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Il canto del dolore. Di M° Aurelio Porfiri

Quando si giunge al mese di novembre è naturale andare con la mente ai nostri fedeli defunti, visto anche la festa liturgica del 2 novembre. Ci è spontaneo fissare la mente su quel grande mistero che ci attende e che ci sgomenta.

Non possiamo fingere indifferenza di fronte al passaggio più significativo della nostra esistenza, quello su cui alcuni di noi hanno scommesso pascalianamente per una vita futura. Blaise Pascal nei suoi Pensieri diceva: “Gli uomini, non avendo potuto rimediare alla morte, alla miseria, all’ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci” (98). Aggiungeva poi: “Corriamo senza un pensiero verso il precipizio, dopo esserci messi davanti agli occhi qualcosa che ci impedisca di vederlo” (108).

La Chiesa accompagnava queste meste liturgie con le melodie della Messa da Requiem gregoriana. L’introito aveva un qualcosa di mesto ma insieme di sereno, è come se volesse ammonire e allo stesso tempo consolare.

Sarebbe certo terribile pensare ad uno squilibrio fra le due dimensioni, fra una Chiesa troppo ammonitrice o una troppo consolatoria. La sapienza tradizionale sapeva armonizzare le due dimensioni, che ben si riversavano nell’essenziale Kyrie.

Le invocazioni per il riposo eterno dell’anima e per impetrare l’assoluzione dei fedeli defunti si succedevano sulla bocca dei cantori e dei fedeli quando si arrivava alla bellissima sequenza medioevale Dies irae, ricca di immagini vivide e che presenta il momento terribile e meraviglioso della morte e prefigura il giudizio finale:

“Giorno d'ira sarà quello: il fuoco distruggerà il mondo come disse David con la Sibilla.
Qual terrore vi sarà, quando verrà il giudice ad esaminare tutto con rigore!
La tromba spanderà il suono mirabile sulle fosse della terra, radunerà tutti presso il trono.
Stupirà morte e la natura, quando la creatura risorgerà per rispondere al Giudice.
Sarà aperto il libro scritto, dove è tutto quello riguardo a cui il mondo sarà giudicato”.


Le preghiere in canto, con melodie a volte essenziali a volte più fiorite, proseguivano fino alla comunione, in cui si invocava la luce eterna sui defunti e ci si augurava che essi potessero riposare con gli altri santi nell’eternità di Dio, in Lui si confida perché è buono e non certo per i nostri meriti.

Dopo la comunione altri canti accompagnavano il congedo finale, tra cui il serafico In paradisum, in cui si augurava all’anima defunta di essere scortata dagli angeli alla meta finale e di essere accolti dai martiri verso la Gerusalemme celeste.

Era tutto, come ho detto, mesto ma anche consolante, la forza della fede suppliva al dolore che certamente non si può eliminare, se vogliamo rimanere umani.

Oggi di tutto questo ci si è liberati, lo si è ritenuto superfluo, non necessario. Oggi molti preti parlano sempre bene dei morti, tanto che io in certi funerali ho pensato di aver sbagliato chiesa…non dovrebbe il prete parlare del morto, ma dovrebbe essere la Parola di Dio che attraverso quella cerimonia ci parla della speranza Cristiana nella vita eterna.

Se non ne parla il prete, ecco che i congiunti possono aggiungere qualcosa alla fine, tanto per caricare l’atmosfera emotiva già in sé bella piena.

Comunque, c’è da dire per nostra consolazione, che almeno poi tutto si scioglie all’uscita della bara con un bell’applauso, il giusto tributo alle nostre vite trasformate da una Chiesa con vista sul mondo in facili pretesti per un lungo reality show.