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Il loro Afghanistan e un triplice fallimento

di A. Giacobazzi

(RadioSpada.org) Parlare di questioni inerenti quel grande spazio che si articola dal Mediterraneo Orientale fino ai confini della Cina è da sempre materia particolarmente complessa. Ed è ai limiti di quest’area che la realtà afgana rappresenta un lembo oscuro, ancor meno decifrabile di altri.

Da Alessandro Magno al “Grande Gioco” e oltre fino alla disfatta sovietica e a quella recentissima statunitense, l’Afghanistan resta prima di tutto una fonte di interrogativi irrisolti.

Non è certo questa la sede per dilungarsi in disquisizioni geopolitiche, dunque più che sulle domande aperte potrebbe essere opportuno fissarsi sulle poche certezze che abbiamo: ovvero la breve e triplice lezione che si trae dal fallimento cui stiamo assistendo.

Prima di passare a questo aspetto però vanno fissati alcuni punti di riferimento – spesso taciuti – che non paiono secondari nella comprensione dei fatti.

I tanto citati “talebani” nascono negli anni ‘90 ma non dal nulla: è proprio in quel grande incubatore politico che fu la guerra sovietico-afghana (1979-1989) – dove una composita schiera internazionale (tra cui gli USA) sostenne le fazioni dei mujaheddin – che si crearono le premesse della loro successiva ascesa. Si noti incidentalmente che nel variopinto fronte anti-sovietico non mancava un comandante poi passato a più alte cronache: Osama bin Laden. Fonti occidentali dichiararono che mai entrarono in contatto o finanziarono direttamente il futuro “nemico d’America”, ma la cosa sposta poco dal punto della dinamica storico-militare.

Fu il caos successivo alla ritirata sovietica che permise ai talebani di imporsi come forza unificante rispetto alla frammentazione locale, non senza l’appoggio di potenze straniere, in primis del Pakistan. Si noti tuttavia che nel mosaico afgano gli interventi esterni, così come i cambi di fronte, non furono (e non sono) mai riconducibili a una singola potenza o a un singolo blocco d’interessi (si pensi tra l’altro al ruolo protettivo dell’Iran rispetto alla minoranza sciita).

Veniamo ora al triplice fallimento riferibile al cosiddetto Occidente, associato a tre distinte narrazioni:

La prima narrazione a fallire è quella del maggior valore dell’amministrazione Biden (e con essa della “sinistra” euro-atlantica) nella gestione delle crisi internazionali. La gaffe di un presidente che a luglio rassicura sulla tenuta di un esercito locale affiancato per oltre 20 anni da truppe americane sul territorio e che ad agosto assiste alla scomposta fuga degli ultimi profughi accalcati all’aeroporto, rientrerà purtroppo nella storia del genere grottesco, se non del tragico, prima ancora che di quello storico. Questa prima crisi, sebbene molto sottolineata giornalisticamente, pare la meno interessante.

La seconda è quella dell’attrattività – direbbero certi editorialisti: dell’appeal – della liberal-democrazia occidentale. Dopo decenni di esportazione, sbandieramento, implementazione, fallisce di nuovo con un tonfo fragoroso. Si badi: qui non si parla della democrazia – nel senso classico o scolastico del termine – ma proprio di quella forma liberal-democratica che, come un improbabile nuovo dogma, è stata martellata nella testa di molti a reti e giornali unificati. Era in crisi nera già a casa nostra – tra astensionismo, partiti ridotti a comitati elettorali, crisi ideologiche sempre più nette, politici costretti a rincorrere ora esponenti dello spettacolo e dei social (più o meno comici), ora sportivi, ora esponenti del trash pur di racimolare qualche attenzione – immaginatevi quanto può essere in salute dalle parti di Kabul, con uno Stato ircocervo occidental-musulmano, american-afgano, raffazzonato in vent’anni di occupazione.

La terza è quella della narrativa sul fantomatico “Islam moderato”. Concetto inafferrabile, ora proposto come oggetto di una scommessa generazionale, ora decantato come un’ipotesi di lavoro relativa ad una significativa presenza sociale. Sugli “islamici graditi all’Occidente” vincono i talebani, che saranno odiosi ma hanno le idee chiare. Del resto se all’Islam moderato dovesse corrispondere – mutatis mutandis – il “Cristianesimo democratico” non ci si dovrebbe stupir troppo degli esiti: li abbiamo già visti da vicino nell’ultimo secolo. C’è poi – si noti a margine – un’ulteriore schizofrenia nostrana sul tema della “moderazione islamica”. Pur fuggendo da ogni ecumenismo indifferentista, risulta difficile comprendere come si intenda in Occidente costruire le vie di questa moderazione quando alcuni tra i principali governi del Vicino e Medio Oriente, sotto cui i cristiani erano o tollerati o addirittura integrati nella gestione politica, sono stati tra i principali obiettivi dell’ostilità euro-atlantica (si pensi anche solo alla Siria e all’Iraq). Certo, la storia di quei Paesi non è sovrapponibile alla nostra e chi li ha amministrati non ha in corso processi di canonizzazione, ma se l’alternativa sono Isis, talebani, o anche solo sauditi e loro derivati, forse un filo di prudenza in più con Saddam e Assad non sarebbe stato da escludere.

In sintesi: perché l’Afghanistan è stato un così colossale disastro? Perché in guerra si vince con eserciti che amano ciò che hanno alle spalle, ancor più di quanto non odino ciò che hanno davanti agli occhi. Detto in altri termini: un’identità forte, per quanto falsa, come falsa è quella dei talebani, ha potuto prevalere su un’identità debole (e pure falsa) come quella per cui non erano disposti a rischiare i soldati del governo di Kabul. L’ideale dei primi, malato fin che si vuole, era più forte, più chiaro di quello proposto dal governicchio ora in fuga. E questo corrisponde alla triplice lezione delle righe precedenti.

Immagine in evidenza: Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA), CC BY 3.0 creativecommons.org/licenses/by/3.0/, via Wikimedia Commons
giandreoli
@Giorgio Tonini a me pare diversamente: ci sono musulmani moderati (che non osservano integralmente il Corano), ma non un islam moderato.