesus Today: Jesus and the Pseudepigrapha, the Dead Sea Scrolls, the Nag Hammadi Codices, Josephus, and Archaeology», in PSB 6(1985), 95-115; «The Jesus of History and Archaeology of Palestine», in Jesus within Judaism: New Light from Exciting Archaeological Discoveries, ABRL 1, New York-London 1988, 103-130; «Archaeology, Jesus and Christian Faith», in J.H. Charlesworth, ed., What Has Archaeology to Do with Faith?, Philadelphia 1992, 1-22) e naturalmente quelli dello stesso Sean Freyne (Jesus, a Jewish Galilean, London 2004, in italiano Gesù ebreo di Galilea. Una rilettura del Gesù storico, Cinisello Balsamo 2006), che applicano ai dati i modelli, i metodi e le teorie delle scienze sociali.
Costoro hanno a ragione sottolineato che gli storici del «Gesù nel contesto ebraico» non possono non tenere in considerazione le evidenze archeologiche allo stesso modo che le evidenze letterarie.
Grande successo hanno riscosso le due conferenze internazionali di studi sulla Galilea nel 1989 e nel 1996 che hanno riunito insieme archeologi, storici dell’antichità e studiosi di letteratura (L. Levine ed., The Galilee in Late Antiquity, New York, 1992; E. Meyers ed., Galilee through the Centuries: Confluence of Culture, Winona Lake 1999).
Un ulteriore momento di svolta nella ricerca può essere considerato il seminario sull’archeologia del NT e il Gesù storico di Chicago del 1994 (Society for Biblical Literature Seminar Papers, Atlanta 1994). Il convegno ha evidenziato come l’attuale ricerca sul Gesù storico sia guidata dall’approccio «laico nordamericano piuttosto che da quello religioso tedesco», dove politica, economia e lotta di classe, il contesto economico e sociale del giudaismo e dell’ellenismo del I secolo, vengono considerati più importanti della religione per la valutazione di Gesù e del suo messaggio (Freyne, 68).
Al convegno fu inoltre proposto un metodo, alternativo a quello di Horsley e Crossan, definito dall’autrice Marinane Sawicki, «archeologia della mentalità galilaica» che implica le tre tappe di analisi, analogia e ipotesi. Mentre il dibattito contemporaneo è concentrato sui tre aspetti riguardanti le culture, le classi e i generi, sono comparse le opere di Jonathan Reed, Archaeology and the Galilaen Jesus: a Re-examination of the Evidence, Harrisburg 2000; J. D. Crossan e J. Reed, Excavating Jesus: Beneath the Stones, Behind the Texts, New York 2001 e Mark A. Chancey, Greco-roman Culture and the Galilee of Jesus, Cambridge 2005, tutti, naturalmente, riguardanti la Galilea. Ad essi è da aggiungere D. Flusser, The Sage from Galilee, 2007. (continua)

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