signummagnum
624

L’Inferno tremendo ed eterno: crudeltà incompatibile con la bontà di Cristo?... - risposte sulla Fede del servo di Dio Pier Carlo Landucci

Proprio il dolce Gesù che promette ad alcuni uomini una eterna gioia, minaccia ad altri, la cui cattiveria è sempre limitata essendo creature umane, finite, una sofferenza terribile ed eterna. Ammetto come ragionevole e, vorrei dire, naturale, la necessità di un castigo per i rei, ma ripugna alla mia umanità, in modo invincibile, la durata eterna e l'intensità del patimento minacciato da Cristo. So bene cosa dicono i teologi per via di freddissimo ragionamento: «l'anima, terminata l'esistenza terrena nello stato di peccato, non può più mutare la sua volontà cattiva e ribelle a Dio ; essa è libera di scegliere in vita tra Paradiso e Inferno ». Ma io penso che se veramente a tutti fosse dato di sapere bene cosa scelgono, nessuno sceglierebbe l'Inferno. E poi qualunque cosa cattiva sia stata compiuta, si può paragonare il transitorio con l'eterno ? E se lo stato dell'anima può condurre a tale necessario stato di pena, perché questa sorte dell'uomo fu permessa da Dio ? È contro la fede credere che di fatto nessuno si sia dannato, nemmeno Giuda? (Prof. S. A. - Malnate - Varese).

Con rammarico ho dovuto omettere vari altri passi di questa lunga e bella lettera (rimandandone però uno - circa il dolore degli animali - ad altra occasione: cfr. q. 16). Ma come si fa a rispondere ? Qui ci vorrebbe un trattato, un libro intero ! Posso tuttavia puntualizzare qualche idea. E, prima di tutto, qualche rilievo sull'atteggiamento razionale e spirituale da prendere per affrontare utilmente il problema. L’egregio rocchigiano si scaglia contro il « freddo » anzi il « freddissimo » ragionamento, e più volte ripete di voler la risposta non solo della mente, ma anche del cuore e della sensibilità, la risposta cioè che nasce da « tutto l’uomo ». Ma questo è quanto dire: non voglio imparzialmente giudicale; ossia: non voglio vedere la verità come è, ma farmi trascinare dal cieco impulso del sentimento. Si trattasse della dimostrazione del teorema di Pitagora, che interessa così poco la vita umana, passi !

Benché anche in tal caso sarebbe curioso che per introdurre - in perfetto siile di moda esistenzialista - nella ricerca « tutto l’uomo », mi facessi guidare più dall’estetica del discorso e dall’eleganza della figura che dalla logica matematica. Ma quando si tratta di un fatto così... scottante per la nostra vita e per la nostra fede, guai a ragionare col cuore invece che con la mente ! Il cuore deve seguire la mente; non deviarla o, per lo meno, confonderla. E poi attenti a non dimenticare che si tratta di un dogma di fede. Dunque non può non esservi del mistero, come in tutte le verità rivelate che toccano l’infinito Dio: nel caso nostro Dio infinito, offeso.

Si può capire completamente il mistero della Trinità? E così il mistero dell’Inferno. L’illusione di poterlo ben capire nasce dall’analogia con le punizioni umane che si danno ai colpevoli. Ma queste riguardano offese umane, giudizio e vita terrena, mentre quello riguarda l’offesa divina, il giudizio divino e la vita eterna: e in ciò non può non comparire il mistero. Sarebbe quindi ingenuo giudicare le due cose alla stessa stregua.

Nasce forse allora, da questa disparità di cose e da questa misteriosità, una scusante per il peccatore, il quale peccando non vorrebbe certo andare all’Inferno? Attenuante sì, e Gesù stesso ha detto, a proposito dei suoi crocifissori : « non sanno quel che fanno » (Luca 23, 34); ma scusante no, tanto che Gesù giunse ad ammonire che dovremo render conto perfino di « ogni parola inutile (da noi) detta » (Matteo 12, 36). E c’è una bella differenza !

Non è necessario infatti, per la sostanziale responsabilità del peccato, di fronte a Dio, che la divina offesa sia esplicitamente voluta, cioè che esplicitamente si voglia offendere Dio. Basta che lo sia implicitamente, come è quando si viola una legge grave, avvertita dalla coscienza. E basta che si siano respinte le grazie proporzionate che Iddio misericordioso dona certamente all’anima per non peccare.

La considerazione sull’Inferno va fatta perciò con un atteggiamento capovolto, rispetto a quello usato da S. A. Anziché giudicare della ragionevolezza dell'inferno e della malizia del peccato alla luce della propria intuizione psicologica e sentimentale, bisogna invece giudicare e adeguala propria scarsa valutazione psicologica alla luce della fede: fare fulcro cioè fermamente su questa, per accendere nel cuore l’orrore del peccato e il santo timore della punizione eterna.

E dire umilmente: se Gesù nella sua infinita misericordia, tanto luminosamente provata dalla sua incarnazione e morte per noi, ha preannunciato, con tanta insistenza, l'Inferno terribile ed eterno per i cattivi, vuol dire che esso c’è, che non è crudele ma giusto, e che la malizia del peccato è, in qualche modo, riguardo alla infinita dignità di Dio offeso, infinita. Vana è poi la speranza che di fatto nessuno vi cada.

L’Inferno non fu creato prima del peccato, ma dopo di esso e per la sua effettiva punizione. Nacque cioè col peccato di Lucifero e degli Angeli che lo seguirono. Prescindiamo anche da Giuda, di cui è implicitamente rivelata la dannazione, secondo il pensiero comune. E Lucifero? E i suoi, che erano Angeli destinati alla gloria? Che siano all’Inferno è certo.

Mistero profondo, quanto i segreti intimi di Dio, è, d’altra parte, il perché di tale divina previsione e permissione. Il fatto che si possa non capire non può infirmare comunque la certezza di ragione e di fede della infinita sapienza, bontà e misericordia di Dio, giunta perfino a immolare per noi il divino Figlio, e la certezza quindi che tale permissione non può non avere avuto complessivamente il fine di un bene maggiore, come per es., quello del rispetto e della manifestazione della libertà umana e del maggior merito dei buoni, messi alla prova dai cattivi. Ma non posso ora addentrarmi in questa questione, che rivedremo in seguito.

Quanto sia ingannevole il metodo di parlare dell'inferno « a sentimento » è dimostrato, in particolare, dalla tendenza a trasferire fantasticamente in quel regno di dolore e di disperazione i sentimenti della nostra esperienza terrena. Invece laggiù è tutt’altra cosa. Innanzitutto nell’ « al di là » non può non esservi quella enorme intensificazione d’esperienze che caratterizza tutto l’eterno e che sarebbe illusorio pretendere d’immaginare in base alle tenui esperienze dell’« al di qua ». Come nel Paradiso vi è una inaudita e inimmaginabile intensità di gaudio, così non deve sorprendere che vi sia nell’Inferno una inimmaginabile intensità di dolore.

Siamo nel regno del più intenso. Un « più intenso » che si proporziona però nella sua varietà di misura, con perfetta giustizia, alla rispettiva varietà di misura del «meno intenso» terreno, sia nel bene che nel male. Ingiusto sarebbe che nella vita terrena si fosse puniti con l ’intensità dell’Inferno o premiati con l’inebriamento del Paradiso. Non v’è ingiustizia invece in tale passaggio - mantenendo le proporzioni alle varie misure terrene - da un regime meno intenso a uno più intenso, perché ciascun regime segue le condizioni del corrispondente stato.

Né si può pretendere che in terra, per fuggire la condanna eterna, sia fatto conoscere chiaramente all’uomo quello stato dell’ « al di là », perché ciò è impossibile nella condizione terrena: basta che il « di là » sia implicitamente e oscuramente conosciuto e che il giudizio divino sia compiuto sulle responsabilità umane, considerate dalla sua sapienza infinita secondo le reali possibilità terrene, nel quadro cioè di tutte le circostanze aggravanti o attenuanti ie di tutti i divini aiuti respinti o raccolti.

Anche nella vita comune si hanno infatti continuamente colleganze di attività presenti con stati di vita futuri alquanto più intensi e non ancora sperimentati: come per es. quando uno viene promosso di grado per la fatica compiuta nel grado inferiore, o quando addirittura uno viene promosso al governo di una nazione, come legittimo risultato della semplice fatica elettorale, o quando due creature costituiscono il nuovo modo di vita matrimoniale dopo relazioni esterne di ben minor responsabilità, o quando, dopo il delitto, si sperimenta la durezza del carcere.

Nessuno pretende, per es., di non poter essere mandato in carcere perché non ne ha prima sperimentata la durezza. Se la conoscenza chiara e sperimentale della sanzione e l’averla esplicitamente davanti agli occhi nell’operare condizionasse la legittimità della sanzione, ciò dovrebbe valere sempre, tanto per la sanzione eterna che per quella temporale, e quindi anche per l’incarceramento terreno.

Poi si è tentati di pensare ai poveri dannati piangenti e imploranti pietà, come farebbe chi fòsse in terra condannato ai tormenti e alle fiamme. Che crudeltà - si pensa - lasciarli spietatamente laggiù quei poveri pentiti! E il pensiero, ammessa l’ipotesi, è giustissimo. Sarebbe davvero una inaudita crudeltà respingere il grido straziante di quel sincero pentimento.

Ma l’ipotesi è completamente falsa. Il dannato, nonostante l’evidenza intellettuale della sua colpa, non ha il minimo pentimento. Egli ha solo il furore dell’odio, della disperazione e della bestemmia perenne: giacché il pentimento sarebbe un effetto della divina grazia che egli ha respinto in terra e non gli può essere più data laggiù.

E se gli si proponesse di salire in Paradiso, egli si rifiuterebbe, perché le tenebre del suo odio rifuggono dalla luce paradisiaca dell’amore (cfr. q. 102). Dunque pessimismo ? E perché ? Quella realtà e quella visione tremenda non sono, per contrasto, che un più vibrante richiamo della ineffabile visione del Cielo. Laggiù sono solo tenebre e dolore perché non vi abita Dio, perché hanno cacciato Dio, perché luce e felicità sono soltanto lassù, dove è - beatificante - Iddio.

Che gioia saperci avviati al suo possesso ! Saperci suoi eredi ! Ed essere certi di raggiungerlo, purché raccogliamo le grazie meritateci dal Sangue divino misericordiosamente sparso per noi. Il coraggioso Capitano dell’« Enterprise » non era sicuro di poter salvare la sua nave, nonostante tutti gli sforzi; e infatti non c’è riuscito. Ma noi siamo certissimi di salvare la nostra anima, se vogliamo, cioè di terminare la navigazione della vita nel porto beato della eternità.

E dopo qualsiasi momentaneo naufragio, basta che tendiamo umilmente le nostre mani supplici a Lui e alla celeste Madre e sapremo riprendere la rotta. Tutto questo è profondamente dolce, luminoso, pieno di sano ottimismo.
Che le due prospettive Paradiso e Inferno diano un contenuto drammatico alla vita è vero. Ma solo per ricordarci che la vita è una cosa seria e quindi preziosa. Perciò vale la pena di viverla, noi. E vale la pena di consumarla per portare luce e salvezza agli altri.