Il peccato, i meriti e i castighi

Alla luce di tutto il percorso compiuto finora e prima di entrare nel dettaglio affrontando la tematica delle virtù cristiane e degli atti conformi al bene, è necessario aggiungere qualche ulteriore punto e trarre le debite conclusioni. Un atto si qualifica come “buono” o “cattivo” in base alla volontarietà che dipende, come abbiamo visto, dalla conoscenza e dall’intenzione, considerate le debite e opportune circostanze. Conseguentemente un atto buono in relazione alla sua volontarietà si può e si deve qualificare come “lodevole”, mentre un atto cattivo è per definizione “colpevole”. Un atto oggettivamente buono, secondo l’insegnamento autorevole di san Tommaso e di tutta la tradizione della Chiesa, è sempre oggettivamente ordinato al nostro bene e fine ultimo, che è la salvezza e l’eterna beatitudine e lo diventa, come vedremo, in maniera piena e perfetta quando è compiuto in stato di grazia ed è quindi animato dalla carità. Sotto questo aspetto, un atto oggettivamente buono si definisce, in termini morali “retto”, perché concorde col fine ultimo dell’uomo, mentre quando da esso oggettivamente si discosta lo si qualifica come “peccato”. Il peccato, poi si definisce mortale, quando la contrarietà al fine ultimo è diretta e immediata sia nell’oggetto che nelle intenzioni (per questo si dice “peccato mortale” quello compiuto con piena avvertenza, deliberato consenso e materia grave), mentre è veniale quando il discostamento dal fine ultimo non è pieno oppure si situa solo sul piano dei mezzi (e questo accade o quando la materia è in se stessa lieve o leggera, oppure quando la volontarietà o la coscienza del male compiuto - anche in materia grave, come abbiamo visto - non sia piena). La definizione più accreditata e comune del peccato nella dottrina cattolica è quella attribuita a sant’Agostino e completata da san Tommaso: “un’offesa a Dio fatta trasgredendo la sua legge”. In questa definizione sono contenuti gli elementi essenziali di ogni peccato: anzitutto l’offesa a Dio, in quanto il peccato è sempre un atto oggettivo di disprezzo di Dio, di prevaricazione nei suoi confronti, di rifiuto di riconoscerlo come santo e buono, di non considerazione della sua eccellenza e della nostra miseria; in secondo luogo la trasgressione della sua legge, in cui questa prevaricazione si sostanzia ed esplicita e che è quanto di più folle e irragionevole si possa non solo fare ma perfino concepire o immaginare. Trasgredire la legge santa dell’Altissimo, concepita solo per il bene dell’uomo e donata a lui come bussola per guidare il proprio cammino al sicuro da rischi, incidenti e pericoli è quanto di più stolto e ingiustificabile si possa commettere da parte dell’uomo. Eppure è fatto continuamente, costantemente, sconsideratamente, a cuor leggero e a volte con superbia e spavalderia, non immaginando che fare una cosa così nefasta significa non solo offendere Dio, ma anche fare il male, provocare male, produrre male, scatenare il male, asservirsi al principe del male e, non ultimo, “farsi” male. Gli uomini vanno cercando a destra e a manca improbabili risposte al problema del male, sia in generale che in particolare, per i tanti mali che travagliano le singole esistenze dei mortali, nessuna esclusa. Ma essa fu, è e sempre sarà una sola: il peccato, l’unico male e l’unica causa di ogni male… Infine ogni atto umano, compiuto esercitando il libero arbitrio, in quanto oggettivamente buono o cattivo, sarà, checché stoltamente se ne pensi oggi, giudicato, valutato e, soprattutto, retribuito da Dio, in questa e nell’altra vita. Sotto questo aspetto gli atti umani si presentano come “meriti” (quando sono degni di un premio) oppure “demeriti” (quando sono degni di castigo). I castighi conseguenti al demerito degli atti cattivi degli uomini che si abbattono su di essi in questa vita, stante l’insegnamento comune di tutti i dottori e maestri di spirito, sono quasi sempre, come ricorda l’etimologia latina del termine (“castum agere” = “rendere puro”), finalizzati alla correzione, all’emenda e alla conversione del peccatore, perché si ravveda e scampi dalla dannazione eterna verso cui la divina sapienza sa esserlo incamminato. Invece i castighi che vengono inflitti dalla divina giustizia nell’altra vita sono retributivi in senso stretto, ossia pene, sofferenze, tormenti e dolori proporzionati nella specie, nell’intensità e nelle tipologie alle varie specie e al numero dei peccati commessi in vita senza pentirsene. Può senz’altro non piacere questa dottrina, ma è quella autenticamente cattolica e divinamente rivelata. E piaccia o non piaccia, così è e così sarà, in questa e nell’altra vita.
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