Il primo comandamento: i peccati contro la speranza

Nell’articolo precedente abbiamo iniziato il discorso sui peccati contro il primo comandamento riguardanti le tre virtù teologali. Prima di passare ai peccati contro la virtù della speranza, bisogna ancora spendere qualche parola su quelli contro la fede, affrontando la tematica del “dubbio ostinato”. C’è infatti da abbattere un luogo comune molto diffuso: che è lecito, anzi possibile o addirittura inevitabile avere qualche dubbio sulle verità di fede. Infatti, si dice, come è possibile non avere qualche dubbio su ciò che è assolutamente non evidente come le verità di fede? Ebbene, dubitare circa le verità di fede (ancor più nel caso di dubbio ostinato) non solo è peccato ma è peccato gravissimo. Le verità di fede, infatti, sono tali perché rivelate da Dio e, in quanto tali, poggiate sul crisma certo ed infallibile della sua autorità indiscussa e della sua veracità assoluta e indiscutibile. Dubitare su una verità di fede, pertanto, sarebbe come ammettere che Dio possa sbagliare o indurre in inganno. Viceversa una verità di fede, quando è tale, è da ritenersi più certa e assoluta delle cosiddette “verità scientifiche”, che poggiano su evidenze incontrovertibili rispetto ai sensi. Si ricordi che la vera questione in gioco nel famoso “caso Galileo”, tanto sbandierato da certa propaganda anticristiana e laicista, era esattamente questa. Galileo affermava la superiorità delle “verità scientifiche”, che si fondano sull’osservazione empirica, sulle verità di fede, che sono del tutto inevidenti. Per dirla in termini semplici, che due più due faccia quattro non si discute, ma sull’eternità dell’Inferno forse si potrebbe esprimere qualche perplessità. In ogni caso dall’evidenza della prima affermazione contro l’inevidenza della seconda, si inferisce la superiorità della prima. Ora la Chiesa reagì e puntò i piedi proprio perché in questo, il pur meritevole e grande scienziato pisano, non aveva visto bene; infatti è più facile che due più due faccia cinque piuttosto che una verità di fede non sia vera! E l’autorità di Dio su cui poggia una verità di fede è ben superiore all’evidenza sei sensi e dell’osservazione! Pensiamo, alla luce di ciò, quanto lontana sia la “sensibilità” dell’uomo contemporaneo dal dovere di aderire “con fede divina e cattolica” (che non ammette dubbi e tentennamenti) a tutte e singole le verità rivelate da Dio che la santa Chiesa ci propone a credere!
Venendo ora ai peccati contro la virtù teologale della speranza, bisogna anzitutto ricordare che grazie a questa virtù noi attendiamo da Dio la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere che ogni seguace di Gesù Cristo può e deve fare. I primi due peccati contro la virtù della speranza, pertanto, sono di tipo specularmente opposto, ma entrambi gravissimi perché configurano due fattispecie concrete di peccato contro lo Spirito Santo: si tratta della “disperazione della salvezza” e della “presunzione di salvarsi senza meriti”. Il primo peccato fu commesso da due (tristemente) noti personaggi biblici: Caino e Giuda. Il primo pronunziò l’espressione blasfema “troppo grande è il mio peccato per avere perdono” (Gen 4,13), mentre il secondo, autore del più grave peccato che mai fu e sarà compiuto nella storia, pensò bene di togliersi la vita anziché andare a chiedere umilmente perdono ai piedi di quella Croce su cui stava morendo, anche per lui, Colui che egli vilmente aveva consegnato per trenta denari. Questo peccato nega l’onnipotenza della misericordia di Dio ed il fatto che Egli, per quanto sta in Lui, desidera che “tutti siano salvati ed arrivino alla conoscenza della verità”, come scrive san Paolo nella prima lettera a Timoteo (1Tim 2,4). Non esiste dunque peccato, per quanto grave e orribile, che non possa essere rimesso dall’onnipotente misericordia di Dio, alla sola condizione che chi lo ha commesso ne sia realmente pentito e sia pronto ad espiarne le conseguenze. Non meno grave e pericoloso è l’atteggiamento diametralmente opposto, oggi disgraziatamente assai diffuso ed anzi considerato da qualcuno intangibile verità di fede: la presunzione di salvarsi senza meriti. Sono in molti infatti a presumere stoltamente della bontà e misericordia, pensando che tutti andranno in Paradiso, che Dio non può tollerare che qualcuno si danni (“vogliamo scherzare??? Un’eternità interminabile di tormenti! Ma, per favore, dove sta allora la misericordia di Dio?”), che non è affatto vero che esistono premi per le virtù e castighi per i peccati. Oggi non sono pochi, anche tra i sacri ministri, a dire scempiaggini grosse quanto l’universo intero, che se non fosse per i danni immensi che producono in chi vi dà ascolto, sarebbero solamente da ignorare e commiserare pregando il Signore che faccia un po’ di luce a questi ignari (si spera…) servi del principe delle tenebre. È verissimo che Dio vuole che andiamo in Paradiso, ma per giungere a questa benedetta mèta occorre compiere opere sante, passare per la porta stretta della Croce e della rinuncia, per la via obbligata dell’osservanza dei comandamenti, addirittura arrivando ad affrontare una lotta fino al sangue contro il peccato (cf Eb 12,4). Pertanto chi presume di poter stoltamente confidare nella misericordia di Dio, senza operare i doverosi sforzi ascetici per “conseguire la mèta della nostra fede, cioè la salvezza delle anime” (1Pt 1,19), commette gravissimo peccato di abuso della divina misericordia e dimenticanza della divina giustizia e se non corregge questa visione luterana e quietistica della giustificazione, non potrà accedere alla vita eterna e non entrerà nel Regno di Dio.
Sono contro la speranza anche degli sciocchi e assurdi peccati che costituiscono la vergogna dell’uomo intelligente, quali quelli di superstizione. La superstizione consiste nel credere che le cose possono riuscire qualora si compiano alcuni gesti scaramantici o qualora gli astri esercitino certi influssi, si portino degli amuleti, si scacci la sfortuna, etc. Ecco dunque apparire cornetti e ferri di cavallo, letture di oroscopi o consultazioni di tarocchi, o sciocchezze quali non passare sotto la scala, evitare il gatto nero, toccare ferro se si vede una bara, non fare nulla il Venerdì 17, etc. Tutte queste cose offendono la virtù della speranza per un motivo semplicissimo: il buon andamento della nostra vita e delle nostre cose dipende da una sola cosa, cioè dalla benedizione di Dio e dalla sua grazia, che si ottengono mediante la preghiera, la frequentazione dei sacramenti e la richiesta di benedizioni (alla propria persona, alla casa, alla macchina, al lavoro, etc.) ai ministri di Dio. Ritenere, come insegna san Tommaso, che la nostra vita possa essere condizionata in qualche modo da queste sciocchezze, oltre che offendere gravemente Dio, svela la stupidità dell’uomo, essere intelligente che pensa che cose inanimate o sciocchezze varie (molto al di sotto di lui) possano in qualche modo influenzare il corso degli eventi.
I santi potevano permettersi di chiosare altri santi. San Pio, pertanto, si permise di completare un celebre aforisma di Sant’Alfonso M. De Liguori (“chi prega si salva, chi non prega si danna”) aggiungendo “chi prega poco è in pericolo”. Mettiamo in pratica questa esortazione del santo stigmatizzato del Gargano e tutto andrà per il meglio, facendo attenzione a svuotare la casa (oltre che il cuore) da ogni oggetto superstizioso, ricordando che alcuni di essi, oltre a non servire a nulla, attraggono anche presenze malefiche in noi e attorno a noi.