it.news
1400

Pensieri di uno scomunicato. Di M° Aurelio Porfiri

Come tutti sappiamo, la pena della scomunica inflitta dalla Chiesa è la massima pena per un credente. Lo mette al di fuori della comunione con la stessa istituzione quando si macchia di colpe che attentano all’integrità della dottrina e all’unità del corpo ecclesiale.

Nelle opere di sant’Antonio leggiamo: “excommunicatus est separatus a septem bonis. 1) A coelo; 2) Ab omni Sacramento; 3) Ab ecclesiae suffragio; 4) A divino officio; 5) A fidelium consortio; 6) A quolibet actu; 7) A fidelium sepulcro” (in Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Vol. 72, 1853).

Gaetano Moroni (+1883) nella sua cospicua voce dedicata alla scomunica nel suo straordinario Dizionario, ci avverte come la scomunica fosse minore o maggiore, quest’ultima ovviamente da temersi maggiormente e come essa fosse anche distinta in latae sententiae (si incorre automaticamente nella pena quando si compiono gli atti per cui essa è stabilita) e ferendae sententiae che viene invece comminata da un giudice dopo un procedimento canonico.

Nel canone 1364 del Codice di Diritto Canonico viene detto che incorrono nella scomunica latae sententiae l’apostata, l’eretico e lo scismatico. E qui ci sarebbe veramente molto da dire ma passiamo oltre.

Esisteva poi un tipo di scomunica particolarmente dura, detta vitando, che doveva essere pubblicamente asserita e che colpiva il reo con pene molto più restrittive. Nella voce sulla scomunica per l’enciclopedia Treccani redatta da Agostino Testo e Nicola Turchi (che fu storico delle religioni e prete modernista) nell’anno 1936 tra l’altro viene detto:

“Circa gli effetti, conviene distinguere tre classi di scomunicati, cioè quelli di scomunica semplice, quelli colpiti da sentenza o declaratoria o condannatoria, e gli scomunicati vitandi.

Lo scomunicato semplice non può ricevere i sacramenti, assistere ai divini uffizî, compire atti legali ecclesiastici, esercitare un ufficio ecclesiastico, usare dei privilegi ottenuti, né eleggere o nominare o presentare; non partecipa alle indulgenze, suffragi e pubbliche preghiere della Chiesa; non può ottenere carica o pensione ecclesiastica, né celebrare e amministrare i sacramenti e i sacramentali, e neppure compiere atti di giurisdizione.

Lo scomunicato colpito da sentenza declaratoria o condannatoria, oltre agli effetti precedenti, non può aver parte attiva nei divini uffizî, e deve venire espulso da essi; non può ricevere i sacramentali né avere sepoltura ecclesiastica; è incapace di ricevere qualsiasi grazia pontificia, e perde i frutti della carica o pensione ecclesiastica di cui sia investito.

Lo scomunicato vitando, oltre a tutti gli effetti delle due classi precedenti, perde non solo i frutti ma la stessa dignità, carica o pensione ecclesiastica; deve essere espulso se assiste ai divini uffizî, oppure questi si devono cessare; non è lecito trattare con lui, eccezion fatta per quelli della famiglia, per i servi e i sudditi, e per altri ogniqualvolta vi sia un ragionevole motivo scusante.

Nel diritto odierno è vitando solamente chi abbia usato violenza contro il papa e chi sia stato scomunicato nominalmente dalla S. Sede con sentenza pubblica, nella quale si dica espressamente che è vitando: è perciò caso assai raro”.


Parlando di Nicola Turchi bisognerebbe citare Ernesto Buonaiuti di cui fu compagno di studi e che fu scomunicato per ben tre volte, l’ultima nel 1926 proprio con la scomunica vitando. Se vogliamo leggere nei pensieri di uno scomunicato dovremmo andare a rivedere l’autobiografia che egli scrisse verso la fine della sua vita, Pellegrino di Roma, in cui ricorda l’effetto che ebbe la scomunica maggiore per lui:

“A buon conto, io potei fare d'un subito l'esperienza della ormai pratica invalidità di tutti questi arrugginiti canoni. Il Decreto che mi additava ai fratelli della mia tradizione e della mia Chiesa come scomunicato vitando non mi sottrasse un'amicizia, non fece il vuoto intorno a me, non mi espose ad amari risvegli.

Posso dire che la rete delle mie amicizie si moltiplicò, al contrario, più fitta e più fervida intorno a me, anche se qualcuno dei miei amici fu, dalla costanza nelle cordiali e affezionate comunicazioni con me, esposto ad un rifiuto di assoluzione da parte di qualche confessore zelante, più aderente alla parola dei codici che allo spirito del Vangelo.

Unico ricordo nella mia memoria di un vero valore comminatorio riconosciuto nel nuovo decreto di condanna e nella mia designazione di vitando è quello di un sottile brivido di tremore e di sgomento che mi parve di cogliere nella stretta di mano di un collega universitario, il primo giorno che mi rivide, dopo la sentenza inquisitoriale, nella sala dei professori alla Università di Roma”.


Tutto sommato Buonaiuti fu fortunato e con lui tanti altri modernisti che, colpiti da questa censura tremenda non furono abbandonati da colleghi, amici e studenti. Certo, altro sarebbe se dovremmo descrivere la sofferenza interiore che questa pena provocò in lui, che voleva a tutti i costi essere sacerdote ma di una Chiesa che esisteva soltanto nella sua immaginazione.
Davide Romano condivide questo
12