La fede cattolica non si offende solo con l'eresia

Oggi si tende a cadere in una semplicistica dicotomia tra eresia e ortodossia. In effetti tra il bianco (la piena ortodossia) e il nero (l’aperta eresia) c’è una zona grigia che i teologi hanno esplorato con precisione. Esistono proposizioni dottrinali che, pur non essendo esplicitamente eretiche, sono riprovate dalla Chiesa con qualificazioni teologiche proporzionali alla gravità e al contrasto con la dottrina cattolica. L’opposizione alla verità presenta infatti gradi diversi, a seconda che sia diretta o indiretta, immediata o remota, aperta o dissimulata, e così via. Le “censure teologiche” (da non confondersi con le censure o pene ecclesiastiche) esprimono, come spiega nel suo classico studio il padre Sisto Cartechini, il giudizio negativo della Chiesa su di una espressione, una opinione o un’intera dottrina teologica (Dall’opinione al domma. Valore delle note teologiche, Edizioni “La Civiltà Cattolica”, Roma 1953).
Questo giudizio può essere privato, se dato da uno o più Teologi per conto proprio, o pubblico e ufficiale, se promulgato dall’autorità ecclesiastica. Il Dizionario di teologia dogmatica del card. Pietro Parente e di mons. Antonio Piolanti così riassume la dottrina: «Le formule di censure sono molte, con una gradazione che va dal minimo al massimo. Si possono aggruppare in tre categorie: Prima categoria: riguardo al contenuto dottrinale una proposizione può essere censurata come: a) eretica, se si oppone apertamente a una verità di fede definita come tale dalla Chiesa; secondo la maggiore o minore opposizione la proposizione può dirsi prossima all’eresia, di sapore eretico; b) erronea nella fede, se si oppone a una grave conclusione teologica, che deriva da una verità rivelata e da un principio di ragione; se si oppone a una semplice sentenza comune tra i Teologi, la proposizione è censurata come temeraria.
Seconda categoria: riguardo alla forma difettosa, per cui la proposizione è giudicata equivoca, dubbia, capziosa, sospetta, male sonante ecc. pur non contraddicendo ad alcuna verità di fede sotto il punto di vista dottrinale.
Terza categoria: riguardo agli effetti che può produrre per le particolari circostanze di tempo e di luogo, pur non essendo erronea nel contenuto e nella forma. In tal caso la proposizione è censurata come perversa, viziosa, scandalosa, pericolosa, seduttiva dei semplici» (Dizionario di teologia dogmatica, Studium, Roma 1943, pp. 45-46).
In tutti questi casi la verità cattolica manca di integrità dottrinale o è espressa in maniera carente e impropria. Questa precisione nel qualificare gli errori si sviluppò soprattutto tra il XVII e il XVIII secolo, quando la Chiesa si trovò ad affrontare la prima eresia che lottò per rimanere interna: il giansenismo. La strategia dei giansenisti, come più tardi quella dei modernisti, era quella di continuare ad auto-proclamare la loro piena ortodossia, malgrado le reiterate condanne. Per evitare l’accusa di eresia, essi si ingegnarono nel trovare formule di fede e di morale ambigue ed equivoche, che non si opponevano frontalmente alla fede cattolica e permettevano loro di restare nella Chiesa. Con altrettanta accuratezza e determinazione i teologi ortodossi individuarono gli errori dei giansenisti, bollandoli secondo le loro specifiche caratteristiche.
Il papa Clemente XI, nella bolla Unigenitus Dei filius, dell’8 settembre 1713, censurò 101 proposizioni del libro Réflexions morales del teologo giansenista Pasquier Quesnel come, tra l’altro, «false, capziose, male sonanti, offensive per le pie orecchie, scandalose, perniciose, temerarie, offensive per la Chiesa e per la sua prassi, sospette di eresia, in odore di eresia, atte a favorire gli eretici, le eresie e lo scisma, erronee e prossime all’eresia » (Denz.-H, n. 2502).
Pio VI, nella bolla Auctorem fidei del 28 agosto 1794 condannò a sua volta ottantacinque proposizioni, estratte dagli atti del Sinodo giansenista di Pistoia (1786). Alcune di queste proposizioni del Sinodo vengono espressamente qualificate come eretiche, ma altre sono definite, a seconda dei casi: scismatiche, sospette di eresia, inducenti all’eresia, favorevoli agli eretici, false, erronee, perniciose, scandalose, temerarie, ingiuriose alla comune pratica della Chiesa (Denz.H, nn. 2600-2700). Ognuno di questi termini ha un significato diverso. Così la proposizione in cui il Sinodo professa «essere persuaso che il Vescovo abbia ricevuto da Gesù Cristo tutti i diritti necessari per il buon governo della sua diocesi», indipendentemente dal papa e dai Concilii (n. 6), è «erronea» e «induce nello scisma e nella sovversione del regime gerarchico»; quella in cui si rigetta il limbo (n. 26), è considerata «falsa, temeraria, offensiva verso le scuole cattoliche»; la proposizione che proibisce di porre sugli altari reliquiarii o fiori (n. 32) è detta «temeraria, ingiuriosa al pio e riconosciuto costume della Chiesa»; quella, che auspica il ritorno agli arcaici rudimenti della liturgia, «col richiamarla ad una maggiore semplicità di riti, con esporla in lingua volgare, e con proferirla con voce alta» (n. 33), viene definita «temeraria, offensiva delle pie orecchie, oltraggiosa verso la Chiesa, favorevole alle maldicenze degli eretici contro la Chiesa stessa». Questo insegnamento è importantissimo per ricordare come la chiarezza espositiva sia sinonimo di chiarezza di contenuti e di idee e così di ortodossia. La confusione - volontariamente o no - provocata, non viene da Dio, ma dal diavolo, per chiosare le parole di Nostro Signore.

Originale: www.corrispondenzaromana.it/la-fede-cattoli…
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