L'esproprio proletario di Bergoglio
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Affermazioni assai scivolose, soprattutto se inquadrate nel contesto di un discorso che così esorta i giudici dei Comitati per i diritti sociali dei due continenti: “Nessuna sentenza può essere giusta, nessuna legge legittima se ciò che generano è più disuguaglianza”. Con tanto di invito finale a lottare “contro quanti negano i diritti sociali e lavorativi. Lottando contro quella cultura che porta a usare gli altri, a schiavizzare gli altri e finisce col togliere la dignità agli altri”.
Al netto di ovvietà come il rifiuto della schiavizzazione e della negazione dei diritti, che difficilmente potrebbero essere non condivise, un approccio per metà da socialismo reale in salsa sovietica e per metà da madurismo venezuelano, che alla valorizzazione dei talenti e all’etica del lavoro e della fatica quale strumento di realizzazione personale sembra preferire un rivendicazionismo redistributivo che come modello economico non ha fin qui dato grande prova di sé. Come proprio la storia di quel terzo mondo al quale Bergoglio si rivolge e al quale sembra guardare quasi come fonte di ispirazione dovrebbe invece dimostrare.
Insomma, dopo la patrimoniale di cui si sente parlare in casa nostra, l’esproprio proletario. Un passo avanti verso quella “Francesconomics” i cui contorni sono sempre più chiari e della quale ci occuperemo più diffusamente nei prossimi giorni. Intanto limitiamoci a rispondere attraverso la Dottrina sociale della Chiesa e la miliare enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII, rifacendoci alle osservazioni formulate su questo giornale dal professor Stefano Fontana a commento della “Fratelli tutti”.
Per quanto riguarda la concezione di disuguaglianza e inequità che per Francesco è la causa di tutti i mali, “quando la disuguaglianza è frutto dell’ingiustizia – scrive Fontana – va combattuta come ingiustizia. Ma quando la disuguaglianza è frutto o della natura o dell’impegno personale allora è una ricchezza per tutti. Anche la Rerum novarum di Leone XIII lo diceva, mettendo in guardia dalle utopie egualitariste che producono danni infinitamente maggiori di quelli che vorrebbero evitare. C’è il rischio che dalla valutazione della proprietà privata che papa Francesco esprime nell’enciclica derivino forme di statalismo populista, di pauperismo egualitario, di assistenzialismo deprimente. Bisognerebbe tornare a parlare di giustizia e non di diseguaglianza, ma per farlo bisogna superare le insufficienti dottrine moderne dell’equità (come per esempio Rawls) per tornare al concetto denso di bene comune”.
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Più chiaro di così…
loccidentale.it