Seminario diocesano, il luogo dove muoiono le vocazioni – di Andrea Maccabiani – Ricognizioni
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Non è da confondere con l’altra bestia strisciante dello scandalo sessuale. Quest’ultima è più appariscente, ama riempire le prime pagine e i salotti in tv. Come nel caso, ad esempio, dello scandalo delle orge in un seminario in Austria, complici anche i superiori. Era il 2004 e ne parlò anche il Corriere della Sera: www.corriere.it/…/preti.shtml. Oppure il tragico record della diocesi di Brescia dove tre vicerettori di seguito sono stati condannati dalla magistratura per reati sessuali: www.ilfattoquotidiano.it/…/34976. No, questa bestia cui mi riferisco non ama i grandi scandali e la luce dei riflettori, agisce sempre nell’ombra e si nutre dell’indifferenza.
Andiamo con ordine. Il seminario diocesano è il luogo preposto alla formazione dei futuri sacerdoti che presteranno servizio in quella particolare porzione di Chiesa chiamata appunto diocesi. I religiosi appartenenti a un ordine compiono un altro percorso in altre strutture a disposizione della loro famiglia religiosa, con una formazione più improntata a questo tipo di vocazione. A causa della scarsità di vocazioni talvolta le diocesi uniscono seminaristi e sforzi economici per gestire seminari condivisi, che sono detti regionali se coinvolgono tutte le diocesi di un’intera regione ecclesiastica oppure interdiocesani se vi confluiscono solo alcune diocesi. Le diocesi più grandi dispongono ancora di un seminario proprio. È detto invece “seminario minore” quella parte specifica del seminario diocesano dove vivono e studiano bambini e ragazzi dalla prima media alla quinta superiore, oppure solamente quelli delle superiori. Queste realtà, un tempo diffuse ovunque e frequentate anche a prescindere da una eventuale vocazione sacerdotale, adesso sono in via d’estinzione. Un ragazzo in possesso di diploma che sentisse di intraprendere la strada del seminario, dopo essersi fatto conoscere dal proprio parroco di riferimento e dal proprio vescovo, deve compiere un anno introduttivo chiamato “propedeutico”. Non è un vero e proprio anno di seminario: vi si compiono studi introduttivi e il suo scopo è di abituare con gradualità il propedeuta ai vari impegni della comunità. Terminato quest’anno, se i superiori lo ritengono opportuno, il propedeuta diventa ufficialmente seminarista e può intraprendere il percorso del seminario. Il primo impegno importante è lo studio delle materie teologiche che è strutturato come un’università qualunque: si compone di un ciclo di studi di 5 anni con esami e crediti. Naturalmente è indispensabile anche una solida formazione spirituale e umana, tramite la vita liturgica, la direzione spirituale, il servizio pastorale e quant’altro. Prima di accedere agli ordini sacri vi sono alcune tappe: l’ammissione agli ordini (dopo il secondo anno), il ministero del lettorato (dopo il terzo anno), il ministero dell’accolitato (dopo il quarto anno). Poi, terminati gli studi teologici, l’ordinazione diaconale e poco dopo quella sacerdotale. In totale sono 6 o 7 anni di formazione, variabili a seconda del seminario.
Questa è la facciata delle cose. Cerchiamo di andare un po’ dietro la scenografia e vedere cosa succede veramente. Tutta la struttura educativa è di tipo “riempitivo”: i seminaristi sono soggetti da resettare e ri-programmare (testuali parole udite da un vescovo italiano responsabile di un seminario regionale). Ecco quindi il moltiplicarsi di parole, omelie quotidiane, lezioni, conferenze, iniziative disparate e tutto quanto possa servire per “buttare dentro roba” nei soggetti da educare. Naturalmente non si tiene mai conto dell’impatto reale di questo bombardamento sulle persone: l’importante è “aver fatto”.
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Avete letto bene: quasi sempre si peggiora. Perché? Pur essendoci un numero ridotto di soggetti, si tende sempre a mettere in secondo piano la singola persona in favore di una generica comunità. Pare di sentire il grido di Guareschi: «nessuno è più solo dell’uomo sperduto nella folla». Tolta la direzione spirituale, il resto del lavoro educativo è sul gruppo e mai sul singolo. Si lavora sulla persona solo all’insorgere di gravi problemi, quando cioè la bestia di cui sto parlando ha aggredito qualcuno. Si fanno tante cose, se ne dicono in quantità infinita (il seminario è il tempio delle parole) ma poi quando è il momento di stringere? L’esperienza pastorale coinvolge i seminaristi nel fine settimana, quando non ci sono le lezioni di teologia. I seminaristi vengono mandati in parrocchie e messi al servizio di comunità, seguiti dal parroco locale. Ogni due o tre anni vengono cambiati di parrocchia per poter sperimentare cose nuove. Riassumendo: un giovane viene sradicato dalla propria comunità di origine e dalla propria famiglia per entrare in seminario. Poi viene affidato a una parrocchia dalla quale viene sradicato per essere messo in un’altra, questo per almeno tre volte nel corso del curriculum. Poi diviene sacerdote e quindi affidato ad una parrocchia dalla quale viene puntualmente sradicato dopo un certo periodo di tempo fino a che, sfinito dalla vita, finisce il suo ministero in una casa del clero o in famiglia. Lo sradicamento continuo è uno dei principi saldi della moderna impostazione ed è letale per la persona che sente la sua affettività impoverirsi mano a mano che il tempo passa.
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Oltre allo sradicamento c’è la grave pestilenza della doppia vita. In seminario si impara ad avere un angolo privato dove nessuno entri e dove nessuno può giudicare. Essendo un perenne “grande fratello” dove tutto ciò che si dice e o si fa può sempre essere usato contro di te, si impara a tacere, a parlare sottovoce, a preferire sorrisini compiaciuti, a ostentare interesse. Ma nell’angolino del proprio cuore c’è una voce che si ribella e che è ben chiusa dalle catene. Se vuoi avere successo in seminario (e nella Chiesa) taci e vai avanti. Questa scimmia viene spacciata per obbedienza. L’angolino può però diventare una stanza o un palazzo dove poter fare i porci comodi. Ricevuto il sacramento dell’ordine si continuerà poi a tenere pulito e arredato questo angolo, a coltivare una doppia vita. Non riguarda solo i sacerdoti che riempiono le pagine di cronaca e scandali. Riguarda forse un po’ tutti: c’è chi l’ha in embrione, in maniera latente. Ma c’è. Perché chi ha una sola vita, un solo pensiero, una sola opinione, una sola faccia lo paga caro nella chiesa della misericordia. Meglio l’angolino. Ci si può mettere dentro un hobby o uno sport innocuo dove potersi sfogare. Oppure riempirlo di interesse smodato per le cose sacre. Oppure metterci dentro quella catechista che ammicca. Oppure quel ragazzino che…
Il seminarista (o sacerdote) debilitato da queste due piaghe – l’anaffettività e la doppia faccia- è preda facile della bestia. Che cos’è mai? È la tristezza, la solitudine, l’indifferenza, la depressione, lo svuotamento del cuore. Non è facile contrastarla nemmeno con una vita di Fede limpida se la situazione intorno è perennemente aggressiva. Paiono servire a poco anche i percorsi psicologici attivati nei seminari, di gran moda al giorno d’oggi: troppo spesso i superiori o i vescovi tentano di servirsi del segreto professionale per i loro scopi, siano essi positivi che negativi. Spesso il male di vivere entra in seminario e produce tragedie. È di pogi mesi fa il suicidio di un seminarista di 29 anni a Tortona:
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Non bolliamo questi casi come episodi disperati compiuti da persone fragili e di poca fede. Non è così semplice giudicare non conoscendo come funzionano le cose al di dentro. Cosa significhi vedere in pezzi la propria vita perché autorità umane impediscono la realizzazione della vocazione voluta da Dio (leggi: felicità). Dio opera e fa ciò che vuole: ma non tutto ciò che Dio vuole si realizza nella concretezza delle cose umane. La sua volontà si lascia sporcare dalla libertà umana che può agire anche contro di essa. La responsabilità dell’uomo è in queste cose è enorme: quante scelte sono contro la volontà di Dio sull’altra persona e, quindi, sulla sua felicità? Com’è possibile che proprio in un ambiente sacro come un seminario avvengano queste cose, tra l’indifferenza di tutti, soprattutto di quelli preposti a questo compito?
Il seminarista non ha alcun diritto nelle odierne leggi ecclesiastiche: l’esito del suo percorso educativo è basato interamente sull’arbitrio dei superiori. Nella maggior parte dei casi si può ben supporre che esso sia esercitato onestamente, ma non c’è nulla che tuteli dagli abusi. Un seminarista giudicato negativamente sulla base di fatti opinabili oppure calunniato da terzi non gode di nessun tipo di tutela, a differenza del clero ordinato che invece ha possibilità di ricorso sulle decisioni dei superiori se giudicate meritevoli di appello. I superiori rilasciano ogni anno una relazione sul seminarista che viene consegnata al vescovo diocesano. Il seminarista non ha alcun diritto di conoscerne il contenuto: la missiva è riservata. Nel caos ecclesiale odierno si capisce che questo sistema è perfetto per imporre un pensiero unico e controllare eventuali deviazioni: non basta che l’opinione negativa su una persona, non importa se supportata da fatti oggettivi o meno. Il seminarista può vedere compromesso gravemente il suo percorso sebbene esista la possibilità di poter avere una seconda chance in un altro seminario: nei fatti è però molto improbabile che un secondo seminario accetti un candidato giudicato già negativamente da un altro. Si comprende dunque con quanta facilità è possibile scartare un candidato che sia di impostazione tradizionale o semplicemente non sia perfettamente aderente alla corrente dominante; risulta altresì comprensibile il progresso di quei candidati problematici – sia dal punto di vista umano che morale – che però meglio si adattano al sistema.
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