Possono salvarsi gli uomini che non hanno conosciuto Gesù?... - risposte sulla Fede del servo di Dio mons. Pier Carlo Landucci
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Mi rallegro della competenza teologica dell’egregio lettore di Trapani. È vera la sua affermazione iniziale, salvo una distinzione che dirò tra poco. E S. Paolo stesso che, mentre inculca la necessità della Fede, ne delimita anche le condizioni indispensabili, che Iddio non mancherà di ispirare all'animo di ogni uomo: « Senza fede è impossibile piacere (a Dio). Bisogna infatti che colui che si volge a Dio creda che esiste e che sia rimuneratore di coloro che lo cercano » (Ebrei 11,6).
La distinzione però da farsi è tra la conoscenza implicita, sia pure in senso larghissimo, ed esplicita. Chi, sospinto dalla grazia, si inchini alla rivelazione avuta - in qualsiasi modo, interiore o esteriore, diretto o indiretto, chiaro od oscuro - di un tale Dio personale, giudice e rimuneratore, s’inchina e aderisce implicitamente anche all’insegnamento di tale Dio rivelatore, che si sia ipoteticamente incarnato.
Implicitamente aderisce cioè all’insegnamento di Gesù. Ma allora - insisterete - a che prò quella Incarnazione di fatto ? Non bastava per tutti l’implicita fede ?
Oh bella! Ma la implicita fede nel Divino Messia suppone che questi sia esistito e abbia esplicitamente insegnato. L’adesione implicita al Messia rappresenta una soluzione, per così dire, di ripiego, che suppone la normale e piena soluzione della adesione esplicita.
La domanda « a che prò ? » potrebbe caso mai porsi in questi doppi termini: Quale vantaggio per la salvezza deriva agli uomini dalla rivelazione esplicita ? E quale dall’essersi compiuta mediante l’incarnazione dello stesso Verbo Eterno e mediante il Calvario ? Il primo quesito urge evidentemente in merito, per es., ai missionari che si sforzano con impressionanti sacrifìci di far conoscere esplicitamente la divina rivelazione fin nelle più sperdute regioni della terra. A tale riguardo il « prò » consiste nella immensa superiorità dell’esplicito rispetto all’implicito, tutta a vantaggio di chi può attuare tale esplicita conoscenza: perché l’insegnamento di Gesù addita all’uomo nei suoi più minuti particolari il più nobile e più sicuro cammino del cielo e con i sacramenti gli dà gli infallibili mezzi di grazia per percorrerlo, mettendolo dunque in condizioni ben superiori a chi l’ignorasse, sia pure in buona fede. (Vedasi anche il q. 25).
Ma c’è una sperequazione ingiusta della grazia in ciò, tra illuminati e non illuminati ? No, perché la grazia è un dono gratuito e indebito alla nostra natura umana, che Iddio può elargire a suo piacimento, dando però a tutti l'indispensabile.
A riguardo però di tale « indispensabile » questo sommamente bisogna notare : che la grazia capace di infondere negli ignari cotesta fede implicita - e la forza di non peccare o di riparare il peccato - è frutto, anche per essi, dei meriti di Gesù attuati o (prima della Incarnazione) previsti.
Ciò non significa che Iddio non potesse attuare un altro piano di salvezza. Sorge allora il secondo quesito, quanto al modo così divinamente clamoroso e tragico della rivelazione e redenzione. Bastano due fondamentali motivi per la sostanziale risposta, i quali fanno vibrare la salvezza di due luminose parole: giustizia e amore.
Solo gli infiniti meriti del Verbo Incarnato potevano riconciliare l’uomo a Dio con una riparazione a rigore di giustizia (data l’infinità dell’offeso: Dio). Solo con l’incarnazione e morte di Gesù s’è rivelato al mondo l'infinito amore di Dio per gli uomini, che era assolutamente impensabile senza la tragedia del Golgota. È il « prò » più toccante. È la rivelazione più luminosa e più dolce: quella del divino, infinito amore.