Debora e Sisara, figura di Maria Corredentrice che vince satana – Don Dolindo Ruotolo

Riferimento: Giudici, 4, 1-24

(L’italiano è un po’ datato scrivendo don Dolindo nel 1943-44 ma si capisce tutto integralmente per cui preferisco lasciare il testo così com’è).

Essendo Israele ricaduto nelle colpe passate, Dio lo punì e lo diede nelle mani di Iabin, re di Canaan, il quale regnò in Cazor (...).

Nei vent’anni di durissima servitù, gli Ebrei si riscossero dal loro torpore e levarono le voci a Dio con la preghiera. La preghiera è una forza meravigliosa più potente di qualunque esercito, più terribile dei carri di ferro. Non si leva mai la voce a Dio, non si grida a Lui senza essere esauditi (...).

Di fronte al poderoso esercito di Iabin, Dio non suscita una potenza virile, ma una donna ripiena del suo Spirito, Debora; di fronte all’altero generale delle forze di Iabin, di fronte a Sisara, non oppone un gigante, ma un’altra donna, Giaele; così dimostra più luminosamente il suo intervento miracoloso nel salvare Israele. Barak, comandante supremo dell’esercito ebreo, invitato a combattere, protesta di non avere il coraggio di muoversi senza l’aiuto e la compagnia di Debora; egli sentiva forse che l’anima dell’imminente battaglia non era lui, ma una donna e, d’altra parte, Debora stessa gli disse: Per questa volta non sarà attribuita a te la vittoria, poiché Sisara sarà dato nelle mani di una donna. In quest’episodio della Scrittura, domina dunque l’elemento femminile, domina sotto vari aspetti, ed è figura e profezia del futuro.

Debora era una profetessa, come lo era stata Maria sorella di Mosè, e perché dotata di doni soprannaturali, era diventata giudice del popolo. Il fatto era tanto più nuovo e straordinario in quanto che fra gli Ebrei le donne vivevano sempre nel nascondimento delle loro case. La Scrittura non ci dice come Debora divenne giudice d’Israele, ma evidentemente la sua autorità s’impose al popolo per molti fatti soprannaturali, e fu Dio stesso che soavemente la impose. In un triste periodo di dolorosa schiavitù, il popolo aveva notato in questa donna una prudenza singolare nel giudicare le cause e i dissidi che sorgevano fra le varie famiglie, e aveva fatto ricorso a lei. La sua autorità si era talmente affermata, che tutti, non volendo sottostare a un giudice straniero nei loro litigi, ricorrevano a lei. La folla di quelli che domandavano il suo intervento si era talmente accresciuta, che essa non poteva ascoltarla che all’aperto, e perciò sedeva all’ombra di una palma situata fra Corma e Betel sul monte Efraim.

Ella stessa sentiva di avere una missione da Dio, e perciò non solo consigliava gli Ebrei, ma li dominava maternamente, come può rilevarsi dal comando dato a Barak di raccogliere le truppe e iniziare la guerra della riscossa. La voce di Dio che prima risuonava nascostamente nella sua anima, si affermò anche esternamente durante il suo governo; essa, quindi, poté imporre assolutamente a Barak da parte di Dio di raccogliere l’esercito, senza bisogno di dimostrare la verità di questo comando del Signore (...).

Debora stabilì da parte di Dio anche il piano di guerra: concentrare diecimila uomini della tribù di Neftali e di Zabulon che, essendo le tribù più oppresse da Iabin, potevano rispondere con maggiore slancio ad un appello di guerra, a un grido di riscossa. A queste tribù si dovevano unire anche le tribù di Issacar e di Manasse che confinavano con quella di Zabulon. L’esercito doveva essere concentrato sul monte Tabor, che apparteneva a Zabulon e si trovava ai confini di Issacar e di Manasse. Il Tabor è una montagna isolata, a forma di cono tronco, elevata a seicento metri sul Mediterraneo, e a quattrocento sul piano di Esdrelon. Su questo monte, Barak poteva sorvegliare le mosse nemiche, poteva evitare gli attacchi di sorpresa, e poteva, al momento opportuno, gettarsi sull’esercito avversario. Dio prometteva la vittoria, Dio ne era l’autore, eppure faceva prendere tutte le precauzioni umane per conseguirla. In tutte le opere del Signore c’è questa sapiente economia, questa utilizzazione di tutte le nostre energie, perché Egli non fa mai nulla di superfluo.
Il piano strategico doveva essere completato da un altro elemento necessario: attrarre Sisara in quella posizione nella quale non poteva fare spiegamento dei suoi famosi carri falcati. A questo, provvide Dio stesso promettendo che avrebbe condotto Sisara nel luogo del torrente Kison, a nord-est del Tabor.

Come lo avrebbe condotto là il Signore? Ecco un altro mistero della divina Provvidenza, che possiamo conoscere attraverso la condotta del superbo capitano di Iabin. Dio non lo forzò ad andare nel luogo della sconfitta, ma utilizzò l’orgoglio di lui, che divenne così causa e strumento della sua rovina. Sisara, infatti, si sdegnò grandemente nel conoscere che il piccolo esercito di Israele si era concentrato sul Tabor; lo aveva in grande disprezzo e fu spinto dal suo stesso orgoglio e dalla sua ira ad andare in quel punto dal quale si prometteva di sgominarlo con la sola sua presenza. Dio, dunque, lasciandogli la piena libertà di agire a suo modo e di seguire l’impeto della veemente passione, lo condusse nel posto della sconfitta.

È mirabile questa assoluta padronanza di Dio su tutte le attività umane attraverso la medesima libertà dell’uomo. Il Signore castigava Sisara, lasciandogli il pieno dominio della sua libertà, come castiga gli empi quando sembra quasi sopraffatto dalla loro tracotanza, e li lascia operare a loro capriccio. Noi ci scandalizziamo facilmente nel vedere le falangi del male avanzare trionfanti in piena libertà, senza che Dio intervenga per arrestarle, e non sappiamo che, proprio allora, esse marciano verso la rovina e verso la distruzione.

Ecco un momento epico e tragico: da una parte un poderoso esercito, dall’altra un pugno di uomini guidati da una donna. Barak non era che un esecutore degli ordini di Debora che in nome di Dio dominava il campo di guerra, e in Nome di Dio spingeva il capitano ad attaccare risolutamente. L’ardita mossa offensiva di Barak sconcertò il nemico; fu l’elemento umano del quale Dio si servì per gettare lo scompiglio nell’esercito di Sisara: la stessa sicurezza orgogliosa del nemico rese più improvviso e più formidabile quell’urto. Lo spavento fu così grande che l’esercito si disordinò, volse in rotta, inceppato nella fuga dai suoi stessi carri. Sisara, vedendo il suo carro stretto e impigliato dalla massa dei fuggiaschi, saltò giù e si diede a correre per sfuggire all’inseguimento. La vittoria d’Israele non poteva essere più strepitosa: l’esercito nemico fu sterminato, non ne scampò neppure uno, come aggiunge il testo ebraico.

Il Signore completò la vittoria facendo perire l’orgoglioso Sisara per mano di un’altra donna, ed ecco in qual modo: il Sacro Testo, al versetto 11, fa notare che Eber il Kenita, staccatosi dagli altri suoi fratelli, aveva piantato le sue tende nella valle di Saannaim, vicino a Kades; in tal modo si spiega come potessero esservi dei Keniti nei pressi del campo di battaglia. Essendo riguardati come stranieri, Iabin non li molestava. Sisara, fuggendo, giunse alle tende dei Keniti, e Giaele, moglie di Eber, gli andò incontro, invitandolo ad entrare nella sua tenda. In un primo momento, vedendo quell’infelice affannato, adirato, sconvolto dalla vergogna e dal dolore, presa da un sentimento di compassione, lo coprì con un mantello e lo invitò a riposare. Egli aveva una grande sete per la corsa fatta e per la rabbia della sconfitta subita, e domandò da bere; Giaele gli offrì del latte e poi nuovamente lo ricoprì, per farlo riposare. Sisara, prima di addormentarsi, le raccomandò di fare la guardia fuori la porta della tenda e di non farvi entrare nessuno. Le donne avevano le tende separate da quelle degli uomini; la presenza quindi di Giaele fuori la porta della sua tenda, doveva, secondo pensava Sisara, fuorviare le ricerche dei suoi inseguitori.

I Keniti erano incorporati al popolo di Dio e ne seguivano la Legge; Giaele non poteva dunque non prendere le parti d’Israele. Appena Sisara si fu addormentato, essa dovette riguardarlo: egli aveva il volto truce, stravolto dalle tremende emozioni della giornata. Giaele ricordò allora tutte le crudeltà alle quali era stato sottoposto il popolo di Dio; riconobbe in quell’uomo lo strumento principale di tante ingiustizie, sentì da lontano il clamore delle schiere vittoriose d’Israele, e presa da un impeto complesso e improvviso, al quale non era estranea una permissione e una disposizione particolare della divina giustizia, pensò di dare essa stessa la morte a quel tiranno. Sisara dormiva su qualche tappeto disteso sul pavimento, con il capo riverso su di un lato; la donna, afferrato uno dei grossi chiodi o pioli ai quali si attaccavano le corde delle tende, glielo puntò alla tempia, e con un colpo di martello glielo conficcò nel capo, trapassandolo dall’altra parte fin sul pavimento. Il testo greco ha un’espressione che è meravigliosa per esprimere l’effetto di questo colpo terribile: Egli si agitò convulsamente fra le ginocchia di lei, cadde inerte, e morì. Giaele quindi si era inginocchiata per colpirlo, ed egli si dibatté nella breve agonia, mentre essa ancora gli stava sopra.

Molte discussioni si fanno sull’atto di questa donna; alcuni dicono che essa mentì accogliendo benevolmente Sisara mentre voleva colpirlo a tradimento; altri dicono che agì per una particolare ispirazione di Dio; invece a noi pare che questa donna ebbe due momenti distinti, due stati psicologici che la indussero alla doppia azione di pietà prima, e di giustizia dopo. Essa manifesta in se stessa come in un quadro la complessa anima femminile. Vede correre di lontano quel baldanzoso capitano umiliato, stravolto, avvilito: ne sente compassione, e nello stesso tempo ne teme, perché era come trasformato dall’ira. Lo ricovera, lo copre di un mantello, ossia di una coperta, e lo invita a riposare. Sisara, rassicurato da lei, la mette a guardia fuori la porta, dopo aver bevuto del latte, e dorme profondamente. Dal canto di Debora si rileva che l’esercito di Sisara fu colpito da un’orribile tempesta di grandine e di fulmini che lo sconvolse. Giaele aveva visto questo segno dell’ira di Dio, ed ora che sente i canti di trionfo del vittorioso Israele, capisce che il Signore aveva combattuto contro i nemici del suo popolo.

Barak avanzava con i suoi per rintracciare il fuggiasco; Giaele, temendo di compromettersi per aver dato rifugio a Sisara, e considerandolo d’altra parte come un pericoloso nemico, afferrò il piolo della tenda presso la quale si trovava, e gli trafisse il capo. Lo uccise perché sentì che si avanzava Barak, e difatti ebbe premura di andargli incontro e di mostrargli il cadavere contratto di Sisara come un trofeo di vittoria.

Il fatto che Giaele uccise Sisara con il chiodo della tenda ci fa capire che essa lo uccise per un moto improvviso dell’anima e non per una premeditazione: se avesse premeditato il colpo, avrebbe certamente preparato un’arma e non un chiodo. Il Signore utilizzò il suo stato d’animo per punire il tiranno che aveva oppresso impunemente il suo popolo, e volle in tal modo figurare la sconfitta di satana per mezzo della Benedetta tra tutte le donne.

LA BENEDETTA FRA TUTTE LE DONNE

In un momento nel quale Israele era oppresso da un crudele tiranno, trovò la salvezza in una donna. Debora è una figura di Maria Santissima che, come canta la Chiesa, è forte come un esercito ordinato, e che da sola sconfigge le eresie. Iabin significa etimologicamente intelligente; ora le eresie sono precisamente un traviamento dell’intelligenza, rappresentano la lotta del pensiero umano stravolto dall’errore, contro la luminosa verità della Fede. Contro quest’insidioso nemico, il Signore ha costituito come giudice e come vincitrice gloriosa la Vergine Maria, la vera Debora della Chiesa.

Debora significa ape, e i Padri dicono che ella ebbe, come un’ape, il miele della profezia per il popolo di Dio e il pungiglione della spada vittoriosa per i nemici. Maria è l’ape celeste che ha raccolto il miele delle grazie, ed è quella che difende l’alveare del Signore con la divina potenza che sconfigge i nemici. Debora non vinse Iabin che attraverso Barak, il fulmine, e non uccise Sisara con le sue mani, ma ne trionfò per il chiodo di Giaele. Così Maria diede al mondo il frutto benedetto del suo seno, che fulminò il dragone infernale, e gli fiaccò l’orgoglioso capo con i chiodi della crocifissione. Quei chiodi, trapassando le mani e i piedi del Redentore, trapassarono il capo del demonio, che tutti i Padri vedono figurato in Sisara.

Debora fu sposa di Lappidot che significa illuminato, luce, lampada, e Maria fu sposa della stessa luce eterna, dello Spirito Santo. Debora per giudicare sedeva fra Corma e Betel, cioè sulla altezza, Corma, e nella casa di Dio, Betel; Maria Santissima fu elevata in santità sulla cima dei più alti monti, ed abitò nella casa di Dio, perché Ella stessa ne fu tempio vivo, dando la vita al Verbo Incarnato. Debora chiamò a sé Barak, figlio di Abinoam, da Kades di Neftali, e lo indusse a salire sul Tabor con il suo esercito per vincere il nemico. Maria, con le sue preghiere attirò nel suo seno il Figlio eterno del Padre, l’infinita bellezza, Abinoam, padre della bellezza e della giocondità; attirò il Redentore, vero Barak, vero fulmine contro l’Inferno e il peccato. Il Figlio di Maria venne da Kades, perché è l’infinita santità; venne da Neftali, la lotta, perché è la santità che combatte contro il peccato; combatte dal Tabor, che significa purità, contrizione, elezione, perché è la stessa innocenza, contrita dai peccati di tutti, che con il suo combattimento ci merita l’elezione alla vita eterna e la gloria.

Senza Debora, Barak non ascese sul monte per combattere, e Gesù non ascese il Calvario senza Maria e, come dicono i Padri, senza Maria l’anima cristiana, gli apostoli, i santi non possono affrontare il combattimento contro il dragone infernale. Noi possiamo dirti, Vergine Maria, come disse Barak a Debora: “Se tu vieni con noi, andremo al Tabor, saremo cioè puri, saremo gli eletti di Dio, saremo i contriti penitenti che con le lacrime conquistano l’altezza. Ma se tu non puoi venire con noi, non potremo salire fino a Dio. Chi ci vinse per una donna, non può essere vinto che per te, o benedetta fra tutte le donne; tu dunque sei la forza della Chiesa e la forza delle anime nel terribile combattimento che sosteniamo per liberarci dal giogo di satana; sali tu con noi in questo pellegrinaggio penoso, e salvaci da ogni male”.