Il Vir Magnificus di Santa Giulia di Lucca _ di Stefano Cervo

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Nel febbraio 1859 a Lucca davanti alla chiesa di Santa Giulia furono travati tre sepulture; due contenevano resti ossei in differenti stati di conservazione (con ogni probabilità riferibili a più individui, inumati in diversi momenti storici), la terza invece apparteneva ad un uomo dotato di un ricco corredo funerario di età longobarda (1), Il Vir Magnificus di Santa Giulia.

Il rinvenimento fu divulgato sul periodico lucchese L’utile.

Giornale scientifico artistico industriale e morale che sul numero del 29 febbraio del 1859 riportava:

«di fronte alla chiesa sull’angolo che guarda mezzodì si rinvenne per il primo un sepolcro coperto di una pietra che certo aveva già servito ad altro uso e che era circa un braccio sotto il livello attuale della via: scoperchiatolo, si vide che la pietra, perché troppo stretta, non lo chiudeva bene sui lati, di dove era penetrata assai terra.

Fra questa si rinvennero alcuni frammenti di ossa umane, una croce in cui dovevano essere incastonate piccole pietre, vari pezzi d’oro (circa mezza libbra)lavorati a pressione e tutti rappresentanti due delfini intrecciati i quali pezzi sia per forma loro, sia per la disposizione in cui furon trovati sarebbe a credere avessero formato una collana.

Vi si trovarono inoltre la fibbia e il puntale d’oro di una cintura, varie croci non piccole di sottilissima lama pure d’oro e molti fregi dorati mediante sovrap-posizione di una laminetta, e rappresentanti teste di cavalli, leoni e l’immagine di un guerriero con uno stendardo; i quali insieme ad una grossa borchia a mezza sfera è chiaro appartenevano ad uno scudo o rotella di cui sonovi anche altri avanzi.

Finalmente furono in questo sepolcro rinvenuti i resti di uno stile o di una spada, di un’alabarda, di un piccolo vaso di cristallo opaco, ed anche la mandibola di un animale, forse di un cavallo.

Oltre a questo sepolcro altri due ne furono trovati lì presso alla profondità stessa, nei quali erano ossa di molti cadaveri appartenenti a tempi diversi, siccome ne assicura lo stato molto diverso della loro conservazione. Le mura di questi sepolcri erano composte in gran parte di rottami di pavimento romano a scagliola: l’ammattonato di essi era formato di pezzi di quadroni simili ad uno trovatovi intero che ha la misura di once 13 per ogni suo lato.


Sotto il pavimento stesso era, misto a poca terra, uno strato di frammenti di vasi romani e alcuni forse etruschi»(2).

Tra i reperti recuperati ad una profondità maggiore vi sono una lucerna romana e una moneta dell’imperatore Claudio. Diverse favorevoli congiunture concorsero alla conservazione degli oggetti, unitamente al valore intrinseco dei reperti che mantenne vivo l’interesse delle autorità sul loro destino, malgrado da più parti venissero avanzate rivendicazioni sulla loro proprietà.

Con la scoperta ebbe inizio una prolungata traversia storiografica

Il materiale di corredo della sepoltura per lungo tempo, tra errori di attribuzione cronologica, lo smembramento in due distinti rinvenimenti pertinenti a due diversi contesti, fino alla ricomposizione della sua unitarietà avvenuta nel 1961.

Subito dopo il rinvenimento, probabilmente per la presenza delle armi e delle croci d’oro, si diffuse l’opinione comune che l’inumato con ricco corredo fosse un membro illustre dell’Ordine di San Giacomo d’Altopascio, altrimenti noto come Ordine dei Frati Ospitalieri di San Jacopo, che nel secolo XII era attestato a Santa Giulia.

Per tale motivo, all’indomani del rinvenimento, Lelio Ignazio di Poggio, priore della confraternita del Santissimo Crocifisso di Santa Giulia (che si designava come erede moderna dell’ordine medievale) avanzò una supplica al gonfaloniere Cesare Bernardini per ottenere gli oggetti rinvenuti o un compenso in denaro secondo quanto “ravvisato dalla giustizia”.

Il parere sulla controversia, affidato all’avvocato Francesco Carrara, noto giurista lucchese, sancì l’attribuzione al Comune dei preziosi oggetti in quanto ritrovati sotto il selciato di una pubblica strada durante l’esecuzione di lavori di pubblica utilità.

Un secondo tentativo, anch’esso senza esito, fu avanzato dall’impresario Agostino Martini che, come artefice del rinvenimento, sulla base dell’articolo 716 del codice civile allora in vigore, pretendeva la consegna di metà degli oggetti rinvenuti. Anche il successivo ricorso alle disposizioni del Tribunale di prima istanza, sfavorevoli all’impresario lucchese, ottenne esito negativo. In tal modo prendeva corpo una forma, ancora embrionale, di tutela del patrimonio archeologico da parte degli enti civici(3).

Nel mese successivo al rinvenimento gli oggetti furono consegnati a Paolo Sinibaldi, conservatore della Commissione sopra le Belle Arti, e quindi depositati nella locale pinacoteca in tre diverse cassette (4), dove rimasero ignorati per quasi mezzo secolo.


Solo nel 1907 questi pezzi furono studiati e parzialmente pubblicati da Pietro Toesca.

Corresse le errate datazioni precedenti classificando i reperti lucchesi come “barbarici”(5). Superati i problemi di attribuzione cronologica, cominciarono in questa fase i dubbi circa la provenienza, difatti quando il Toesca vide i materiali, questi erano ancora conservati nelle tre cassette in cui erano stati deposti originariamente, al cui interno vi erano anche delle diciture che ne illustravano il contenuto e la provenienza.
Tali diciture, redatte al momento della prima frettolosa suddivisione, riportavano: «ornamenti del secolo XI appartenenti ai cavalieri dell’Altopascio, trovati presso la chiesa di Santa Giulia», per la prima scatola che conteneva le crocette auree e la cintura multipla; «ornamenti del XII secolo trovati in una tomba presso la chiesa di San Romano», per la seconda scatola che comprendeva le appliques in bronzo dorato dello scudo; «avanzi d’armatura romana trovati in una tomba presso la chiesa di San Romano», per la terza scatola con l’umbone dello scudo e gli altri oggetti frammentari in ferro, nonché la lucerna e la moneta di Claudio, che furono rilevanti per l’attribuzione all’età romana.
Il corredo venne così smembrato in due distinti rinvenimenti: la preziosa cintura reggiarmi, le crocette auree e la croce enkolpion vennero attribuite alla sepoltura rinvenuta a Santa Giulia, mentre lo scudo da parata e gli altri elementi in ferro furono distribuiti fra più sepolture, di diversa cronologia, deposte nella chiesa di San Romano o nei suoi dintorni. L’unitarietà del corredo e la sua corretta attribuzione alla chiesa di Santa Giulia furono ristabiliti da Gino Arrighi nel 1961(6), quando venne aperta a Lucca una Esposizione di documenti e cimeli risorgimentali, in occasione del centesimo anniversario dell’unità d’Italia(7).
Tra i documenti esposti, al n.1 del Catalogo, compariva la prima annata di pubblicazione dell’Utile, il giornale che divulgò il dettagliato resoconto del rinvenimento con tutti i materiali ritrovati. Fu questa occasione che permise allo studioso lucchese di conoscere le vicende del ritrovamento e la sua giusta contestualizzazione in connessione con la
chiesa di Santa Giulia.
Contesto dello scavo.
La ricca sepoltura fu ubicata in posizione privilegiata davanti la facciata della chiesa di Santa Giulia(8), nell’angolo meridionale. È verosimile che «l’anonimo longobardo di Lucca, come del resto nello stesso tempo disponeva il suo re Rotari, si fosse fatto seppellire in una chiesa(9), forse una eigenkirche, in stretta relazione con la diffusione del culto delle reliquie di Santa Giulia a Lucca, collegate alle prime esperienze marinare dei Longobardi”(10).

Difatti l’adventus reliquiae (cioè l’arrivo in città delle reliquie di un santo) era un motivo determinante per la fondazione di nuove chiese, anzi le intitolazioni di alcune chiese costituiscono una spia preziosa per la data di fondazione di un edificio in concomitanza con la diffusione nel territorio delle reliquie(11).


La non casuale sovrapposizione fra edificio sacro e deposizione e l’intitolazione alla santa Cartaginese(12) concorrono, dunque, nel definire l’origine della chiesa da ascrivere certamente al VII secolo(13), anche se la prima menzione della chiesa di Santa Giulia in Lucca(14) si ha in un documento del 900, nel quale il vescovo di Lucca scambia dei beni con Adalbertus archid. Filio b. m. Aloni(15).
L’arcidiacono Adalberto è figlio di un Allone, nome riconducibile alla famiglia degli Allucingoli(16), indicati come i probabili fondatori della chiesa. Infatti, in un documento che riassume le donazioni fatte al Vescovato in vari momenti, datato dal Bini all’XI secolo, viene riportato: «De Beneficio Aloni figlio (sic) Angalberti, habet ecclesiam Sante Julie, cum sala curte et orto».


L’edificio sacro, però, risulta inserito tra i beni del vescovato già nel 964(17).
Inoltre al momento del restauro duecentesco, la chiesa viene indicata come Santa Giulia de curte Alocingorum per la sua prossimità alle case e ad altri possessi da parte degli Allucingoli(18).
Topograficamente è situata appena sopra il decumano massimo, nel quadrante di nord-est e nella stessa posizione, all’interno delle maglie della città romana, che la chiesa di Santa Giulia occupa a Brescia (19).
In questo contesto si verificherebbe, dunque, l’azione evergetica di una potente famiglia aristocratica che si farebbe carico dell’edificazione di una eigenkirche, sul modello della dinastia regnante e sotto la spinta della traslazione delle reliquie della martire Giulia a Lucca, elemento di forte impatto sociale poiché l’acquisizione di nuove reliquie diviene un elemento di forte prestigio cui ricorrono gli esponenti delle élites longobarde in un clima di forte competizione politica e sociale al fine di creare consenso e rafforzare il potere e il prestigio personale (20).

Il seppellimento in connessione ad una chiesa riflette i mutamenti intervenuti nell’autorappresentazione della classe dirigente germanica nell’arco di pochi decenni (21).
Nel caso lucchese si coglie, da una parte ancora l’attaccamento alle forme tradizionali di autorappresentazione affidata alla presenza di un corredo funerario prestigioso, dall’altra l’apertura a forme nuove di rappresentazione personale.
Queste nuove dinamiche si traducono presso i ceti più elevati, nella fondazione di chiese o di cenobi, la cui gestione è amministrata nell’ambito parentale e presso i quali le élites si fanno inumare; inoltre questo fenomeno è strettamente connesso alle nuove forme di trasmissione ereditaria dei beni, soprattutto terrieri, che l’editto di Rotari codificò mediante apposite norme, sia in senso orizzontale, all’interno cioè dello stesso gruppo parentale, sia in senso verticale tra le diverse generazioni (22).

L’energia spesa nella realizzazione del struttura tombale è un altro elemento che testimonia l’esclusività della sepoltura: il defunto era deposto in una cassa in muratura costruita conframmenti di laterizi romani, nelle spallette e nel fondo; la copertura era costituita da una lastra monolitica più corta rispetto alle dimensioni della cassa, e per analogia con altre situazioni simili, è ipotizzabile una seconda lastra più piccola che, affiancata alla prima, sigillava il sepolcro (23).
Nel contributo dell’Utile, infatti, è segnalata la presenza di molta terra all’interno della tomba, penetrata perché la sola lastra rinvenuta lasciava scoperta una parte della sepoltura.

Sulla base delle informazioni in nostro possesso è lecito ipotizzare che la sepoltura abbia subìto una parziale manomissione, un danneggiamento casuale con parziale violazione, che ha causato l’infiltrazione di terreno. Questa intrusione è da localizzare probabilmente all’altezza dei piedi dell’inumato, verso la facciata della chiesa. Difatti la cintura, deposta sul bacino dell’inumato, fu certamente rinvenuta “in connessione”, in quanto i pezzi della stessa, sia per forma loro, sia per la disposizione in cui furon trovati sarebbe a credere avessero formato una collana; questo particolare testimonia la pertinenza degli elementi al momento dell’apertura della tomba, facendo presumere l’integrità della porzione centrale della sepoltura.
La presenza della cuspide di lancia esclude la manomissione nei pressi della testa, infatti, essendo un’arma inastata e di conseguenza lunga, poteva essere deposta solo lungo i fianchi dell’inumato, con la cuspide all’altezza della testa. A confermare quest’ultima tesi concorre il ritrovamento delle cinque crocette auree, cucite abitualmente sul velo funebre che copriva il volto e le spalle dell’inumato( 24).


Lo scudo, deposto indifferentemente lungo i fianchi oppure vicino ai piedi o alla testa, non è indicativo ai fine della localizzazione della violazione.La mancanza di alcuni elementi solitamente deposti ai piedi del defunto, come gli speroni o il bacile copto, costituiscono un ulteriore indizio della manomissione della sepoltura a ridosso degli arti fornita dall’articolo di giornale, in questo caso la spada non sarebbe perduta.
Le cinque crocette auree sono tutte di grandi dimensioni e prive di decorazioni(26); hanno bracci uguali con terminazioni lievemente espanse (croci greche potenziate) ed in casi analoghi erano disposte generalmente con una croce centrale e altre quattro disposte agli angoli. Il numero elevato delle crocette e le dimensioni stesse delle lamine concorrono a sottolineare l’importanza e il rango elevato del defunto perché sono in stretta relazione alla fisionomia sociale dell’inumato, in genere in uomo adulto di elevato livello di ricchezza(27).

Le crocette longobarde costituiscono, difatti, un fenomeno non solo religioso ma hanno anche valenze politiche e sociali, soprattutto nei casi in cui compaiono alcuni motivi particolari come le impressioni monetali e i monogrammi(28).
Inoltre un numero così elevato di crocette è stato rinvenuto soltanto in poche sepolture prestigiose, cronologicamente comprese negli anni a cavallo tra la fine del VI ed il primo ventennio del VII secolo, quasi inferiori; in particolare è fortemente plausibile che gli speroni fossero compresi in un corredo così sontuoso, anche se non c’è la certezza. sempre in connessione, come nel nostro caso, con guarnizioni e puntali pertinenti a cinture auree(29).
La cintura per la sospensione delle armi (fig. 3), databile entro il primo trentennio del VII secolo, è eccezionale sia per la qualità tecnica sia per il materiale impiegato; la fattura accurata rimanda certamente all’ambito produttivo bizantino(30).

È costituita da una fibbia bronzea rivestita d’oro, a placca mobile liscia, da un puntale principale, da cinque piccoli puntali secondari e da dieci placche, tutti con decorazione a virgole e con due delfini rampanti contrapposti (fig. 4).
La decorazione delle placchette e dei puntalini Mancando un rilievo topografico, si ignora la reale ubicazione della sepoltura: è noto che fosse a ridosso dell’angolo meridionale rimanda sia al mondo marino, richiamandosi al tema del viaggio e forse idealmente, anche a quelle che il Ciampoltrini definisce come «le prime esperienze marinare» dei Longobardi (31), sia alla figura di Cristo come simbolo di salvezza (32) della facciata della chiesa di Santa Giulia; proprio per questo non è da escludersi che la sua manomissione sia stata causata o dai lavori Sulla base della forma dell’umbone è possibile datare la sepoltura di Santa Giulia intorno alla metà del VII secolo (33), in un momento storico in cui all’interno delle sepolture vengono deposte prevalentemente cinture in ferro ageminato (34).

Colpisce, dunque, la deposizione di una cintura aurea in una sepoltura con questa cronologia, difatti, la presenza di materiale prezioso all’interno delle sepolture conosce una ampia diffusione agli inizi del VII secolo per diminuire rasticamente nei decenni successivi; forse non è un caso che, in concomitanza con la progressiva rarefazione dei manufatti aurei, si registri all’interno delle sepolture la comparsa delle appliques sugli scudi (35).
Dello scudo si sono conservate solo le parti metalliche: l’umbone in ferro, alcune lamine in bronzo (rame?) dorato, decorate mediante punzonature, e parte dell’impugnatura costituita dalla maniglia ferrea e dai resti di due borchie in bronzo dorato. L’umbone è in ferro forgiato e modellato mediante martellatura, con calotta emisferica a cerchio leggermente oltrepassato, su base troncoconica e larga tesa piatta con bordo esterno inclinato verso il basso (fig. 6).

La specifica forma dell’umbone, consente di rifacimento dell’edificio in età duecentesca oppure al rinnovo della facciata ad opera di Coluccio di Collo alla metà del Trecento. La sua parziale asportazione localizzabile proprio in prossimità della facciata avvalora l’ipotesi di uno scasso dovuto a lavori edili e non ad una depredazione intenzionale che non avrebbe risparmiato i preziosi manufatti che si sono conservati fino a noi.


Corredo

Diversi oggetti recuperati sono purtroppo andati perduti, in particolare quelli in materiale non prezioso come la spatha, la cuspide di lancia, il vaso di vetro, i reperti di età romana, nonché tutti i resti osteologici, sia relativi all’inumato sia la mandibola di cavallo, che avrebbero potuto fornire preziose indicazioni. Gli altri reperti sono esposti al museo di Villa Guinigi a Lucca.
Del corredo si conservano cinque crocette auree, le guarnizioni auree di una cintura multipla per la sospensione delle armi, i resti metallici di uno scudo da parata(25), una piccola croce enkopion in oro, un coltello o piccolo scramasax, ed un altro scramasax attribuito a questa sepoltura: non è chiaro se quest’ultimo sia stato confuso con i resti di uno stile o di una spada ricordati dalla descrizione datarlo per confronto(36) ai decenni centrali del VII secolo (640 – 660 d.C. circa).

La tesa è rivestita da una lamina in bronzo dorato, decorata da una fila di punzonature a ‘S’(37) racchiusa entro due linee incise, su cui è presente un’iscrizione, leggibile solo parzialmente, che costituisce l’unico caso di iscrizione su un umbone longobardo, finora noto(38). L’iscrizione è realizzata mediante punzonature puntiformi e richiama il salmo 70: ”… ADA[D]IVVANDUM ……”, [domine] ad a(d)iuvandum [me festina](39).

L’impiego consapevole e accurato della scrittura al fine della trasmissione di un messaggio pone alcuni interrogativi: da una parte esso si connette strettamente al problema del grado di alfabetizzazione di artigiani e committenti longobardi, dall’altra, l’utilizzo di messaggi o richiami a valori cristiano-cattolici chiama in causa la questione dell’effettiva conversione dei Longobardi, o almeno delle élites longobarde, in connessione al fenomeno della persistenza di un patrimonio simbolico e culturale di ascendenza romano-cristiano, e della sua forza di penetrazione presso le fasce elevate e colte della società. Il fenomeno dell’acculturazione dei Longobardi(40), sia in senso alfabetico sia in senso cristiano, sembra procedere secondo un percorso non lineare.

Da una parte lo scudo di Santa Giulia e altri manufatti(41) inducono a propendere per un alto grado di alfabetizzazione delle élites longobarde per l’accuratezza e la consapevolezza dell’uso della scrittura, dall’altra questi oggetti coesistono con manufatti dove è predominante invece il valore simbolico della lettera che si appone sul pezzo e che possono essere messi in stretta connessione all’uso sacrale o magico-apotropaico della parola, nonché a processi di alfabetizzazione(42).

Sulla tesa sono presenti cinque borchie in bronzo dorato, a testa piatta e margine in sbieco, decorate lungo i margini da una fascia di punzonature ad ‘s’ tra due linee incise che servivano per fissare l’umbone metallico al disco ligneo. Una sesta borchia, in bronzo dorato, con testa piatta e alti margini ricurvi, di dimensioni più piccole delle precedenti e decorata lungo i margini da punzonature a occhio di dado e al centro da una stella a cinque punte incisa (43), fissa al colmo della calotta una applique in bronzo (rame?) dorato a forma di croce a sei bracci (una sorta di chrismon) con profili mistilinei e terminazioni fitomorfe a forma di tulipano(44), con al centro di ogni braccio una croce potenziata incisa.

Alla grande ricchezza decorativa dello scudo contribuiscono, insieme all’umbone, anche le lamine in bronzo dorato che si disponevano nell’ampio spazio del disco ligneo. Esse si compongono di cinque teste di cavallo (tre con il muso orientato verso sinistra, due col muso verso destra, disposti a coppie affrontate a guarnizione della calotta dell’umbone), una coppia di pavoni orientati specularmente con al centro un cantharos, che richiamano il mistero eucaristico, la risurrezione e la vita eterna, e una coppia di leoni anch’essi speculari, disposti ai lati di un guerriero appiedato (solitamente interpretato come Daniele tra i leoni), vestito con una lunga tunica e dei calzoni, armato di scudo al braccio sinistro, mentre con la destra stringe una croce astile su cui si posa una colomba; in vita è appesa alla cintura una spada pendente trasversalmente.

Lo schema compositivo del guerriero è noto e compare, ad esempio, sui bracci romboidali delle appliques cruciformi degli scudi da parata di Sovizzo e della tomba 5 di Trezzo d’Adda. Gli elementi figurativi delle lamine che ornavano il disco dello scudo ripropongono raffigurazioni religiose molto diffuse sin dall’età antica: i pavoni e il cantharos e il Daniele tra i leoni, cui si aggiungono le protomi equine che rimandano al mondo equestre, insieme alla mandibola equina rinvenuta nella sepoltura, probabilmente a simboleggiare lo status di cavaliere dell’inumato. Il motivo del cantharos tra pavoni è molto diffuso nel VI-VII secolo ad esempio su alcune lamine auree bizantine (brattee) di forma circolare, lavorate a sbalzo, di provenienza calabrese e albanese che presentano affinità tematiche e stilistiche con le ampolle di Monza e con le loro versioni più modeste in terracotta.

Poiché la loro destinazione d’uso era, con ogni probabilità, l’inserimento in apposite capsule d’argento – le fibule “a catoletta” – appare verosimile che come molti reliquiari anche questi si diffusero in Occidente al seguito di pellegrini, mercanti o profughi provenienti dalle regioni del Mediterraneo orientale(49). D’altronde, sulla scia della Sacra Scrittura, Gregorio Magno insegnava nei Moralia in Iob, commento al libro vetero testamentario di Giobbe, che il cristiano su questa terra è solo viator ac peregrinus(50), cioè in cammino verso la sua vera patria, quella celeste; inoltre il personaggio raffigurato più frequentemente su queste ampolle è San Mena, santo martire d’origine egiziana protettore dei pellegrini, solitamente raffigurato affiancato da due cammelli affrontati. Tra le brattee auree bizantine di cui sopra ne è nota una datata al VII secolo, proveniente dalla Calabria e conservata in stato frammentario ai Musei Statali di Berlino, che riporta San Mena tra due leoni, quasi a simboleggiare che, sebbene il viaggiatore sembri incarnare pienamente questo ideale di vita cristiana, il concetto stesso di viaggio implica pericolo, in quanto ci si aliena dal proprio ambiente naturale. Sulle ampolle dei pellegrini è molto diffusa anche l’iconografia di Daniele tra i leoni, a sottolineare la forza della fede di chi sceglieva di compiere un viaggio lungo e pericoloso come i pellegrinaggi oltremare.

Entrambi i gruppi figurati, dunque, non sono privi di riferimenti al tema del viaggio. Bisogna tuttavia considerare che questi gruppi sono una ricostruzione, ottenuta mediante l’accostamento arbitrario di lamine slegate tra loro, che si basa sulla riconducibilità a motivi ampiamente attestati nel panorama cristiano-mediterraneo. Tuttavia su un’anforetta metallica di VI-VII secolo, decorata a rilievo, oggi a Berlino, vi sono due raffigurazioni: due uccelli raffigurati ai lati di un albero e due leoni ai lati di un cantharos. Inoltre pur accettando la ricostruzione con i leoni ai lati del guerriero, bisogna tener presente che, come dimostra la brattea con San Mena tra i Leoni, Daniele non è l’unico personaggio raffigurato tra i felini.

Tra i leoni è raffigurato ad esempio uno dei padri della chiesa, il vescovo di Antiochia Ignazio, perché condannato da Traiano ad bestias; alla metà del VII secolo questo vescovo orientale era molto conosciuto in Italia, perché le sue ossa furono dapprima sepolte ad Antiochia e nel 637 traslate a Roma, a causa di un’incursione dei Saraceni. La sovrapposizione del defunto con l’immagine di Daniele comunque, seppure tutt’altro che scontata, resta l’ipotesi più verosimile. È molto significativo che entrambi i gruppi figurati compaiano sui due frammenti superstiti di un ambone proveniente da Novara, datato tra la fine del VII e la prima metà dell’VIII secolo, sul quale elementi figurativi paleocristiani o comunque tardo-antichi, convivono con figure antropomorfe di chiara ascendenza germanica.

Le immagini sono racchiuse all’interno di uno schema figurativo diviso in riquadri da una cornice costituita da un tralcio vegetale con pampini e grappoli. Sul primo frammento compaiono due scene: la prima è frammentaria e presenta i pavoni attorno al cantharos; la seconda ritrae una figura barbuta con un martello nella mano destra, interpretato come la trasposizione in ambito cristiano delle caratteristiche iconografiche del dio Thor. Sul secondo frammento è presente Daniele tra i leoni e due scene parziali: la prima è costituita da una figura maschile di cui resta solo un braccio e un’arma lungo il fianco (forse uno scramasax); della seconda si intravedono solo le spire di alcuni serpenti. Un solo esemplare di scudo da parata è paragonabile per complessità e ricchezza decorativa a quello lucchese ed è quello rinvenuto a Stabio in Canton Ticino. Anch’esso ha lamine applicate al disco ligneo disposte in gruppi di due con elemento singolo al centro di una coppia affrontata. In questo caso l’iconografia è differente e richiama piuttosto il mondo della caccia: l’albero della vita tra due cavalieri armati di lancia e spada e un cantharos tra due cani retrospicienti mentre quattro elementi lanceolati erano posizionati a ridosso della tesa dell’umbone.

I due scudi sono accomunati da una fattura tecnica molto accurata che ha fatto ipotizzare una stessa bottega di produzione e dalla volontà di comunicare un messaggio simbolico. Gli scudi da parata, difatti, contraddistinti dalla estesa superficie esposta su cui si dispiegava tutto l’apparato decorativo, erano un canale privilegiato di comunicazione di un messaggio simbolico o di precisi riferimenti politico-culturali dalla forte valenza ideologica, che potevano essere indirizzati al nemico che si affrontava in battaglia ma anche ai componenti della società di cui si faceva parte, soprattutto nel corso delle cerimonie, laiche e religiose, che scandivano la vita degli arimanni. Tali messaggi non sono interpretabili solo come la semplice manifestazione di uno status sociale acquisito, possono segnalare l’appartenenza ad un gruppo ristretto oppure possono essere riconducibili ad una radice più intima e profonda che affonda nella cultura tradizionale longobarda o nella cultura cattolico-romana.

Nel periodo di massima diffusione essi presentano una grande standardizzazione di figurazioni formali: a differenza di quanto avviene, ad esempio, sugli scudi rinvenuti in Inghilterra che presentano un ricco e articolato repertorio di figurazioni su lamine dorate(55), in Italia gli scudi da parata delle ultime fasi tipologiche si limitano a pochi tipi diversi, con alcune varianti frutto di commistioni, riduzioni o imitazioni e forse anche fraintendimenti, tra cui spiccano notevolmente i due esempi di Lucca e di Stabio che sono accomunabili per fattura ma che risultano molto distanti tra loro proprio per il contenuto del messaggio: da una parte un richiamo al mondo nobiliare impegnato in attività venatorie (Stabio), dall’altra un insistito messaggio religioso (Lucca). Fra i reperti del corredo si è conservata, inoltre, una piccola croce enkolpion in oro, di circa 2 cm, con bracci tubolari lisci, espansi verso l’esterno e terminanti in cavità per l’alloggiamento di pietre preziose oggi perdute.

Alla base della croce è presente un grumo di ossido di ferro, forse l’esito della corrosione del sistema di sospensione. L’asse verticale è più lungo di quello orizzontale: non si tratta però di una croce latina nel vero senso in quanto il braccio orizzontale incrocia quello verticale alla metà esatta della sua lunghezza. All’incrocio dei bracci vi è una cavità circolare per l’alloggiamento di una pietra preziosa, come quelle che chiudevano le terminazioni dei bracci che a volte serviva a sigillare una minuscola reliquia. Croci pettorali siffatte sono ben documentate in ambito bizantino tra VI e VII secolo, soprattutto in Asia Minore e Cipro, realizzate mediante una lamina ripiegata o in oro pieno, con una pietra al centro(56). Anche nel caso in questione poteva esserci una piccolissima reliquia, magari del corpo della santa cui è dedicata la chiesa, acquisita in occasione della traslazione delle sue reliquie. Vi sono diversi confronti: al Museo Benaki di Atene è conservata una matrice litica (vedi fig. 8) che serviva per la realizzazione di una croce pettorale identica a quella di Lucca, nonché orecchini a cestello e a corpo semilunato: erano tutti prodotti bizantini di VIVII secolo confezionati all’interno dello stesso opificio. Il rimando alla sfera religiosa in questo caso è comunque molto forte, sia che si tratti di una semplice croce pettorale e soprattutto che si tratti di un reliquiario. L’unico oggetto che rimanda ai riti funebri è il vaso di vetro, probabilmente una bottiglia del tipo apode, con corpo globulare e lungo collo cilindrico, che compare nelle tombe longobarde fin dalla prima generazione e costituisce una delle ultime offerte ad essere eliminata dai corredi, anche in contesti ecclesiastici(57).


Conclusioni
La prestigiosa sepoltura non era isolata, difatti alcune tombe indagate nel 1985 nell’area di Palazzo Lippi(58) testimoniano l’esistenza di una necropoli longobarda, attestata tra piazza del suffragio e via Sant’Anastasio(59), entro cui l’inumazione del dignitario lucchese va contestualizzata e analizzata. Il corredo parla per simboli che devono essere decodificati(60) poiché i dati materiali vengono interpretati come componenti simbolici e rituali tesi a sottolineare alcune caratteristiche che la società riteneva pertinenti all’inumato, quali l’età, il sesso, le condizioni e il luogo in cui avvenne morte. Questi elementi possono trovare espressione non solo nel corredo e nell’abbigliamento del defunto, ma anche nel dispendio di energia necessario per il rituale funerario, per la costruzione della sepoltura e per il trattamento del corpo. Tutti gli oggetti di corredo della sepoltura di Santa Giulia si distinguono nel panorama delle sepolture coeve per la peculiarità e la ricercatezza, nonché per la ricchezza espressa nella fattura e nell’impiego di materiali preziosi: la profusione dell’oro, il numero e le dimensioni delle crocette, la qualità della cintura, la presenza della croce enkolpion e la grandiosità dello scudo da parata con il suo manifesto programmatico espresso dalle appliques figurate, tutto concorre a qualificare questo ritrovamento come una delle scoperte più significative dell’archeologia funeraria di età longobarda, non solo di ambito toscano ma di tutto il territorio nazionale. Tutti gli indicatori a disposizione puntano concordemente verso i vertici della società longobarda della metà del VII secolo: il grande dispendio di energia impiegato nella realizzazione di questa sepoltura, nonché la sontuosità dei beni deposti, qualificano l’inumato come un esponente dell’alta aristocrazia longobarda, quasi certamente un vir magnificus, titolo che indicava colui il quale occupava un posto appena al di sotto del Duca(61) al quale spettava il titolo di vir gloriosissimus(62). L’uso di questi titoli e dignità espresse in forme romane, era invalso dall’età di re Agilulfo in avanti(63) nel tentativo di rendere riconoscibili i diversi gradi delle gerarchie longobarde alla popolazione e ai membri superstiti della sua classe dirigente, ricorrendo a titoli che erano utilizzati precedentemente per indicare i componenti della classe senatoria o personaggi di rango elevatissimo come consoli, patrizi, prefetti. Tale titolo non è esplicitato direttamente, come ad esempio nel caso della tomba 2 del sepolcreto nobiliare di Trezzo d’Adda, dove la titolatura romana è confermata dalla presenza di un anello sigillo con l’iscrizione +RODC/HIS VIL (Rodchisvirilluster)(64). Fa certamente riflettere la mancanza di un anello sigillo all’interno della sepoltura di Santa Giulia(65), nella quale la ricchezza del corredo è tale da indicare una personalità di spicco nella società longobarda, anche alla luce di alcune analogie con altre sepolture in cui si rinvenne tale manufatto, come la sepoltura scoperta in sant’Ambrogio a Milano con l’anello-sigillo di MARCHEBADUS(66) e soprattutto quelle del sepolcreto nobiliare di Trezzo d’Adda che non presenta un grado di ricchezza superiore alla sepoltura lucchese e dove sono presenti elementi comparabili con questa come la cintura in oro della tb. 1 o la particolare terminazione dell’applique centrale dell’umbone, a forma di tulipano, della tb. 4. Colpisce all’interno di questo prestigioso corredo, la presenza di elementi che rimandano a contesti cronologici differenti di almeno una generazione: da una parte c’è la cintura aurea la cui deposizione è prevalente nei ceti alti entro il primo trentennio del VII secolo, spesso in connessione a 5 crocette auree; dall’altra c’è lo scudo che presenta elementi che non compaiono prima del 640 d.C. come le punzonature a ‘S’, la stella incisa al centro della borchia, le appliques e la lamina che ricopre la tesa dell’umbone. Data l’incontrovertibile unità del corredo, è evidente che si è difronte ad un caso di attardamento della presenza degli elementi aurei, forse per l’attaccamento del defunto alle pratiche deposizionali della passata generazione o forse anche perché i beni in questione costituivano un’eredità prestigiosa. Se il corredo residuo di questo personaggio si contestualizza, dunque, solo rivolgendo l’attenzione alle alte sfere della società longobarda, il suo messaggio simbolico, di portata anche sociale e politica, è rivolto in qualche modo verso la sfera religiosa e rende evidente l’esistenza di correnti ideologiche diverse alle quali le élites aderiscono, anche alla luce del confronto con il rinvenimento di Stabio. Il rinvenimento lucchese ci consente di far luce sugli atteggiamenti delle élites, su quali culti religiosi promuovono e su come si comportano in merito alle reliquie. È evidente che i punti di riferimento di questo personaggio e del suo gruppo parentale sono altri: Bisanzio in primo luogo, come esempio di monarchia cattolica, e poi lo sguardo è certamente rivolto a Pavia dove si andava elaborando una nuova concezione di sovranità longobarda, sotto l’influenza di alcuni personaggi autorevoli a corte(67). È probabile che, in un momento ancora abbastanza precoce, l’attenzione dell’anonimo personaggio lucchese fosse rivolta verso quanto si stava definendo a corte in quel frangente storico.