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“Il problema non è che le persone non sanno cosa comprano. Il problema è che non gli interessa”. Un algoritmo efficientissimo, una perfetta conoscenza delle dinamiche social, prezzi bassissimi: il …Altro
“Il problema non è che le persone non sanno cosa comprano. Il problema è che non gli interessa”.

Un algoritmo efficientissimo, una perfetta conoscenza delle dinamiche social, prezzi bassissimi: il successo di Shein, il marchio di fast fashion più lucrativo del mondo (divenuto tale in meno di due anni), non si basa tanto sulla proposta di abbigliamento del brand, quanto sulle strategie utilizzate per venderla. Shein sa cosa l’utente desidera prima ancora che ne sia conscio, e glielo propone attraverso un mix di marketing aggressivo e uso sapiente dei mezzi di comunicazione contemporanei, vendendoglielo in uno schioccar di dita. Questo è l’assunto attorno al quale ruota l’inchiesta Untold: Inside the Shein Machine, realizzata dalla reporter Iman Amrani con Zandland Films, mandata in onda da All4 (la pay-tv del canale britannico Channel4). Ma non è questo ciò che più ha scioccato chi l’ha vista: i punti più oscuri del documentario sono quelli che riguardano la produzione del colosso cinese, basata sull'iper-sfruttamento della manodopera.

Untold mostra alcuni video e audio registrati di nascosto da un collega di Amrani infiltratosi all’interno di due fabbriche che producono abiti e accessori per Shein a Guangzhou. Da essi si evince che gli impiegati degli stabilimenti lavorano 17-18 ore al giorno, e che di media hanno un giorno di riposo al mese (“Non esiste la domenica qui”, afferma un operaio). Il salario base è di 4,000 yuan mensili, circa 540 euro, anche se il primo stipendio è trattenuto dall’azienda. Ai lavoratori e alle lavoratrici è richiesta la produzione di cinquecento capi al giorno. In uno dei due stabilimenti, si viene pagati a pezzo prodotto: circa 40 centesimi l’uno. Ma se uno dei capi risulta fallato, vengono trattenuti al lavoratore due terzi della paga giornaliera. Le telecamere nascoste di Untold riprendono persino operaie che, per mancanza di tempo, si lavano i capelli in fabbrica durante la pausa pranzo.

Il fenomeno Shein, esploso durante la pandemia, rappresenta “L’industria del fast fashion sotto steroidi”, spiega l’inchiesta di Amrani. In effetti, il catalogo si Shein è immenso, pensato per essere scrollato senza arrivare mai a una fine, e i prezzi dei capi sono davvero low-low-cost (fra l’altro, a volte risultano copiati da piccoli brand e designer indipendenti). Valutato intorno ai 100 miliardi di dollari, i suoi introiti superano quelli di Zara e H&M messi insieme.

È impossibile non sapere che dietro una produzione massiva e di costo così basso c’è lo sfruttamento della manodopera e delle risorse: quello di Untold sembra un film già visto, ma, come scrive Jack Seale nel recensire l’inchiesta “Il problema non è che le persone non sanno cosa comprano. Il problema è che non gli interessa”.

In un rapporto del 23 novembre 2022, Greenpeace ha svelato che i capi di SHEIN contengono sostanze chimiche tossiche, fra cui composti organici volatili, alchilfenoli etossilati, formaldeide, ftalati, PFAS e metalli pesanti.

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